Una ricostruzione della storia o meglio dell’avventura di Giulia Ligresti
Bellissima, borderline quasi come la contessa Vacca Agusta, non aveva voglia di fare i lavori socialmente utili in seguito al patteggiamento per bancarotta fraudolenta da 2 anni e 8 mesi.
E’stata arrestata nei giorni di ottobre 2018 – giorni di caldo tropicale con punte di 40 gradi (sic!) e di sudamericanizzazione tout court dell’Italia – Giulia Ligresti, la figlia del Gordon Ghekko dell’edilizia della Milano da bere Salvatore Ligresti, morto a 86 anni. Sia il padre che la figlia sono a parere di chi scrive due “schizofrenici marginali”, la cui storia ha danneggiato profondamente l’economia nostrana, alterando per sempre la fisiologia dei meccanismi del Libero Mercato nel Sistema Paese più da Godfather che da capitalismo occidentale, e da morente Welfare State: se non c’è competitività, muoiono anche i diritti.
Un dramma tutto italiano, di cui si cominciano a scontare veramente le conseguenze soltanto adesso (anche se Salvini dice “me ne frego delle agenzie di rating”). Attenzione, perché Giulia Ligresti è nuovamente in pericolo di vita, come lo fu durante la reclusione scontata nel 2013 a causa dei problemi di anoressia e psicopatologici ereditati dal padre: il falso Sè nello scollamento tra personaggio e persona, immagine e realtà. E in ballo – ieri come oggi – c’è un sospetto riciclaggio di denaro sporco che avrebbe costituito l’arcano inconfessabile dell’origine della fortuna Ligresti, sul quale la inflessibile magistratura milanese vuole da sempre vederci chiaro.
Occorre tuttavia un antefatto. La storia di Giulia e dei suoi fratelli, dagli insopportabili tratti piccoloborghesi, è praticamente sovrapponibile a quella del “banchiere di Dio” Roberto Calvi che poi nel mezzo delle sue bufere giudiziarie si scoprì schizofrenico; il “re del mattone” e/o “Mister 5%” Don Salvatore non è finito male come Calvi o Sindona (perdendo la maschera del falso Io) soltanto per una questione di fortuna, per abilità o furbizia, ma ora sono i figli a pagarne il costo. E’ opportuno citare ampiamente il “liberista” Gianni Barbacetto nel suo stupendo dossier “Ligresti, l’impresentabile usato e poi scaricato dai salotti del potere” che ha uno sfondo psicopatologicamente inquietante: Pinocchio mascherato da genio. Vediamo come. Soprattutto a scopi pedagogici nei confronti dei più giovani:“E’ uscito di scena da sconfitto, a 86 anni, ed è un altro pezzo della storia italiana del capitalismo di relazione che se ne va. Salvatore Ligresti è stato un oscuro e misterioso scalatore del potere, poi il celebrato “re del mattone” della Milano da bere, il rispettato “Mister 5%” della finanza, il solerte alleato di Mediobanca. Infine, girato il vento, è diventato il bersaglio di ogni attacco e di ogni disprezzo (messo ai domiciliari, ndr).
