DEFICIT SPENDING PIU’ “DISTRUZIONE CREATRICE”: SOLO COSI’ L’OCCIDENTE SI SALVERA’ DALL’ABISSO. MA CHRISTINE LAGARDE SBAGLIA

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Probabilmente ci sarà la più grande crisi dal 1929, anche perché la Trojka ha ignorato i consigli di Giulio Tremonti le cui posizioni accademiche nel libro “Uscita di sicurezza” del 2012 anticiparono esattamente quello che sta avvenendo oggi

“… Voglio credere per un attimo che Caffè non sia sparito. Che Majorana fosse quello che insegnava in Sudamerica. Che dopo la sparizione ci sia una vita di qua e non di là.
Voglio credere che debba esserci ancora coraggio, nell’epica delle grandi menti. Il valore di Bruto, la qualità che difetta agli dèi. Spesso nella Storia una scoperta, una via nuova, un avanzamento del pensiero hanno coinciso con una drammatica resa dei conti interiore…
Se progredire è superare il limite, ciò che viene dopo può essere spaventoso.
Restare indifferenti diventa vile…”.
Guido Maria Brera, “Dimmi cosa vedi tu da lì – Un romanzo keynesiano”

Sta venendo giù l’Europa, anche se non si può portare al cosiddetto “punto di equilibrio” – cioè la verità ultima – la teoria della decadenza della civiltà occidentale di Oswald Spengler.
L’articolo di Mario Platero su “Affari e Finanza” del 16 maggio 2022 “L’incubo americano dell’inflazione” coincide quasi interamente con lo sconvolgente romanzo di Guido Maria Brera “Dimmi cosa vedi tu da lì” edito da Il Corriere della Sera, dove però Brera, che fa parte dei Diavoli della finanza, commette l’errore di portare al “punto di equilibrio” il keynesismo: lo stesso errore che commise Federico Caffè, e che pagò con la vita.
Con l’ambiguità narrativa di James Ellroy, scrive Brera sullo sfondo del “too big to fail” inaugurato dall’Amministrazione Reagan: “… La sparizione di (Federico, ndr) Caffè è un fatto che si carica di significati simbolici, che dice della fine di un mondo.
E allora: Quando?
Nel pieno degli anni Ottanta, all’inizio dell’eterno presente, dopo la grande inversione di tendenza, e dopo la grande ebbrezza finanziaria. Prima del crac del 1987, però, che sembrò dare ragione ad alcune previsioni del Professore.
Era stato un finanziere, Michael Milken, a inventare quei prestiti a imprese medio-piccole dal potenziale incerto, fondati sull’idea che l’alto rischio indicato dal rating delle imprese non fosse in realtà così alto. Junk bond. Di certo era alto il rendimento, e tanto valeva scommetterci su.
Dopo un po’ i mercati diedero l’allarme: il rapporto tra valore azionario e valore reale era sballato. Si aggiungeva anche un quadro deludente di dati macroeconomici. Precipitarono i Junk bond, precipitò Wall Street. Quel Lunedì nero le Borse del mondo intero fecero schizzare le vendite di azioni statunitensi e futures. Senza sospensione al ribasso, cioè senza lo stop automatico che scatta in caso di fluttuazioni troppo ampie dei valori delle azioni, l’impatto fu spaventoso. Nella polvere che si alzò dalle macerie, fluttuavano anni di valore borsistico accumulato per gradi. Se non fu la crisi del ’29 né il disastro del 2008, fu anche grazie all’intervento della FED e alla liquidità con cui le banche centrali inondarono il sistema finanziario…”.

