Dedicato alla memoria di Piero Ottone, un keynesiano onesto
e alla memoria di Federico Caffè, vittima di un grave esaurimento e inghiottito dai paralogismi
PERCHE’ MARIO DRAGHI COMMETTE LO STESSO ERRORE DI HERBERT HOOVER:
non fa la spesa pubblica. George Soros vince contro Mario: solo la “Società Aperta” ci
salverà – Gli scritti di Arthur Schlesinger junior
“La teoria è la rivestitura della pratica”:
Albert Einstein
“… E’ tempo ormai di assoggettare la ragione, così come è stata prospettata dall’Illuminismo,
allo stesso esame critico che l’Illuminismo ha riservato alle autorità esterne dominanti, sia
divine sia temporali. Sono ormai duecento anni che viviamo nell’Era della Ragione: un tempo
abbastanza lungo per scoprire che la ragione ha i suoi limiti. Siamo pronti a inaugurare l’Era
della Fallibilità. I risultati potrebbero essere altrettanto entusiasmanti e, ammaestrati
dall’esperienza del passato, potremmo scoprirci capaci di evitare alcuni eccessi,
caratteristici agli albori di una nuova era…”.
George Soros, La Società Aperta
Uno spettro si aggira per l’Italia del 2022 appena iniziato: il rischio della povertà, tra pandemia e shock deflazionistico globale.
Nella brutalità propria delle sintesi giornalistiche – sia in senso negativo che positivo – aveva ragione Lilli Gruber: né Conte, un pallido figuro da “latin heroes” per la Repubblica delle Banane nella sua aurea mediocritas da toro inferocito con le belle signore capitoline (vedi Gabriele Romagnoli su la Repubblica), e da “quasi avvocato, quasi professore, quasi politico” (vedi Francesco Merlo su la Repubblica), né Mario Draghi hanno fatto l’unica cosa che dovevano fare: la spesa pubblica.
Io stesso che ne scrivo, non lo avevo capito nel mio eccessivo entusiasmo draghiano di un anno fa; ma che cos’è la vita senza entusiasmo?
Orbene, la novità contraddittoria che informa l’azione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – concepito nel report del Gruppo dei Trenta alla presenza di Paul Krugman il 14 dicembre 2020 – è data dalla subordinazione teoretica del deficit spending al laissez faire (sbaglia chi, come la psicologa di Sori Claudia Tosi, dice che “la teoria non serve a niente perché io sono un tipo molto pratico”: è una frase intrinsecamente ignorante, come già si è incaricato di precisare George Soros nel testo fondamentale della sua vita – dove tra l’altro egli propone la revoca della licenza professionale agli psicologi – “La Società Aperta”).
Tale novità introdotta dall’ambiziosissimo Mr Wolf quale indirizzo programmatico del PNRR, e che lo ha portato a Palazzo Chigi defenestrando l’“unfit” Conte Giuseppi alias l’“avvocato del popolo”, contiene un “errore di margine” che lo rende un fallimento certo: la bocciatura tout court del DEFICIT SPENDING 1.0, varato nel 1932 da Franklin Delano Roosevelt e inventato dal complicatissimo Lord John Maynard Keynes (un genio) sullo sfondo del Black Friday del 1929 – il padre di John, attaccatissimo al figlio, era un docente di logica a Eton; il Covid – 19 è di gravità pari alla Prima Grande Depressione per le sue conseguenze economiche.
Il deficit spending 1.0 viene reinventato da Draghi in deficit spending 2.0, cioè con la settorializzazione della SPESA PUBBLICA IN DEFICIT al soccorso del “venture capital” che non verrà dunque socializzata, ma mercatizzata (giuocando con le parole): è un errore rovinoso perché determina l’ideologizzazione della politica economica attraverso il famigerato “punto di equilibrio” che così come condizionò lord Keynes, condiziona anche l’ex governatore della Bce: tutte le ideologie tendono in quanto tali all’equilibrio, che è la convinzione sbagliata da parte dei “totalitaristi” di turno di subordinare la realtà alla teoria, mentre “il pensiero fa parte della realtà” (vedi George Soros).
L’errore di prospettiva commesso da un uomo complicatissimo come Mario Draghi che è “one track mind” è quello di imputare al deficit spending 1.0 che è una “costruzione teorica intrinsecamente imperfetta” – presentata dal punto di vista accademico sotto forma di equilibrio –, di fallire tanto nel breve quanto nel lungo termine; è infatti il caso di dire che Draghi su questo stesso terreno è non identico, ma molto simile alle conclusioni errate cui giunse Milton Friedman: entrambi lontani, troppo lontani dall’ideale della “filosofia pratica” di George Soros, cioè la rinuncia all’Ideologia: l’essenza di ogni male. Il vero cancro della civiltà occidentale è l’ideologia.