Don Totò arriva a Milano sul finire degli anni Cinquanta. Non ha alcun capitale, solo una laurea in ingegneria conquistata all’università di Padova e una furbizia innata, un gran fiuto per gli affari. E’ siciliano, nato il 13 marzo 1932 a Paternò, in provincia di Catania. Ma è a Milano che consolida i rapporti che gli schiuderanno le porte del successo. Il suo primo maestro è Michelangelo Virgillito, suo compaesano, grande manovratore di Borsa nella Milano del “miracolo economico”. Il secondo è Raffaele Ursini, l’uomo che eredita da Virgillito il gruppo Liquigas e lo porta al fallimento. Da loro Ligresti impara a muoversi da corsaro nel mondo della finanza e degli affari immobiliari. Da Michele Sindona rileva invece la Richard-Ginori, ormai povera di produzione ma ricca di aree industriali da dismettere e riempire di palazzi… L’avventurosa conquista della Sai avviene comunque con la partecipazione di una piccola folla di strani personaggi. C’è Luigi Aldrighetta, operatore finanziario palermitano che fa da mediatore per l’acquisto da parte di don Salvatore di un ulteriore, grosso pacco di azioni Sai. Ci sono i sei fratelli Massimino, costruttori catanesi partiti da zero (erano muratori) e diventati potenti: erano intestate a loro due misteriose finanziarie, la Finetna e la Premafin, che controllavano la Sai nel periodo d’interregno tra la fuga di Ursini e l’arrivo palese di Ligresti ai vertici della compagnia. A manovrare il passaggio del tesoro dai “perdenti” (Virgillito, Ursini, Sindona) a Ligresti è Antonino La Russa…”. Salvatore Ligresti, come documenta bene Barbacetto, rischia insomma fin dagli anni Settanta di finire in carcere come il prestanome di Sindona, mandante dell’assassinio di Giorgio Ambrosoli: “Sarà per opacità come queste che a Milano, attorno a Ligresti, crescono subito leggende nere, che adombrano rapporti sotterranei con la mafia. La domanda che circola nei salotti buoni è: ma dove ha preso, questo signore, tutti quei soldi? Come ha potuto diventare padrone della Sai un uomo che nel 1978 dichiarava un reddito di soli 30 milioni di lire?Come ha fatto a diventare, in pochi anni, uno dei cinque uomini più ricchi d’Italia, uno dei pochi italiani presenti nelle classifiche di Forbes e Fortune?”.Questo passaggio è di estrema importanza per capire che cos’è il capitalismo senza mercato in Italia – la ragione prima dell’ormai imminente fallimento del nostro Paese– e la finzione psicopatologica del “personaggio sganciato dalla persona”: cioè l’imbroglio come tratto costitutivo del successo, senza i cui meccanismi difensivi si rivela una fragilità latente che è ai confini del suicidio (vedere Liliana Dell’Osso e Dalle Luchene L’altra Marilyn): “Sulla presunta mafiosità di Ligresti vengono compiute anche indagini ufficiali, molto discrete, senza che nulla trapeli. Nel 1984 il procuratore della Repubblica di Roma, Marco Boschi, invia a polizia, carabinieri e guardia di finanza una richiesta che dice: “Ai fini di un’eventuale proposta per l’applicazione di misure di prevenzione, prego fornire le informazioni del caso in ordine a Finocchiaro Franco, residente a Catania, e a Ligresti Salvatore, residente a Milano”. Dunque Ligresti (insieme a Finocchiaro, che con Carmelo Costanzo, Mario Rendo e Gaetano Graci è uno dei quattro “cavalieri dell’Apocalisse” catanesi) è stato oggetto di un’indagine di polizia, di quelle che si facevano nei confronti dei sospetti mafiosi per valutare l’eventuale decisione di misure di prevenzione quali il confino. Nel 1985 il suo fascicolo, che a Roma era stato assegnato al sostituto procuratore Franco Ionta, viene inviato a Milano, dove se ne occupa Piercamillo Davigo, in un secondo momento affiancato da un altro magistrato della procura, Filippo Grisolia, che già indagava su Ligresti per una storia di licenze urbanistiche. Dopo alcuni anni di accertamenti, il dossier mafia su don Salvatore è stato chiuso, senza alcuna conseguenza. Il nome di Ligresti compare anche in un’altra indagine giudiziaria, svolta da Ernesto Cudillo, in rapporto alla compravendita di un palazzo all’università romana di Tor Vergata, che ha come protagonista Manlio Cavalli, secondo i carabinieri legato alla banda della Magliana e al boss di Cosa Nostra nella capitale, Pippo Calò. Indagine senza risultati…”.