In realtà quella di Guido Maria Brera è una deduzione fondata su una chiave di lettura riduzionisticamente reaganiana: nell’87 Reagan, avversando ideologicamente il deficit spending che era una pratica respinta tout court dalle teorie di Milton Friedman e Friedrich Hayek (che si mise Von davanti al cognome per accreditarsi come nobile), inondò di liquidità il gioco d’azzardo fallito di Jordan Belfort e Gordon Ghekko; nel caso in cui la Federal Reserve Bank avesse lasciato accadere la “distruzione creatrice” della moribonda deregulation del credito ormai scollegata dall’economia reale che ne socializzava le perdite a discapito dei contribuenti, avrebbe dovuto mettere in campo la spesa in disavanzo come non accadeva dai tempi dell’Amministrazione Roosevelt (sic!).
Poteva Ronald Reagan, l’incarnazione vivente dell’anti-Roosevelt, accettare una simile umiliazione?
No, perché aveva fatto dell’ordoliberalismo di Milton Friedman un dogma.
E fu inaugurato così il “too big to fail”: troppo grande per fallire.
Solo il narcisismo è troppo grande per fallire.
Venne commesso un grosso errore politico, sotto l’influenza ininterrotta – dagli anni Ottanta ad oggi – della tecnocrazia dei Chicago Boys che si collega eziologicamente alla miopia degli esponenti di punta del famigerato Transitory Team dell’Unione Europea: la Stanza di Transizione, i guardiani dell’ortodossia, i gattopardi della Trojka.
Alla crisi dello status quo oppongono lo status quo, nell’”eterno ritorno dell’uguale”.
Perché sono schiavi di un’impostazione mentalmente sbagliata, che sta continuando da trent’anni: salvare il gioco d’azzardo, con le mille interpretazioni gattopardesche al limite del deficit spending.
Che però sta presentando il suo gran ritorno, al netto del rifiuto idiosincrasico da parte dell’establishment europeo: la realtà esiste, da Michael Milken a Christine Lagarde che non ha l’originalità del predecessore Dominique Strauss Khan, un socialista tra i Diavoli.
Scrive Mario Platero, rivelando la crisi d’identità della fine di un’epoca nel suo dossier “Per Biden una sfida ad alto rischio. L’incubo americano dell’inflazione”, e l’insufficienza piccoloborghese di un pseudoestablishment che è il Titanic dell’Europa (sarà facile dirlo dall’esterno della stanza dei bottoni, ma è nello stesso tempo doveroso):

“E’ ormai un’ossessione. In America non si parla d’altro che d’inflazione. E si descrive con tutti gli scenari possibili, economici, geopolitici, le inevitabili conseguenze sul mercato del lavoro, sul potere d’acquisto, sui salari, sui costi impossibili da gestire quando uno stipendio che copriva a malapena il giorno per giorno non arriva più a coprire il necessario. E il problema diventa sociale: vedremo una caduta dell’occupazione? Cosa succederà al settore immobiliare? Per ora tiene, ma fra sei mesi?
La frenesia è esplosa anche perché per 40 anni il problema non si è posto e varie generazioni di giovani e meno giovani non hanno mai dovuto preoccuparsi di una conseguenza “inflazione” sul lavoro, nella vita del giorno per giorno, nell’organizzare produzioni o approvvigionamenti.
Oggi invece – all’improvviso – tutto costa mediamente il 10, il 15, persino il 30% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Nessuno se lo aspettava perché, alle prime avvisaglie, la Federal Reserve diceva che il problema inflazione era “temporaneo, dovuto all’impatto delle forti spese pubbliche, ma non sarebbe diventato strutturale”. Adesso strutturale lo è, con un impatto politico.
Ho rivisto il dibattito di un anno fa fra due giganti della pubblicistica americana, l’economista ed ex segretario al Tesoro Larry Summers e lo storico Niall Ferguson (fratello di Charles Ferguson autore dello splendido film “Inside job”, ndr). Si sono incontrati di nuovo la settimana scorsa, sempre su Bloomberg Tv. Il cambiamento in un anno è straordinario.
Un anno fa Ferguson affermava che ragionando su basi storiche e su statistiche macro in tempo di pace, emergeva una tendenza democratica a spendere enormi quantità di denaro. Franklin Delano Roosevelt e il suo New Deal, negli anni Trenta; la Great Society di Lyndon Johnson nei Sessanta, con necessari ma imponenti programmi sociali che andavano ad appesantire i conti dello Stato. E prima, la guerra in Corea di Harry Truman.
E anche qui, l’inflazione sarebbe tornata per colpa di spese massicce stanziate per compensare gli effetti negativi del Covid.
Un anno fa Larry Summers valutava invece solo nel 30% le probabilità che l’inflazione esplodesse per via del pacchetto di Joe Biden, con spese forse al di sopra del necessario.
Anche perché proprio Summers, subito dopo la crisi del 2008-09, aveva elaborato una teoria secondo cui l’America sarebbe entrata in un periodo di maturità del suo livello di crescita, ci si sarebbe dovuti accontentare di una crescita di tipo europeo, fra l’1 e il 2%, compensata da tassi di interesse strutturalmente bassi”.