Il deficit spending infatti fallisce a lungo termine, ma ha successo a breve termine; ma Draghi che ha quasi ragione sbagliando (sic!) non lo attua neanche nel breve termine poiché lo reinventa, considerandolo subalterno all’ordinamento superiore del laissez faire: tutto questo accade, a giudizio di chi scrive, in quanto Mario cede alla trappola mortale dei paralogismi secondo Immanuel Kant: “… sono ragionamenti, privi di qualsiasi premessa empirica, mediante i quali, muovendo da qualcosa che conosciamo, giungiamo a qualcos’altro, di cui non abbiamo un concetto e a cui tuttavia attribuiamo realtà oggettiva per effetto di un’inevitabile parvenza. Inferenze di questo genere, raffrontate al loro risultato, debbono quindi esser detti raziocinanti, anziché razionali…” da Immanuel Kant, a proposito del significato dei paralogismi.
Dov’è l’errore di chi pensa, esattamente come Keynes (sic!) di aver inventato una teoria perfetta, e che perfetta non è né può essere?
Se Keynes puntava erroneamente alla “Great Society” che è l’ideologizzazione della spesa in deficit dalle “magnifiche sorti e progressive”, che vale cioè in maniera atemporale – “A lungo termine saremo tutti morti” è la sua celebre battuta (ma si trattava di uno dei tanti, troppi paradossi alla Glenn Gould nei quali lo stesso Keynes sarebbe affogato (sic!) al prezzo della sua stessa vita a 56 anni, morendo per consunzione –, Draghi punta all’ideologizzazione neoliberista del business as usual: il deficit spending è eterodiretto già in punto teorico dal Mercato.
Ma questa è una deduzione ed è una deduzione errata, fondata su una convinzione di base che è corretta politicamente ma è scorretta marginalmente dal punto di vista tecnico-teoretico: infatti il deficit spending garantisce la ottima sopravvivenza del laissez faire e la ripartenza a lungo termine, ma nel breve va attuato sic et simpliciter come formula a sé stante: tra l’altro abbandonandola in seguito, poiché alla lunga vince il Mercato nella sua spontanea autoregolazione.
Mario non lo capisce come tutti i Weltanschauunger innamorati narcisisticamente della propria intuizione scambiata per verità assoluta: quindi bypassa il DEFICIT SPENDING 1.0 – che è gettato alle ortiche mentre milioni di italiani rischiano la povertà, non circolando più soldi – per attuare l’Eden del DEFICIT SPENDING 2.0 presentato addirittura nel report del Group of Thirty come “neo Costituzione preventiva del laissez faire” (per dirla alla Stefano Rodotà): egli presumeva teoreticamente prima, cioè nel dicembre del 2020 quando aveva l’ambizione smodata di arrivare a Palazzo Chigi in sostituzione di Giuseppi, e ora “praticisticamente” nel PNRR che a lungo termine i fatti gli daranno ragione –, poiché con la ricapitalizzazione delle “great corporations” le stesse – salvate con il debito pubblico –, daranno lavoro anche a chi oggi è disoccupato e rischia di morire di fame, non arrivando neanche all’inizio del mese (non alla fine del mese!).
E allora ripartirà la crescita: ecco perché Draghi che ha i difetti delle sue stesse qualità, non attua il tanto atteso NEW DEAL italiano: accontentandosi di essere l’erede di Delano Roosevelt, e senza elevarsi al superbo status di “primus super pares” che rifonda la teoria.
Da giocatore d’azzardo, ritiene che la popolazione italiana possa soffrire nel breve termine per vedere una grande ripartenza in futuro!
Ma i sindacati italiani, comprensibilmente non sono molto contenti, e Maurizio Landini come segretario generale della CGIL (che ha tutti i difetti di questo mondo) chiede ormai da tempo al Presidente del Consiglio di non abbandonare le categorie sociali che sta di fatto abbandonando.
Che cosa succede, inoltre, se per qualche motivo – anche a volergli dare ragione – le previsioni dell’inquilino liberista di Palazzo Chigi si rivelassero sbagliate?
C’è infatti un altro problema: all’interno delle linee guida del PNRR, le imprese all’interno del
“settore corporate” – cioè valore di mercato – devono presentare dei progetti aziendali validi per ottenere gli agognati finanziamenti pubblici.
Considerata la preesistente burocrazia da Homo Sovieticus – che nel Belpaese è una realtà devastante ormai senza soluzione da decenni – qui si va per le calende greche…
Domani si vedrà, domani è un altro giorno e così via… ma l’Eden arriverà!
Vorrei riportare i passaggi essenziali degli scritti cosmopoliti di Arthur Schlesinger J. nella seconda parte di questo dossier alla voce “L’età di Roosevelt” sulla Grande Depressione del ’29: se Franklin Roosevelt non avesse attuato il deficit spending a fronte della rabbia e della miopia di Herbert Hoover, il Partito Comunista Americano avrebbe conquistato la Casa Bianca con una seconda Rivoluzione d’Ottobre made in States (ci sarebbe stato il Comunismo in America!).