A un certo punto, Ligresti rischia di fare la fine di Michele Sindona (ma a differenza di Sindona viene salvato da Enrico Cuccia che con il primo fu assai più duro): “Ma gli affari sono più severi della politica, non perdonano gli errori: palazzi invenduti vogliono dire crisi. L’indebitamento finanziario netto di Ligresti, infatti, è da vertigine: più di 1.150 miliardi di lire, una dozzina di volte il patrimonio netto. Per di più il vecchio maestro, Ursini, si rifà vivo e trascina Ligresti in tribunale, perché pretende che gli sia restituita la sua Sai. Uno senza santi in paradiso, in queste condizioni, sarebbe miseramente fallito nel corso di una notte. Ligresti invece si salva. Nerio Nesi, allora presidente della Bnl, ha raccontato di aver ricevuto nel 1987 da Bettino Craxi l’ordine di concedere un grosso finanziamento a Ligresti. Dopo aver incassato il rifiuto di Nesi, Craxi s’infuria: “Devi ancora imparare come si fa il banchiere!”. Ma poi è nientemeno che Enrico Cuccia a correre in aiuto di don Salvatore. Il silenzioso presidente di Mediobanca nel 1989 decide di imporre la quotazione in Borsa della Premafin, chiedendo al mercato, come al solito in Italia, di sborsare i soldi necessari. Cuccia impone per la Premafin una valutazione di oltre 1.000 miliardi, 1,4 volte gli utili viene realizzato soltanto grazie alle corsie preferenziali della politica: Ligresti vende molti dei suoi palazzoni vuoti agli enti pubblici, forzando il mercato. Era Tangentopoli all’opera, anche se la parola non era stata ancora inventata. Perché Cuccia salva Ligresti? Ha un debito nei suoi confronti: era stato don Salvatore a portare Bettino Craxi negli uffici di Mediobanca, stabilendo il primo contatto tra il leader socialista e Cuccia che fu prezioso per avviare, nel 1984, le operazioni di privatizzazione di Mediobanca sotto la regia dello stesso Cuccia… Cade una seconda volta sulla via di Mani Pulite. Nel 1992 viene arrestato e passa 112 giorni in cella…”.
Oggi la figlia Giulia di Salvatore è veramente nei guai per i“gironi danteschi” di suo padre, e forse non ne uscirà viva (noi le auguriamo invece la concessione dei domiciliari e un’ottima salute!). I comportamenti anti-sociali e anticapitalistici di un uomo così simile al Padrino di Mario Puzo come S. Ligresti – sanzionati a corrente alternata dalla Magistratura senza la “psicosi” di Sindona e di Calvi, impazziti quando persero le loro fortune imbrogliate – possono essere integrati con questo agile racconto a firma di Piero Ottone nel suo “Il gioco dei potenti” edito da Longanesi sullo sfortunato Roberto Calvi. Ligresti senior non ha fatto la fine di Calvi –repetita iuvant– soltanto per un soffio:
“Una piccola banca di preti – Anni or sono, un inglese tentò di partecipare a una regata intorno al mondo in solitario su una barca a vela, e il suo tentativo diede origine a una tragica storia di mare, una delle più tragiche che io conosca. Non c’era niente di strano nel fatto che quell’inglese, di nome Crowhurst, volesse navigare in solitario attraverso gli oceani. Ormai lo fanno in tanti. La peculiarità della sua situazione era nel fatto che egli era pieno di debiti. Ingegnere elettronico, o qualche cosa di simile, non aveva avuto un’esistenza fortunata, raramente aveva conosciuto la gioia del successo. Aveva dato vita a un’impresa, e l’impresa era andata male. Si era cimentato in altre avventure, ed erano andate male anche quelle. Però era sempre disposto a ricominciare da capo, sempre più triste, forse già rassegnato a perdere, eppure deciso a rilanciare. Alla fine aveva deciso di giocare tutto su quella impresa transoceanica. Fece altri debiti per procurarsi un catamarano, cioè un’imbarcazione di due scafi, tenuti insieme da putrelle metalliche; si procurò le vele, le