Fermiamo un attimo il thrilling al cardiopalma di Mario Platero: i papers di Larry Summers, già commentati lucidamente da Guido Maria Brera, non tenevano conto di un fatto: “la realtà è sempre più complessa dell’interpretazione che ne diamo” (George Soros dixit), ed è la teoria che va aggiornata di pari passo ad essa, non può la realtà adeguarsi ai modelli; Larry Summers, stretto tra i fantasmi di Keynes e Friedman, riponeva una eccessiva fiducia nel Cogito ergo sum di Immanuel Kant, nell’illusione di riprogettare la realtà che poi gli ha presentato il conto:

1. ARRIVA LA PANDEMIA E POI LA GUERRA IN UCRAINA: SALTA IL TOO BIG TO FAIL
“I mercati riprendono ad analizzare debito pubblico e crescita, indicatori per noi critici. Gli scostamenti di bilancio decisi dal Parlamento hanno aumentato il deficit ed è difficile che quest’anno il rapporto debito/Pil scenda come nel 2021. C’è il timore che la legge finanziaria, che sarà decisa poco prima delle elezioni, crei i presupposti per aumentare il “debito cattivo” privo di effetti duraturi sulla crescita. Le prospettive dipendono dalle riforme del Pnrr: molto è stato fatto ma molto rimane da fare.
Il punto interrogativo è sulla volontà di continuare sulla strada virtuosa dell’era Draghi nel periodo elettorale”
Lorenzo Bini Smaghi, presidente della Société Générale

“Il premier, mentre si impegna a tener fede alla road map del primo Recovery plan, propone di finanziare con prestiti – non sussidi, tranquillizza i falchi del Nord – la risposta dei governi europei alla crisi energetica”
Anais Ginori (è il più grosso errore politico del dopoguerra, mentre Emmanuel Macron paga un assegno alimentare per 8 milioni di francesi, ndr)

Continuava Mario Platero, sullo sfondo della frustrazione degli obiettivi dei “papers” del “diavolo” Larry Summers, campione dello shadow banking cioè la “finanza ombra”:

“Quello in effetti era ancora il periodo in cui la Fed si preoccupava più di deflazione che di inflazione, anche perché manovre aggressive che avevano portato i tassi a zero non incidevano sull’obiettivo della banca centrale americana – o di quella europea – e cioè innalzare un tasso di inflazione ostinatamente basso a un tasso accettabilissimo del 2%.
Eppure i tassi restavano testardamente ben al di sotto del 2%, tant’è vero che si elaboravano modelli per spiegare che nel lungo periodo, almeno cent’anni, i tassi mostravano un andamento simile al nostro e dunque forse quella era la normalità. Poi arriva la pandemia, con disoccupazione, paralisi dell’economia, caduta verticale dei tassi di crescita, rischi di recessione e pericolo reale di deflazione. Nessuno immaginava allora, nel mezzo della crisi, che da lì a poco (e dopo una lunga pausa di quasi quarant’anni da quando i tassi di interesse e di inflazione erano arrivati alle stelle) l’inflazione potesse davvero riesplodere in modo massiccio per via di un eccesso di spesa.”