Ma prima, vorrei contrapporre il racconto di un’esperienza di vita di George Soros in Russia all’errore di prospettiva ideologicamente connotato di Mario Draghi, presuntuoso quanto i discepoli di Milton Friedman Margaret Thatcher, Ronald Reagan e William Waldgrave: tra l’altro Soros era a favore del DEFICIT SPENDING “on the short term” dall ’87 al ’92: gli scritti di George Soros sono filosofici e anche imperdibili resoconti autobiografici nella sua opera del livello di Adam Smith “The opening society”; Soros raccontava la sua esperienza di market operator indipendente nell’Est europeo a cavallo tra la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e in rapporti con i paesi anglosassoni. Nei suoi diari che hanno dato forma alla “Società Aperta”, egli non fa sconti a nessuno. Ma soprattutto, non fa sconti a se stesso: la sua è una lezione che Mario Draghi dovrebbe ben tenere a mente, ma chi scrive dubita che lo farà:
“Il collasso sovietico nel 1989, e poi dell’Unione Sovietica nel 1991, ha offerto un’opportunità storica di trasformare le società di quella zona in società aperte. Ma le democrazie occidentali non sono riuscite a cogliere l’occasione: tutto il mondo ne patisce le conseguenze. L’Unione Sovietica e poi la Russia avevano bisogno di aiuti esterni perché la società aperta è una forma di organizzazione sociale più sofisticata di quella chiusa. In una società chiusa esiste una sola formulazione del modo in cui la società dovrebbe essere organizzata: è la versione “autorizzata”, che viene imposta con la forza. Nell’ambito della società aperta, ai cittadini non solo è permesso, ma anche richiesto di pensare con la propria testa, ed esistono dispositivi istituzionali che permettono la coesistenza pacifica di persone con interessi, opinioni e retroterra diversi.
Il sistema sovietico è stato probabilmente la forma più perfetta di società chiusa della storia umana. Esso permeava pressochè tutti gli aspetti dell’esistenza: quello politico e militare quanto quello economico e intellettuale. Al suo apice ha persino tentato di invadere il campo delle scienze naturali, come ha mostrato il caso di Trofim Lysenko; Lysenko era un agronomo che tentò di dimostrare, in sostegno del marxismo, che i tratti acquisiti possono essere ereditati. Effettuare una transizione alla società aperta richiedeva un cambiamento rivoluzionario di regime, che non poteva essere compiuto senza aiuti dall’esterno. Questa intuizione mi ha indotto a precipitarmi lì e costituire Fondazioni per la Società Aperta in tutto l’ex impero sovietico, un paese dopo l’altro.
Ma questa intuizione è mancata alle società aperte dell’Occidente. Nel 1947, a seguito della devastazione prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti lanciarono lo storico piano Marshall con lo scopo di ricostruire l’Europa; un’iniziativa dello stesso tipo, nell’epoca successiva al collasso del sistema sovietico, era impensabile.
Proposi qualcosa di simile in occasione di una conferenza tenutasi nel 1989 a Potsdam (che allora faceva ancora parte della Germania orientale), ma fui letteralmente additato al pubblico ludibrio, a cominciare da William Waldgrave, alto funzionario del ministero degli Esteri di Margaret Thatcher.
La Thatcher era una devota apologeta della libertà – ogni volta che ha visitato i paesi comunisti ha insistito per incontrare i dissidenti –, ma l’idea che una società aperta vada costruita e che la costruzione possa richiedere (e meritare) un sostegno esterno esorbitava palesemente dalla sua
comprensione. Da fondamentalista del mercato qual era, non aveva fiducia nell’intervento governativo. In effetti, si è lasciato che i paesi comunisti si arrangiassero perlopiù da sè; alcuni ce l’hanno fatta, altri no”.
Soros scoperchia il vaso di Pandora (scusate l’entusiasmo di chi scrive): la Thatcher non ammise la sua “conoscenza intrinsecamente imperfetta del mondo” come conditio sine qua non del proprio modus operandi: a causa della sua fede ideologica nell’assolutismo del laissez – faire, ma non solo lei in questa gara suicida della “servitù volontaria all’ideologia”: “Relativamente alla Russia, gli esami di coscienza e gli scambi di accuse non finiscono mai. In questo momento si stanno scrivendo articoli sull’argomento “chi ha rovinato la Russia?”. Io sono convinto che noi, le democrazie occidentali, siano largamente responsabili, e che i peccati di omissione sono stati commessi dalle amministrazioni Bush e Thatcher.
La storia del cancelliere Kohl è più composita. La Germania è stata la principale finanziatrice dell’Unione Sovietica e poi della Russia, sia accordando crediti sia facendo sovvenzioni, ma Kohl era spinto, più che dall’intenzione di aiutare la trasformazione della Russia, dal desiderio di guadagnare il consenso russo alla riunificazione tedesca (ma non è forse vero che l’egoismo è il più potente motore del mondo?, per dirla alla Adam Smith, ndr).