attrezzature elettroniche, gli strumenti, e le provviste; ottenne anche una sponsorship, da parte di qualcuno disposto a scommettere sul suo successo. E si preparò al grande viaggio, frettolosamente per la verità, con affanno, perché le difficoltà finanziarie si sommavano a quelle tecniche, e quando manca il denaro non si lavora con serenità. Ora, la storia di Crowhurst era resa molto patetica dal fatto che egli aveva famiglia, moglie e figli; e faceva quel che faceva più per loro che per se medesimo; alternava i momenti di euforia ai momenti di sconforto, sperava di farcela, però aveva dubbi e timori, e talvolta si sentiva come un miserabile, come un poveraccio, costretto a tentare l’impossibile per quella donna e per quei ragazzi, ai quali non aveva saputo provvedere con mezzi meno inconsueti; la navigazione in solitario non è un’impresa sovrumana, ma bisogna pur essere buoni marinai per saperla fare, e Crowhurst conosceva i suoi limiti, sapeva di essere un marinaio appena passabile, così che si sentiva molto piccino, inferiore al compito che si era prefisso, e velleitario. Fu terribile l’ultima notte, prima della partenza, quando, sdraiato accanto alla moglie, assalito dai presentimenti e dalla paura, non riusciva a prendere sonno, e pensava che quella sarebbe stata l’ultima notte della sua vita accanto alla famiglia, e quasi decise di rinunciare. Ma era ormai troppo avanti, c’erano gli impegni presi con tanta gente, soprattutto c’erano i debiti, che non avrebbe mai potuto pagare se non fosse partito. Crowhurst partì. C’è spettacolo più triste di un uomo ridotto allo stremo, con le spalle al muro, alle prese con qualche cosa più grande di lui? I guai di Crowhurst cominciarono quasi subito. Il catamarano è un’imbarcazione delicata, le putrelle metalliche sono sottoposte a sforzi enormi e facilmente cedono, quello di Crowhurst era stato costruito in fretta, e in economia per mancanza di mezzi. Presto egli si convinse che non avrebbe mai potuto fare il giro del mondo, e cominciò a vagabondare per l’Atlantico, irresoluto, disperato; ed ebbe un’idea audace e folle, quella di far credere, attraverso i messaggi radio, che stava proseguendo il suo viaggio; cominciò a tenere due giornali di bordo, uno veritiero, che descriveva gli spostamenti reali, l’altro immaginario, che descriveva un viaggio che non avrebbe mai fatto; e intanto, nella sua solitudine in mezzo al mare, pensava alla casa, alla moglie, ai ragazzi, e all’obbrobrio generale che si sarebbe abbattuto su di lui, se l’imbroglio fosse stato scoperto: i suoi pensieri diventavano sempre più ossessivi, sempre più confusi, sempre più folli… Un giorno, una nave che attraversava l’oceano vide un catamarano solitario, che dondolava sul mare tranquillo. Chiamarono, e nessuno rispose. Misero in mare una scialuppa, si avvicinarono. Ma non trovarono nessuno a bordo. C’era una radio smontata sul tavolo da carteggio, e un giornale di bordo, sul quale erano state scritte parole farneticanti, l’ultima frase interrotta a metà. Crowhurst si era misurato in un’impresa superiore alle sue forze; quando aveva visto che non l’avrebbe portata a termine, tentò di barare; non riuscì neanche nell’imbroglio, e pagò con la vita. La sua vicenda ricorda quella di Roberto Calvi, un banchiere che ha tentato un’impresa folle, superiore alle sue forze, non l’ha portata a termine, ha barato; e ha pagato con la vita anche lui”.
Ps – Occorre avere le carte in regola nella vita, e non si finisce a schifio. Speriamo in ogni caso che Giulia Ligresti, una donna fragile in mezzo a un gioco più grande di lei, si salvi. E torni presto a dominare le serate di Santa Margherita e Porto Rotondo con il tacco 12, perché è davvero “subito sera”… Ed è tutto maledettamente fragile.
di Alexander Bush