Sembra davvero di leggere George Soros nei suoi diari che hanno costituito la piattaforma della Opening Society: “… Una caratteristica cruciale delle convinzioni dei fondamentalisti è che poggiano su giudizi di tipo aut-aut. Se un enunciato è errato, sostengono che è giusto il suo opposto. Questa incoerenza logica sta al cuore del fondamentalismo del mercato. L’intervento dello Stato nell’economia ha sempre prodotto qualche risultato negativo: ciò vale non soltanto per la pianificazione centralizzata, ma anche per il welfare state e per la gestione keynesiana della domanda. Da questa banale constatazione, i fondamentalisti del mercato traggono una conclusione completamente illogica: se l’intervento è sbagliato, il libero mercato dev’essere perfetto. Pertanto, non bisogna permettere che lo Stato intervenga nell’economia.
Inutile dire che la logica di questa argomentazione fa acqua da tutte le parti. A onor del vero, è raro che le argomentazioni a favore della liberalizzazione dei mercati vengano presentate in forma così rozza. Al contrario, studiosi come Milton Friedman hanno presentato gran copia di statistiche, e i teorici delle aspettative razionali hanno fatto ricorso a tutti gli arcani della matematica. Mi si dice che alcuni hanno incorporato nei loro modelli dati imperfetti e asimmetrici; ma il loro scopo professato, nel fare i salti mortali, era generalmente quello di creare le condizioni della perfezione, cioè l’equilibrio. Tutto ciò mi ricorda i dibattiti fra i teologi del Medioevo che si chiedevano quanti angeli potessero danzare sulla capocchia di uno spillo. Il fondamentalismo del mercato svolge un ruolo cruciale nel sistema capitalistico globale. Da qui proviene l’ideologia che non soltanto motiva molti dei suoi partecipanti di maggior successo, ma che alimenta anche le decisioni politiche. In sua assenza non potremmo parlare di regime capitalista.”
2. IL PROBLEMA E’ POLITICO – Mi permetto solo di osservare a latere del bravissimo Mario Platero che il “neokeynesismo” di Summers – come lo definisce con un tocco di originalità Guido Maria Brera – commetteva un passo falso nel gattopardismo del post Friedman: subordinare il deficit spending al laissez faire, ma il laissez faire è in crisi dal 1987 e non dal 2007- ’08!
Quando la spesa in disavanzo è un’entità a se che non è sottoponibile all’ortodossia “mainstream”; se continui a salvare il gioco d’azzardo con il denaro pubblico, il giocatore chiederà di essere nuovamente salvato e così avanti all’infinito…, e poi arriva lo spettro di una crisi ancora più grave del crollo della Lehman Brothers, nell’agosto del 2007: “Poi aggiungiamo la guerra in Ucraina, il peggioramento di una disponibilità già scarsa di beni intermedi e una crisi energetica che ha portato il costo di gas e petrolio su livelli mai visti, e la tempesta diventa perfetta. Questa volta, appena la settimana scorsa, i due, Ferguson e Summers, dibattevano di nuovo di inflazione alle stelle, questa volta al di sopra dell’8%, e il tono era diverso: si parlava di impatto politico interno, di geopolitica, di Cina che poteva implodere.”
Sia Ferguson che Summers non tengono minimamente conto – nelle loro analisi – della “teoria della riflessività” di George Soros: di fronte alle emergenze societarie occorre deideologizzare le decisioni politiche dei “policy makers”, che devono abbandonare le vecchie idee.