Ritengo che se le democrazie occidentali si fossero davvero impegnate si sarebbe potuto indirizzare risolutamente la Russia verso un’economia di mercato e una società aperta. Mi rendo conto che questa tesi va controcorrente rispetto alle opinioni predominanti. Essa è di tipo controfattuale, perché in realtà i tentativi di riforma economica sono andati incontro a tremendi fallimenti. Il condizionale controfattuale è un enunciato condizionale (della forma “Se A allora B”, dove A e B sono detti rispettivamente antecedente e conseguente) il cui antecedente esprime una condizione che si suppone falsa; ne è un esempio l’enunciato: “Se il Colosseo fosse in Antartide, sarebbe pieno di pinguini”. Bisogna credere nell’efficacia dell’aiuto estero per poter sostenere che l’esito sarebbe potuto essere diverso. L’aiuto esterno, invece, ha accumulato un pessimo curriculum, e l’idea che l’intervento governativo possa essere davvero d’aiuto all’economia contraddice la distorsione prevalente che caratterizza il fondamentalismo del mercato. Così l’attenzione si concentra su chi ha fatto qualcosa che è andato storto. Ma è proprio alla distorsione prevalente tipica del fondamentalismo del mercato che dovremmo addebitare la responsabilità del risultato: essa ha ostacolato un autentico impegno in soccorso dell’Unione Sovietica e poi della Russia.
La gente provava una certa solidarietà, ma di tipo piuttosto rudimentale. Le società aperte dell’Occidente non credevano nella società aperta come idea universale, la cui realizzazione giustificherebbe uno sforzo notevole: questo è stato il mio più grande errore di valutazione, oltre che la mia più cocente delusione. Ero stato tratto in inganno dalla retorica della guerra fredda. L’Occidente era stato disposto a promuovere la transizione solo a parole, non con i soldi; e qualsiasi aiuto o consiglio fornito era fuorviato dall’ottica distorta del fondamentalismo del mercato. I sovietici e poi i russi erano ben disposti verso i consigli provenienti dall’esterno; anzi, li bramavano addirittura. Si erano accorti che il loro sistema era marcio, e tendevano ad adorare l’Occidente. Ahimè, hanno commesso il mio stesso errore: hanno presunto che l’Occidente si sarebbe impegnato davvero…”.
Ecco perché è nato il mostro di Vladimir Putin, il Padrino al Cremlino: l’Ideologia rovesciata autoritativamente da Reagan, Thatcher e Bush sulla realtà, crea un “ritorno cruento nel reale” (l’espressione è della psicanalista Lancillotto). Il paradosso è che George Soros, erede indiscutibile di Adam Smith, è keynesiano a differenza di Mario Draghi!
Infatti il “Piano Marshall 2.0” additato al pubblico ludibrio dai fanatici esponenti delle Amministrazioni Bush e Thatcher, presupponeva la coesistenza tra deficit spending e laissez faire reciprocamente aiutatisi, e per di più l’investimento dei bilanci pubblici occidentali nella ricostruzione neocapitalista dell’Est europeo appena uscito dalle “sabbie mobili” del socialismo
reale: questo stesso fatto avrebbe dimostrato che lo Stato poteva aiutare il free trade nell’Est Europa post – ’89: una verità intollerabile per la Weltanschauung ideologica di Milton Friedman, che condizionava nei suoi processi decisionali Margaret Thatcher, Iron Lady “one track mind” (lo stesso Augusto Pinochet fu condizionato dai Chicago Boys in Cile).
Facciamo un passo indietro. Era il 1930, quando l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche per poco non vide la luce negli States. Chi scrive, ha avuto il privilegio di ripescare dalla biblioteca di Piero Ottone il primo dei tre volumi del grande storico americano Arthur M. Schlesinger Jr “L’età di Roosevelt. La crisi del vecchio ordine 1919 – 1933” alla voce Collezione di storia americana Società editrice Il Mulino.
Vi potrà sembrare uno scherzo, ma le cronache dettagliatissime di Schlesinger che fu anche consigliere di John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca dal 1960 al 1963, sono quelle di un Paese – l’America appunto – dove nel 1930 stava per succedere qualcosa di molto simile alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia. Agli scritti, preziosi e in gran parte dimenticati, dello Schlesinger che vennero pubblicati nel 1959 si collega la distorsione ideologica dell’economista Milton Friedman che attraverso l’auto-inganno dei paralogismi nel suo libro “La tirannia dello status quo”, pubblicato nel 1984, confuse il corso di Roosevelt con il Socialismo che in America per fortuna non si è mai realizzato (sic!) –, ma è certo invece che se il leader carismatico e successore di Herbert Hoover alla Casa Bianca Franklin Delano Roosevelt non avesse seguito le terapie inflazionistiche suggeritegli dalla “Teoria Generale dell’Occupazione”, gli Stati Uniti avrebbero presto conosciuto un rovesciamento violento della situazione.
