Prevengo i lettori: oggi, qualsiasi sondaggio tra gli italiani premierebbe la legge Severino sulla decadenza e incandidabilità al Parlamento dei condannati a pene superiori ai due anni. Novantanove italiani su cento coprirebbero di fischi chiunque osasse metterla in discussione. Lo farebbero naturalmente i grillini, i giustizialisti, quelli che vogliono dire qualcosa di sinistra, le tricoteuses giacobine, il popolo viola, i girotondini, i giuristi progressisti alla Zagrebelsky, i Rodotà-ta-ta, i benpensanti, i moralisti, i renziani e i cuperliani uniti. Ma lo farebbero anche gli altri, i berluscones senza se e senza ma: perché il problema per loro è salvare il padre-padrone di Forza Italia senza farsi accusare di essere dalla parte dei malfattori, non l’abolizione di una legge che è in sé non soltanto illiberale, ma anche pericolosa per la democrazia.
Rispondo in anticipo: e allora? Forse che il compito politico e culturale del pensiero libero non è quello di contestare i luoghisti comuni, i cominformisti, le dittature delle maggioranze, le egemonie d’ogni tipo, il pensiero unico dei poteri forti?
E vediamola dunque, la legge che prevede la decadenza e incandidabilità dei condannati in via definitiva a pene superiori ai due anni di reclusione. Naturalmente, in un Paese come l’Italia, dove intorno alla magistratura si combatte da decenni una guerra politica e mediatica, l’applicazione a Silvio Berlusconi di una simile legge ha portato con sé paralisi del parlamento e rischio immediato di crisi di governo. Evitabili? Ma non scherziamo: quando mai si è visto un partito di una coalizione votare per la decadenza del leader del partito alleato, senza provocare automaticamente una crisi di governo? In realtà, i “colpevolisti” si sono rifugiati dietro lo slogan “la legge è uguale per tutti” come se abitassero su Marte e la questione non fosse politica. Mentre gli “innocentisti”, dimenticandosi di aver votato a suo tempo proprio questa legge (al tempo del governo Monti, per pura sudditanza culturale e ignoranza dei principi liberali), ora sostengono più o meno discutibilmente la sua non retroattività (salvo applicazione contra personam a Berlusconi) e addirittura non costituzionalità.
Manca la elementare considerazione: ma è giusto stabilire “ex lege” la impossibilità di chiunque a candidarsi alle elezioni, qualora si trovi in libertà e dunque goda degli stessi diritti politici degli altri? Deve essere lo Stato (in questo caso la magistratura) a stabilire chi è degno e chi no di concorrere alle cariche? Deve essere il giudice (in barba alla separazione dei poteri fra il giudiziario e gli altri due) ad avere l’ultima parola, mentre il Parlamento dovrebbe limitarsi a “prendere atto”? E qual è la legittimità di un limite qualsiasi stabilito nei confronti dei diritti politici di chiunque? Perché una condanna a due anni e un giorno esclude, mentre una a un anno e 355 giorni autorizza? Chi ci assicura che certe condanne o assoluzioni non vengano prese, ad esempio, sotto la pressione di poteri incontrollabili (mafie, servizi deviati, lobby, società segrete) allo scopo di eliminare un leader emergente sgradito, o al contrario favorire un suo avversario? Non è già la durata dei procedimenti e il rischio di insabbiamento una pericolosa discriminante fra chi è protetto e chi no? E nel caso, poniamo, che io consideri ingiustamente condannata una persona (non esiste solo Berlusconi, se ci trovassimo in Russia il caso potrebbe porsi per le Pussy Riots…) perché non dovrei avere la libertà di votarla?
In realtà, la condanna penale di chiunque dovrebbe costituire di per sé una “bolla morale” insuperabile agli occhi dell’opinione pubblica realmente ispirata a una cultura delle libertà; perché le persone per bene sono ancora molte. Inoltre, sarebbe sufficiente restituire agli elettori – grazie a un sistema elettorale maggioritario di collegio, e con l’obbligo di primarie – la facoltà di scegliere il loro rappresentante, per avere una ragionevole certezza che, salvo casi limite, non sceglierebbero un pregiudicato. E sarebbe importante, ancora, imporre l’obbligo ai candidati, nelle liste elettorali, nei manifesti, durante i comizi ed apparizioni in tv, nel corso della stessa campagna elettorale, di dichiarare integralmente le proprie condanne penali, con l’obbligo di certificare su un sito istituzionale i relativi atti.
Insomma, il punto centrale è questo: deve deciderlo il giudice o il cittadino elettore chi sia degno di sedere in Parlamento e chi no? Lo Stato deve imporci la sua morale, o dobbiamo noi stessi esserne responsabili?
Gaston Beuk