E’ un mondo che si trova sull’orlo del III conflitto mondiale, e lo stato di coma irreversibile in cui versa lo shadow banking globale rischia di riversarsi in un’altra Grande Crisi sociale come il venerdì nero del 1929 (sic!), proprio perché il cosiddetto “Piano Tarp” di cui Biden come vicepresidente di Obama è stato il cinico esecutore – socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti al prezzo di 700 trilioni di dollari – si è rivelato un fallimento: il salvataggio azzardato del gambling, quando ormai i cosiddetti derivati erano 20 volte superiori al Pil del pianeta.
Di nuovo, si sta commettendo l’errore dell’87: nessuno vuole parlare veramente di “distruzione creatrice”, lasciare “sic et simpliciter” fallire colossi dai piedi d’argilla e consentire al free trade di assorbirne l’eliminazione a costo zero.
Intanto essi non hanno nessun legame con l’economia reale!
E il contribuente americano ed europeo non riesce più a sopportare l’ennesimo salvataggio di pezzi interi di finanza criminogena che sono i diavoli dell’economia. E’ pur vero che George Soros ha contribuito ad affondare la Grecia nel 2009, così come aveva affondato la sterlina e la lira nel 1992, portando la teoria della riflessività al “concetto di equilibrio”: nessuna ricetta è universalmente valida, ed è un motivo in più per sostituire la Ragione con la Fallibilità.

3. BIDEN FA UN PASSO AVANTI E UNO INDIETRO, STRETTO TRA I FANTASMI DI KEYNES E DI FRIEDMAN
“Alea jacta est”: Giulio Cesare

“Se non accetti il cambiamento, non potrai sopravvivere”
Michail Borisovic Khodorkovsky a Isabelle Kumar

Si leggeranno tra quarant’anni sui banchi di scuola i rilievi giornalistici di Mario Platero, ma pochi riflettono ora sul semplice fatto che siamo spettatori passivi di una difesa isterica dello status quo da parte dei gattopardi dell’establishment, proprio mentre sta per implodere:

“Sul piano politico, in effetti, Biden ha scherzato col fuoco. A un certo punto, qualche tempo fa ha detto: “Non è più Milton Friedman a dettare le regole del gioco”. Poi la settimana scorsa, con l’inflazione al di sopra dell’8%, il presidente ha rilasciato una dichiarazione più allarmata: “La priorità numero uno della mia amministrazione è combattere l’inflazione e lo faremo fino in fondo, tra la pandemia e la guerra in Ucraina la questione è temporaneamente sfuggita di mano, il problema sarà arrestato nell’interesse degli americani”.
Il problema tuttavia è che quando l’inflazione sfugge di mano difficilmente la si ferma rapidamente, anche con tassi di interesse elevatissimi. E i giovani si chiedono chi sia questo Friedman citato dal loro presidente. Era l’economista monetarista contro le teorie keynesiane, che conquistò un premio Nobel.
Chiedeva di tenere al minimo gli interventi di spesa pubblica e definiva l’esistenza di un tasso implicito di disoccupazione al di sopra del quale si sarebbe generata inflazione, secondo lui e molti altri economisti, il male peggiore. Sopra ogni cosa privilegiava il libero mercato.
Il problema è politico perché Biden oggi si ritrova con il 67% dell’elettorato medio contro la sua gestione dell’inflazione e solo il 28% a favore.
Cosa succederà? La Borsa e molti economisti scontano una recessione, determinata dalla Fed per rallentare un surriscaldamento dell’economia.
Persino il presidente del consiglio Mario Draghi ne ha parlato durante la sua conferenza stampa a Washington la settimana scorsa: “Le banche centrali si trovano in una situazione molto difficile. Debbono combattere l’inflazione alzando i tassi ma senza eccedere provocando una recessione”.
Questa in effetti è la sfida. Per la leggera diminuzione del tasso di inflazione in aprile dall’8,3 all’8,1% c’è stato un momento di ottimismo. L’aumento marginale mensile è stato dello 0,2% di aprile su marzo contro l’1,2% di marzo su febbraio.
E il “cor rate”, il tasso centrale depurato dai beni più volatili, era di circa il 6%.
I pronostici sono anche favorevoli: molti dicono che per dicembre, dopo altri due giri di aumenti di 50 punti base da parte della Fed, si ridurrà l’inflazione al 4%.
Forse. Ma anche se fosse, è pur sempre il doppio di quello che fino a poco più di un anno fa avrebbe voluto la Fed.”