Keynes salvò gli Usa da un “golpe leninista” sfuggendo al senso di ciò che egli stesso aveva creato – l’opera è indipendente dal suo autore e vive di vita propria –, ma precipitò poi tra gli stati misti dell’umore nel ’44 a Bretton Woods quando Friedman osò mettere in dubbio le fondamenta del suo testo – con una critica molto brillantemente argomentata; il filosofo britannico morì per consunzione durante la preparazione dei lavori per la constituency di Bretton Woods a Seconda Guerra Mondiale quasi terminata, senza ammettere di avere sbagliato.
“Se solo Napoleone Bonaparte si fosse fermato, avrebbe conquistato l’Europa”: non è forse vero che Francois Talleyrand scrisse così nei suoi diari?
Dal venerdì nero del 1929 al Covid – 19, si ripete lo stesso scenario.
Ma l’opera “The age of Roosevelt” dello Schlesinger è respinta dal “governo dei Migliori” di Francesco Giavazzi nella stanza dei bottoni del PNRR, dove il Mercato è considerato superiore allo Stato:
“IL CONTAGIO DELLA PAURA – Il giorno prima che il Presidente Hoover dicesse che tutto lasciava sperare in una sostanziale ripresa entro sessanta giorni, un gruppo di uomini e di donne disoccupati, e inquadrati dal Partito Comunista, organizzarono una dimostrazione davanti alla Casa Bianca. Per un momento il Presidente guardò incuriosito dalla finestra. Più tardi la polizia, sfollagente alla mano, disperse la folla con le bombe lacrimogene. Quello stesso giorno, a New York, 35.000 persone si raccolsero in Union Square ad ascoltare oratori comunisti. Quando il leader comunista William Z. Foster li incitò a marciare sul Municipio, il capo della polizia diede ordini severi. Centinaia di poliziotti ed ispettori caricarono la folla con sfollagente, manganelli e pugni. Secondo il resoconto del “New York Times”, la scena riecheggiò “di strilli di donne e urla di uomini con la testa e il volto imbrattati di sangue. Una ventina di uomini erano sparsi distesi per la piazza, percossi da poliziotti”. Un poliziotto in borghese, con un paltò di pelo e un manganello in mano, correva come un pazzo per la piazza colpendo in tutte le direzioni. Due poliziotti immobilizzarono una ragazza e la colpirono in faccia coi bastoni.
Una donna urlava piangendo: “Cosacchi, assassini Cosacchi!”.
Il 6 marzo fu dichiarato, per decreto comunista, Giornata Internazionale della Disoccupazione. Lo scopo della dimostrazione era di provocare la reazione della polizia. In una città dopo l’altra essi raggiunsero lo scopo. Ma l’agitazione provocata dai comunisti non bastava a spiegare la vastità delle sommosse. Quando mai in America i comunisti avevano attratto folle di oltre 35.000 persone? Si stava aprendo un abisso tra l’atteggiamento ufficiale a Washington e la realtà nelle strade della città e nelle campagne, tra l’illusione presidenziale di una fiducia crescente e la realtà
di miseria e di paura.
Nella primavera del 1930 almeno quattro milioni di americani erano disoccupati. Code di disoccupati cominciarono a riapparire nelle grandi città per la prima volta dal 1921, code di uomini pieni di sconforto, in attesa paziente di un pezzo di pane e una tazza di caffè. Nella città di New York, in marzo, il numero delle famiglie ammesse alla pubblica assistenza era aumentato del 200% dal crollo dell’ottobre. Gli ospizi municipali erano ora affollati; e la città permetteva ai senzatetto di dormire sulle chiatte municipali ormeggiate al molo durante la notte, col vento che soffiava gelido sull’East River. A Detroit, disse William Green della American Federation of Labor, “gli uomini se ne stanno seduti tutto il giorno e tutta la notte nei parchi, a centinaia e a migliaia, mormorando tra sé e sé, disoccupati, e in cerca di lavoro”.
La chiarezza del “cronista” Schlesinger – che lascia stupefatti – non è diffusa tra gli storici italiani, che amano invece complicare per il loro noto provincialismo: “Il paese intero, si trovò immerso nelle tristi vicende che portarono a milioni di americani un nuovo genere di vita. Nel decennio 1920-30 i salariati avevano avuto ampie possibilità di occupazione, soddisfazioni nella vita e speranze per il futuro. Ora era arrivata la depressione – solo tre giorni di lavoro alla settimana, poi due, poi il licenziamento. E poi la ricerca di un nuovo lavoro, dapprima una ricerca energica e fiduciosa, poi calma e ostinata – infine, disperata; lunghe code davanti agli uffici di collocamento, sguardi fissi sulle lavagne che elencavano i nomi degli assunti, un vagare senza fine da una fabbrica all’altra, notti intere di attesa per essere i primi al mattino ad accaparrarsi un eventuale lavoro.
