Lucio Battisti cantava in una famosissima canzone “tu chiamale se vuoi emozioni”. In Italia purtroppo di emozioni, positive, ne viviamo sempre di meno, almeno leggendo giornali e media online su dati economici, occupazione, fiducia nel futuro. Ma di emozioni, stati d’animo, nel senso di “incazzature” (perdonatemi la parola, sarebbe meglio dire “pillole di sfogo”) ne abbiamo la dispensa piena. Si sa che nel bel Paese vanno di moda tasse, IMU, accise e balzelli.
Se il tasso di sviluppo economico fosse legato a quello delle tasse, avremmo una crescita economica esponenziale. Ma parliamo ora dell’ultima nata di casa Italia: la “web tax”. Facciamo un rapido riassunto. Il 23 dicembre anche il Senato ha approvato la cosiddetta “web tax” che nelle ultime settimane era stata oggetto di un vivace dibattito sui principi di fondo sui quali si sarebbero dovuti basare i vincoli fiscali per i servizi di pubblicità. La normativa approvata prevede la necessità di acquistare servizi di pubblicità, link sponsorizzati online e spazi pubblicitari visualizzabili sul territorio italiano solo da soggetti titolari di partita Iva italiana. Inoltre, alle aziende che fanno raccolta pubblicitaria sul web, prescrive un diverso indicatore dei profitti rispetto a quello attuale che fa riferimento ai costi sostenuti per l’attività.
La norma è sostanzialmente “dimezzata” rispetto l’originale: dal testo è scomparso l’obbligo di aprire partita Iva in Italia per tutti i soggetti che effettuano il servizio di commercio elettronico diretto o indiretto, mentre è rimasto in piedi l’obbligo di partita Iva italiana per chi vende pubblicità online in Italia. Per farla breve, le aziende come Google o Yahoo! che vogliano vendere pubblicità online a società italiane, devono aprire una partita Iva in Italia.
La Ue ha bocciato la norma. Emer Traynor, portavoce del commissario europeo per la fiscalità e l’unione doganale Algirdas Šemeta, ha osservato che la “web tax” è “contraria alle libertà fondamentali e i principi di non-discriminazione stabiliti dai trattati”. Il premier Letta, messo alle corde da un Renzi contrario alla norma, ha sentito il dovere di segnalare il “bisogno di un coordinamento con le norme europee essenziali”. Tra le numerose voci contrarie alla web tax il Movimento 5 Stelle, Stefano Parisi, presidente di Confindustria digitale, Filippo Taddei, responsabile economico del Partito democratico e Riccardo Donadon, Presidente di Italia Startup. Tra coloro che si sono espressi a favore invece l’editore Carlo De Benedetti.
Ribadiamo il principio che le tasse vanno pagate nella giusta misura per cittadino, al fine di garantire i servizi essenziali necessari al benessere e allo sviluppo della comunità (sulle finalità e modalità ognuno può pensarla come vuole e pure sulla proporzionalità della tassazione), ma in nessuna parte del mondo si può predicare il verbo dello sviluppo economico e nello stesso tempo tassare in crescendo il settore trainante dell’economia, cioè quello digitale. L’economia digitale è per definizione un mondo globale, la rete unifica tutto e tutti in ogni parte del pianeta: non si può quindi pensare a una tassazione locale, singola per Paese, di un settore che nasce e si sviluppa velocemente su scala globale. Come sempre la UE è ferma, incapace di mettere in atto una politica fiscale europea unica, capace di mettere in atto uno sviluppo economico europeo.
E veniamo ai risvolti grotteschi legati alla legge, una legge scritta male. Dall’articolo su Wired.it di Andrea Curiat capiamo alcune cose interessanti. I piccoli operatori pubblicitari, che magari fatturano poche migliaia di euro in Italia, potrebbero essere spinti ad abbandonare il nostro Paese pur di non prendersi la briga e l’onere di aprire una partita Iva. Oppure i rivenditori di pubblicità online non intenzionati ad aprire una partita Iva in Italia potrebbero rivolgersi alle aziende di medio-grandi dimensioni che abbiano almeno una sede all’estero. La multinazionale online potrebbe dire all’azienda italiana: ti vendo le pubblicità, però le vendo alla tua filiale francese e non alla tua sede italiana. Poi è da tenere in considerazione il secondo comma della web tax: “Gli spazi pubblicitari on line e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca (servizi di search advertising), visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito internet o la fruizione di un servizio on line attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti, quali editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita Iva rilasciata dall’amministrazione finanziaria italiana”. In parole povere: qualsiasi pubblicità visibile in Italia dovrebbe essere venduta solo da titolari di partita Iva italiana. Questo tipo di ipotesi escluderebbe la possibilità di vendere pubblicità alla succursale estera di un’azienda italiana per usare poi l’ad online su siti italiani. Poiché però tutto il Web è visibile dall’Italia, un’interpretazione del genere porterebbe a conclusioni paradossali, perché un’azienda americana che pubblichi una pubblicità su un sito .com per un cliente statunitense dovrebbe comunque acquistarla attraverso una partita Iva italiana. Quindi sembra che qualche scappatoia esista. Ma in tempo di crisi abbiamo bisogno di regole semplici ed efficaci, certe e di tempi brevi. Non di nuovi elusori (di cosiddetti “furbi” ne abbiamo fin troppi). Un imprenditore oggi non può permettersi il lusso di pensare a scappatoie (aggiungiamo che tutto ciò che è illegale deve sempre sanzionato). Un’impresa deve spendere tempo e fatica in ricerca e innovazione tecnologica. Punto.
Chiudiamo con il minipost di Lello Ciampolillo, M5S Senato, pubblicato sul blog di Beppe Grillo: “La maggioranza di governo mira ad introdurre nel nostro Ordinamento la Web Tax, una sorta di regime fiscale speciale per l’acquisto di alcuni dei servizi commercializzati e forniti online. (…) A rimetterci, però, rischiano di essere proprio le nostre imprese che potrebbero rimanere tagliate fuori dal flusso pubblicitario globale. Una previsione di legge incompatibile con l’ordinamento comunitario e con forti dubbi di legittimità costituzionale. Il M5S ha proposto la cancellazione del citato emendamento”.
Gilbert du Motier de La Fayette