Purtroppo, è verosimile che intorno al dicembre del 2022 ci sarà un crac violento come il venerdì nero del 1929: anche alla luce del fatto – ancorchè limitando l’esercizio dell’etiologia all’interno della realtà che è ambigua e complessa – che le risposte convenzionali sono disarticolate dai venti dell’emergenza. E vengono difese con le unghie.

Rileva l’analista Francesco Guerrera nel dossier “Il grande errore di Fed e Bce. E adesso si rischia la stagflazione”:

“La domanda per i banchieri centrali oggi è: per quale errore volete passare alla Storia?”.
Sembrava una battuta, ma il grande investitore americano non stava sorridendo quando l’ha pronunciata. E nessuno nell’austero palazzo della Federal Reserve a Washington o nel futuristico grattacielo della Banca centrale europea a Francoforte è in vena di scherzi.
Reazioni comprensibili perché la situazione dell’economia mondiale non è una barzelletta.
Il risveglio di consumatori, aziende e commercio estero dopo due anni di pandemia, unito agli effetti distorsivi su prezzi, catene produttive e flussi di denaro di una guerra che è tanto tragica quanto insensata hanno completamente cambiato il compito delle banche centrali.
Per più di un decennio – dalla crisi finanziaria del 2008 – le quattro “grandi” – la Fed, la Bce, la Banca d’Inghilterra e la Banca del Giappone – hanno tentato di rianimare economie moribonde con l’equivalente monetario della respirazione bocca a bocca: denaro a poco prezzo, acquisti di obbligazioni governative e sussidi miliardari. Oggi, quelle stesse autorità monetarie si trovano a fronteggiare il problema opposto: come frenare un’inflazione rampante senza soffocare la crescita e spingere i loro Paesi nella recessione.
Il rischio, come diceva l’investitore di Wall Street, è che commettano uno di due errori, entrambi catastrofici. Se fanno troppo poco – ovvero aspettano troppo ad alzare i tassi, ritirare lo stimolo e sgonfiare le bolle di mercato – ci ritroveremo in una spirale inflazionistica come quella degli anni 70 (la crisi del Kippur con i proclami di Yamani, ndr). Se forzano la mano, aumentando il costo del denaro, tagliando gli aiuti ai governi troppo in fretta e azzoppando la corsa del mercato del Toro, potrebbero causare la stagflazione, una crisi economico-finanziaria in cui la recessione verrebbe accompagnata dall’inflazione.
E’ una visione apocalittica ma, in realtà, è generosa nei confronti dei banchieri centrali.
Un errore clamoroso la Fed e la Bce l’hanno già fatto ed è quello di aver sottovalutato l’inflazione. Per mesi e mesi durante il rimbalzo economico post-pandemia, il capo della Fed Jay Powell e Christine Lagarde, la guardiana dell’euro, si sono detti membri di “Team Transitory”, “la Squadra Transitoria”, il simpatico nome dato a chi pensava che il caro-prezzi fosse solo un fenomeno passeggero.
Nonostante sia Powell sia Lagarde siano laureati in Giurisprudenza, la loro inattività era fondata su ragioni economiche, in particolare sull’idea che la causa dell’inflazione fosse dovuta a uno shock dell’offerta (lo stesso errore commesso dai fanatici Robert Mac Namara e Zbgnew Brzezinsky nel famigerato “Memorandum Kyoto” della Commissione Trilaterale, ndr): un balzo nel costo dell’energia e altri movimenti provocati dalla riattivazione nel settore dei servizi dopo lo stallo della pandemia. L’ortodossia economica detta che, mentre le banche centrali riescono a influenzare la domanda per beni e servizi manipolando il costo del denaro, i tassi d’interesse sono molto meno efficaci nel regolare l’offerta. E’ quindi meglio non fare nulla. “I nostri strumenti non possono alleviare i vincoli di fornitura – disse Powell a novembre. – Continuiamo a credere che la nostra dinamica economica si adeguerà agli squilibri della domanda e dell’offerta e che, nel farlo, l’inflazione scenderà a livelli molto più vicini al nostro obiettivo di lungo periodo del 2%. Lagarde disse cose simili, usando spesso l’aggettivo “contenuta” quando parlava dell’inflazione.
Ma invece di rallentare o di “contenersi”, il caro prezzi è aumentato in maniera esponenziale, soprattutto (ma non solo) a causa del balzo nel prezzo dell’energia causato dalla guerra in Ucraina.
Nella zona-euro ha raggiunto un nuovo record il mese scorso, mentre negli Usa è ai livelli più alti degli ultimi 40 anni.
La Squadra Transitoria ha preso una batosta storica ed è stata costretta a correre ai ripari, ma in due maniere diverse. La Fed ha cominciato ad alzare i tassi e smettere di comprare obbligazioni sui mercati a marzo (e ha alzato i tassi di nuovo due settimane fa). La Bce si è semplicemente scusata. Non avete letto male: l’unica azione concreta da parte di Lagarde e i suoi è stato uno studio che ha spiegato i motivi per cui le banche centrali e le istituzioni internazionali hanno sbagliato nello stimare il caro-prezzi.
Un garbato contributo al dibattito accademico, ma molto poco per i milioni di consumatori, aziende e imprenditori che sono costretti a dover pagare di più per vivere e mandare avanti il loro business.
Le azioni della Bce arriveranno a luglio, con la fine dello stimolo sui mercati e, secondo quanto detto da Lagarde la settimana scorsa, il primo rialzo dei tassi in più di dieci anni…”.