E le notizie inesorabili, spietate, che mascheravano il panico: “Non si assume personale”… “Non abbiamo bisogno di nessuno”… “Circolare, circolare”.
E così la ricerca continuava, mentre vestiti e scarpe cadevano in brandelli. I giornali sotto la camicia riparavano dal freddo dell’inverno, del cotone sotto i talloni attutiva la fatica delle lunghe camminate sui marciapiedi, cartoncini infilati nelle scarpe rotte servivano da suole e sacchi avvolti attorno ai piedi mitigavano il gelo durante le ore di attesa davanti ai cancelli delle fabbriche. E nel frattempo i risparmi si assottigliavano; il terrore si impadroniva della famiglia: ora papà rimaneva per lunghe ore in casa, non più allegro come una volta, ma irritabile e quasi con un complesso di colpa, un poco spaventato. La mamma cercava lavoro come domestica o cameriera o portinaia; o i bambini lavoravano per pochi centesimi dopo la scuola, senza capire la paura che gravava attorno a loro, sapendo solo di dover contribuire come potevano per comprare caffè e pane.
Alla fine dei risparmi, cominciano i prestiti. Se vi è un’assicurazione sulla vita, anticipi su quella finchè finisce. Poi prestiti dai parenti, dagli amici e debiti; debiti col padrone di casa, col bottegaio, finchè finisce anche l’amicizia, anche la compassione. La carne scompare dalla tavola, il lardo sostituisce il burro; papà esce meno spesso, è terribilmente silenzioso; i bambini cominciano ad avere il bisogno di scarpe, i loro vestiti sono logori, la mamma si vergogna di mandarli a scuola. Si portano al monte dei pegni le fedi, si vendono i mobili, si va ad abitare in case sempre più misere, più umide, più sporche.
Siamo nell’estate del 1930: in una casa operaia di Filadelfia un bimbo di tre anni piange di continuo; un dottore lo visita e trova che sta morendo di fame. Una donna si lamenta che quando riesce a racimolare un po’ di cibo, i suoi due piccoli riescono appena a mangiare: si sono abituati a mangiare così poco che il loro stomaco non sopporta più cibo. In novembre apparvero i venditori ambulanti di mele, coi vestiti consunti ma spazzolati e puliti. Il loro coraggio disperato accentuava l’angoscia di trovarsi senza lavoro. Ed ogni notte di quell’autunno centinaia di uomini si raccolsero lungo la parte bassa della Wacker Drive a Chicago, scaldandosi a fuochi improvvisati, col bavero rialzato e i berretti tirati fin giù sulle orecchie. Fissavano con occhi sbarrati il nero fiume mentre, poco più in là, le macchine correvano via silenziose e gente ben pasciuta si dirigeva verso case scaldate e ben illuminate. Nei distretti minerari la gente viveva di fagioli, senza sale né grasso.
Ed ogni settimana, ogni giorno, un sempre maggior numero di disoccupati si univa alla disperata processione. Nelle camere fredde e buie le ombre calavano sempre più fitte: sul padre di famiglia, irato, impotente, preso da un senso di vergogna; sui bimbi sperduti e spesso ammalati e affamati; sulla madre, così coraggiosa il giorno, e così spesso, quando veniva la notte ed il silenzio, sveglia nel suo letto, piangendo sommessa.
Questo era il 1930. Era, secondo le parole di Elmer Davis, il secondo anno dalla abolizione della povertà. E migliaia di americani impararono a conoscere un nuovo e umiliante genere di vita: quella degli iscritti alla assistenza pubblica. La maggior parte dei disoccupati resistette fin che potè. Poi venne la fine dei risparmi, del credito, l’impossibilità di trovare lavoro; non rimase che soffocare l’orgoglio e guardare in faccia la realtà…”.
Come emerge dal capitolo “Il contagio della paura”, il Presidente in carica Herbert Hoover – terrorizzato dall’eventualità che la situazione sociale ed economica degenerasse in una rivoluzione bolscevica –, era però schiavo dell’ideologia del laissez faire senza guardare in faccia la realtà:
“… Altri avvenimenti cominciarono a definire la posizione del Presidente. Nell’estate del 1930 una prolungata siccità distrusse raccolti e bestiame in tutto il Sud-Ovest. Questo era proprio un problema adatto a Hoover: si ripeteva l’esperienza del Belgio, tanto più concreta dei problemi irritanti della depressione. “Per fronteggiare la siccità” – riferì Mark Sullivan, il giornalista amico intimo di Hoover – il Presidente si mise a lavorare con una specie di senso di sollievo, quasi di piacere”.
Dando prova dell’antica padronanza di sé, organizzò un programma di assistenza e chiese al Congresso di stanziare fondi per dei prestiti governativi che permettessero agli agricoltori di comperare sementi, fertilizzanti e mangime per il bestiame.
Il vecchio seguace di Wilson, William G. Mc Adoo, ora senatore della California, propose che il grano acquistato dal Farm Board fosse distribuito ai disoccupati. Ma Hoover riaffermò il proprio imblacabile antagonismo a tali proposte”.
E’, questo, un passaggio del testo di Schlesinger di importanza a dir poco decisiva: pensiero e realtà non sono categorie separate come la maggior parte della gente erroneamente ritiene, e il guaio è quando si ignora la realtà subordinandola all’entità astratta:
“Egli (Hoover, ndr) considerava giusto dar da mangiare al bestiame affamato, essi dicevano (l’opposizione, ndr), ma riprovevole nutrire uomini, donne e bambini che morivano di fame. Egli aveva dato da mangiare a Belgi e Tedeschi, ma si rifiutava di nutrire i suoi concittadini.
Nel febbraio del 1931, il Presidente, offeso e angosciato, fece una dichiarazione profondamente sincera. “Se l’America ha un significato – egli disse – questo è il senso della responsabilità individuale e locale, e la spontaneità nel mutuo soccorso”. Se noi distruggiamo questi princìpi, noi “colpiamo alle fondamenta l’autogoverno”. Se l’aiuto da parte del governo federale sarà l’unica alternativa al morir di fame, ben venga l’aiuto federale; ma “io ho fede che quel giorno non verrà per il popolo americano…”.
Poi arrivò Roosevelt, con il sostegno dell’Establishment più che dell’opinione pubblica: arriva un momento in cui il sistema deve cambiare per non crollare; non accettare il cambiamento, vuol dire crollare (i cinesi lo sanno bene, che hanno rinunciato all’ideologia in nome del pragmatismo, dopo la morte di Mao Tse Tung come aveva spiegato bene l’analista del Dipartimento di Stato Usa Zbgnew Brzezinsky nel suo libro “Il grande fallimento – Ascesa e caduta del comunismo nel XX secolo” con prefazione di Sergio Romano).
Dal successo del New Deal 32 – ’37 sull’orlo del baratro (ma il successo è l’altra faccia del fallimento) – cioè un’americanizzazione della Rivoluzione d’Ottobre –, Mario Draghi deduce erroneamente che: dato che l’economia statunitense fu salvata dall’abisso e dall’orrore del “socialismo reale” (pensate voi come sarebbe stata l’America con la collettivizzazione dirigistica dei
mezzi di produzione come conseguenza dell’ascesa del Partito Comunista alla Casa Bianca!), il deficit spending è liberista; cioè è subordinato al laissez faire: ma la spesa in deficit è di fatto subordinata al Mercato: attenti a non cadere nella trappola mortale dei paralogismi – che sono qualcosa di molto simile all’“errore intenzionale nell’argomentazione”!
Inoltre, il laissez faire che è nato da Adam Smith nel Settecento non venne mai presentato sotto forma di “equilibrio” ma di “equilibrio generale” – che non è la stessa cosa! –, e fu reinventato da Vilfredo Pareto e Leon Valras come teoria della concorrenza perfetta che è una distorsione.
Il fanatismo è sempre condannabile.
Valga a futura memoria la lectio magistralis di George Soros: “… La possibilità che l’equilibrio non venga mai raggiunto non invalida necessariamente la costruzione logica; ma è certo che presentando un equilibrio ipotetico come un modello di realtà si introduce una notevole distorsione. La geometria e l’astronomia sono sistemi assiomatici perfettamente validi, ma hanno dato origine a false interpretazioni della realtà, come la convinzione che la Terra fosse piatta o fosse il centro dell’universo (e sappiamo cosa è accaduto a coloro che misero in dubbio tali verità)…”.
Galileo Galilei vi dice qualcosa?
Continuava Soros nell’elogio della Riflessività che è un colpo di bazooka al dogmatismo: condizionato a sua insaputa dalla “eteronomia” del comportamento – io stesso sfuggo al senso di ciò che ho creato! – “… Negli anni Trenta Keynes ha screditato il monetarismo e lo ha sostituito con una teoria che riconosceva l’importanza del credito. La sua ricetta per curare la deflazione con la spesa pubblica ha fatto sorgere settori pubblici pletorici e tendenze inflazionistiche. Dopo la sua morte il suo approccio è caduto in disgrazia. (Se Keynes fosse stato ancora vivo, probabilmente avrebbe modificato quella ricetta)…”.
Ma è certo che morì per consunzione proprio perché non accettò che il suo approccio potesse cadere in disgrazia, a causa di un narcisismo “troppo grande per fallire”.
Il narcisismo è la malattia del genio.