“Sils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche!”, disse una certa Maria Antonietta. Sapete com’è andata a finire?
C’è una scena memorabile nel film “Too big to fail” di Curtis Hanson, con un formidabile William Hurt nel ruolo di Henry Paulson, dove Paulson insieme ad altri esponenti della stanza dei bottoni commenta la crisi della Lehman Brothers nell’agosto 2007, e prendono la decisione finale di sdoganare il Piano Tarp con l’approvazione del Congresso nella persona di Nancy Pelosi: “Wall Street ha cominciato a raccogliere i pagamenti dei mutui per le case, e a rivendere parte di quei pacchetti a degli investitori che hanno reinvestito e hanno fatto tanti soldi; così gli investitori hanno cominciato a dire: “Avanti, dateci più soldi”.
Paulson: “Gli istituti di credito avevano conferito prestiti con buon credito, ma poi hanno raschiato il fondo abbassando i criteri d’aggiudicazione”.
“Se prima serviva un valore creditizio di 620 e una caparra del 20%, adesso basta un valore di 500 e nessuna caparra”.
“Se diamo retta agli esperti non facciamo niente”: Gianni Agnelli a Piero Ottone.

“L’acquirente, la persona comune pensa che gli esperti sappiano quello che fanno e si dice: “Se la banca vuole prestarmi dei soldi, vuol dire che posso permettermelo.” Così insegue il sogno americano, e si compra una casa”.
“Le banche sanno bene che le garanzie che poggiano sulle uova sono rischiose”.
“Tu lavorerai sulle uova”: Paulson dixit.
“Così, per contenere i danni, le banche hanno stipulato polizze assicurative. Se i mutui fossero falliti, le assicurazioni avrebbero pagato. Default swap. Le banche che hanno assicurato le potenziali perdite, hanno eliminato i rischi dai libri contabili. Così hanno investito ancora e fatto altri soldi”.
Paulson: “Molte società si sono assicurate da questi imprevisti, invece altre stupidamente si sono prese tutti i rischi”.
“E quando mi chiederanno perché l’hanno fatto?”.
“I soldi”.
“Onorari da 100 milioni”.
Paulson: “L’Aig pensava che il mercato immobiliare sarebbe cresciuto, e invece è sceso”.
“I prezzi delle case sono scesi”.
“Il poveraccio che aveva comprato la casa dei suoi sogni, ha visto il tasso del mutuo esplodere, l’importo delle rate crescere, il default”.
Paulson: “I mutui cartolarizzati affondano, e l’Aig liquida gli swap. Tutti, in tutto il mondo. Nello stesso momento”.
“L’Aig non riesce a pagarli, e va in rosso. Ogni banca assicurata con lei lo stesso giorno conta le stesse ingenti perdite. E anche le banche vanno in rosso. Così, crolla tutto”.
“Tutto il sistema finanziario? E che cosa dirò, quando mi chiederanno perché non abbiamo messo delle regole?”