Tuttavia, è stato usato strumentalmente il Grande Fallimento della “Great Society” per affermare un’altra distorsione ideologica della realtà che appare nel discorso programmatico del 14 dicembre 2020 al Gruppo dei Trenta (un equivalente della Società degli Apostoli) – sempre da Soros:
“I fondamentalisti del mercato asseriscono che i mercati tendono all’equilibrio, e che qualsiasi interferenza della politica è nociva. Si è visto che in molti casi non è determinabile un unico punto di equilibrio”.
La domanda allora s’impone e non è retorica: ma Paul Krugman, presente al discorso di Draghi, non ha avanzato obiezioni al successore autoaccreditato di Conte, che era nello stesso stato d’animo di Vincent Van Gogh quando – nel dicembre del 1888 – comunicò a Paul Gauguin il proposito di fondare la “comunità gialla” degli artisti ad Arles nel sud della Francia?
Perché il suddetto discorso è sovrapponibile – nell’“eterno ritorno dell’uguale” – all’intervista radiofonica del banchiere Sir Josiah Stamp, l’allora presidente della Bank of England, a John Maynard Keynes trasmessa dalla Bbc il 4 gennaio 1933 (che era un ex allievo dello stesso Stamp) – Draghi è esattamente sulle posizioni di Stamp, e infatti sia Stamp che Draghi sono banchieri. Ecco uno dei passaggi chiave dell’intervista (in sostanza lo Stato può andare in default sia secondo Draghi che Stamp, mentre al contrario Keynes affermava che lo Stato non può andare in bancarotta):
“… Stamp: “Ti fermo per un momento. Prendiamo in considerazione il risparmio di un Ministero o di un privato cittadino e consideriamone l’effetto. Uno stato o una città, proprio come un individuo, devono vivere nei limiti delle loro risorse finanziarie, mentre, se provassero ad andare oltre questo limite, si troverebbero in notevoli difficoltà e molto presto sarebbero costretti a ridurre il loro patrimonio”. Keynes: “Ci può essere solo un obiettivo nel risparmiare: esso è precisamente quello di sostituire una certa spesa con un tipo diverso di spesa più saggia”.
Stamp fa il sarcastico: “Sostituire! Capisco qual è il punto! Se, per esempio, il Governo o gli enti locali risparmiassero per ridurre le tasse o i tassi di interesse e consentissero ai singoli di spendere di più, oppure, se gli individui riducessero i consumi, per poi usare essi stessi il denaro risparmiato nella costruzione di case o di fabbriche, o per prestarlo ad altri aventi gli stessi obiettivi, non servirebbe tutto ciò a risolvere le cose?”
Keynes: “Il governo… non deve avere dollari… il governo paga qualunque cosa, cambiando i numeri dei conti correnti. Il governo federale non può “rimanere senza soldi”, come il nostro Presidente (Roosevelt, ndr) ha erroneamente ripetuto. E’ impossibile…Tutto quello di cui il governo ha bisogno per spendere è cambiare i numeri nei conti correnti nella propria banca, la Federal Reserve Bank.
Non c’è un limite numerico alla quantità di denaro che il nostro governo può spendere, ogni volta che vuole spendere”.
Stamp: “Ammesso che si voglia concedere una ragionevole attenzione alle opinioni della gente relativamente al credito pubblico, non è un fatto positivo per il governo, qualora si pensi che esso sia sull’orlo della bancarotta”.
Keynes: “Non credo che misure davvero in grado di arricchire il paese possano danneggiare la credibilità pubblica. Ti stai dimenticando che io sostengo come siano il peso della disoccupazione e la diminuzione del reddito nazionale a mettere sottosopra il bilancio? Troviamo soluzioni per aumentare l’occupazione e il bilancio tornerà regolare”.
Il ragionamento di John Maynard è valido nel breve termine, ma a lungo termine questa ricetta diventa una misura criminogena: come tutte le costruzioni ideologiche di questo mondo che sono difettose per loro natura (sic!), ma è altrettanto ideologico dedurre – dall’erronea “aspirazione all’equilibrio” di Keynes e che gli costò la vita, anche perché nessuno è infallibile – che lo Stato non deve occuparsi dei suoi cittadini con un’eccedenza delle uscite rispetto alle entrate, perché rischia la bancarotta!
Vedete come è ambigua la realtà?
“C’è un costante divario tra le intenzioni e i risultati” – vedi Soros –, e non lo ammette chi si crede onnipotente. Non a caso lo psichiatra inglese David Owen parla del disturbo della Hybris.
Ps – Attenzione, perché se Mario Draghi afflitto come è dalla “sindrome di hybris” – cioè la sindrome della visione, che per esempio contagiò (tra gli altri) Neville Chamberlain e che portò l’Europa sull’orlo del baratro nel 1940 – non ammetterà la Fallibilità come orizzonte della sua azione di governo, è probabile che milioni di italiani vedranno la povertà.
Nessuno è titolare della verità assoluta.
di Alexander Bush