Paulson si “confessa”: “Nessuno le voleva. Stavamo facendo troppi soldi”.

Milton Friedman non aveva avuto ragione, collegando fanaticamente la critica – genericamente fondata nel merito – alla teoria della spesa in deficit con la teoria della concorrenza perfetta; l’errore devastante sia dell’uscente Amministrazione Bush che di quella Obama, tra le cui sliding door’s Henry Paulson ebbe un ruolo decisivo, è stato quello di scaricare i costi della ricapitalizzazione delle banche dai “titoli salsiccia” sulle spalle dei contribuenti: se non l’avessimo fatto – questo l’argomento utilizzato a giustificazione del “moltiplicatore keynesiano al rovescio” – ci sarebbe stata la corsa agli sportelli; la stessa giustificazione del salvataggio primigenio dell’87, anno penultimo della “Reaganomics”.
Oggi, sia in Europa che in America c’è l’ossessione dell’inflazione che anche l’enfant prodige di Guido Carli, Mario Draghi contribuisce ad alimentare nei suoi incontri con Biden.

Esiste una sola possibile uscita di sicurezza dalla ormai imminente replica della Grande Crisi del ’29, che è dietro l’angolo a causa della “liaison dangereuse” tra l’eterno presente dei gattopardi e l’incontrollabile corso degli eventi con “l’event of default”: far fallire tutto in un colpo solo, senza fare nulla. E poi mettere in campo la più grande azione di investimenti pubblici dal 1930, che Emmanuel Macron – cosmopolita come il direttore della Salpetriere Jean Martin Charcot – sta già iniziando (anche perché è nel suo interesse contenere le proteste dei jillet gialli).
Con un “cheque alimentare” per 8 milioni di francesi e l’istituzione di “France Travail”.
Tuttavia, il New Deal 2.0 – deficit spending più “distruzione creatrice” di Schumpeter – non si verificherà tra Lux et Tenebrys.
E sapete perché?
Nella parte conclusiva dell’opera magistrale di Irving Stone “Le passioni della mente. Il romanzo di Sigmund Freud”, mentre le Ss stanno arrivando all’abitazione di Sigmund Freud per indirizzare lui e la sua famiglia ai campi di concentramento, il medico di Vienna ha un incontro decisivo con il collega Ernest Jones che lo implora di lasciare Vienna al più presto, con la sua famiglia: “Non posso lasciare la mia città, sarei un disertore”.
“Professore, ha mai sentito la storia di quell’ufficiale del Titanic che fu scaraventato in mare dall’esplosione d’una caldaia? Gli domandarono: “In quale momento avete lasciato la nave?”. E lui, fieramente: “Non sono stato io a lasciare la nave, signore; è stata lei a lasciare me”.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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