E se i liberali ripartissero da sinistra?

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hanke
Un saggio su dove si dovrebbero collocare politicamente i liberali italiani

La maggior parte dei liberali, oggi, impiega il tempo interrogandosi sulla propria ubicazione politica piuttosto che per cercar voti alle elezioni. Motivo per cui partecipo sempre malvolentieri a discussioni sulla natura ubiquitaria del liberalismo, e tantomeno sulla più idonea collocazione negli emicicli parlamentari dei suoi rappresentanti. Bisogna prima entrarci, negli emicicli, poi si sceglie il settore in cui andare a sedersi.
Ciononostante voglio qui toccare il tema del liberalismo a sinistra (ne ho fatto oggetto , qualche tempo fa, di un Tweet che, ovviamente, sarà sfuggito alla massima parte dei nostri lettori). Molte recenti prese di posizione mi stimolano a farlo. Anche su Libertates, un nostro opinionista, qualche mese fa, poneva il problema della collocazione dei liberali nelle prossime elezioni amministrative per il rinnovo del Consiglio comunale di Milano e, mi pare, ritenesse scontata la loro adesione al programma e ai candidati del centro-destra. Per contro, la recente scomparsa di Valerio Zanone ci ha fatto ripercorrere il cammino, duro e contrastato, intrapreso 30 anni fa dal leader piemontese, per riportare il partito liberale in una area intermedia tra la destra conservatrice e la sinistra massimalista. Quella a lui sembrava la posizione più coerente dei liberali con la loro storia. Ma sappiamo bene che la coerenza non è la prima fra le virtù che il popolo invoca dai propri rappresentanti.
Dunque, riprendiamo il filo del discorso e disponiamoci a ragionare.
In Europa il liberalismo, come forza politica organizzata e autonoma, non esiste praticamente più. Le politiche neo-liberali, da oltre un quarto di secolo, sono state promosse e parzialmente realizzate da partiti e movimenti politici nati sotto altre spoglie e con altre finalità, principalmente nell’alveo della tradizione politica del laburismo e del socialriformismo, o in quello delle correnti di ispirazione cattolica e conservatrice. I liberali, ove esistevano come organizzazione autonoma, si sono per lo più alleati, in posizione minoritaria, ai partiti che avevano vinto le elezioni. Quindi la loro azione politica poteva, al più, correggere gli atti del governo di cui erano partner di minoranza, nel senso di indurre un rigoroso rispetto delle regole della economia di mercato, della libertà di impresa, della laicità dello Stato, della libera circolazione delle merci, della lotta allo Stato burocratico e ai monopoli, accetera. In pratica i liberali si sono collocati, nelle coalizioni di governo a guida laburista, come la destra della coalizione e in quelle a guida conservatrice, come la sinistra.
L’opinione pubblica però non ha percepito che quell’azione correttiva e stabilizzatrice fosse fondamentale per i destini degli Stati europei perché riteneva sufficiente che il partito di governo , fosse esso di stampo socialriformista o conservatore, garantisse coi suoi voti , in parlamento, la realizzazione del programma neo-liberale. La forza vincolante dei liberali o non era avvertita come decisiva o non era ritenuta affatto vincolante. Al dunque, i partiti liberali non sono stati seguiti dall’elettorato di riferimento e quindi spesso i loro candidati non sono stati votati (vedi in particolare ciò che è accaduto in Germania).
Possiamo quindi ritenere come ormai definitivamente superata e archiviata la funzione del liberalismo come movimento organizzato in forma partitica?
Se assegniamo ai liberali il compito di “condizionare”, di “correggere”, di “fortificare” le azioni dei governi espressi da partiti di ispirazione non liberale o addirittura, ab origine, anti liberale, riterrei proprio di si. L’opinione pubblica è interessata a conseguire con il voto un risultato e se ne infischia se ad esso si arriva con o senza un partito di schietta e autentica matrice liberale che potrebbe rivendicare maggior titolo a realizzate quel programma. L’autenticità non è un requisito valido per l’elettorato, quanto lo è per gli acquirenti di opere d’arte e di oggetti d’antiquariato.
Osservo che anche in Grecia questo ragionamento ha recentemente prevalso. L’elettorato che poteva riferirsi ad un raggruppamento politico liberale o neo-liberale ha in parte, ma in parte consistente, votato per Alexis Tsipras che, per le sue origini politiche e per le formulazioni più recenti del suo programma elettorale, tutto può dirsi meno che un liberale. Dunque, anche un esponente dalla sinistra radicale ha avuto l’appoggio dei voti liberali quando egli ha offerto garanzie di essere interprete di una azione di governo che desse alla crisi greca una sbocco europeo e, alla fine, sostanzialmente, liberale. Dico questo perché lo stesso Tsipras si è appellato, intelligentemente, ai valori fondanti della Unione Europea, e anche se, come egli ha detto, “sappiamo che non si tratta di valori socialisti”, in essi ha voluto rintracciare un filo che conduce “alla solidarietà, alla democrazia, alla coesione sociale”.
E’ stata, per uno come lui, e per le origini politiche del suo movimento, una affermazione importante anche se, subito dopo, si è affrettato ad aggiungere che quella adesione costituisce un passo che prepara il terreno “per continuare la nostra lotta per il cambiamento sociale”. Si è dovuto correggere per far digerire le sue affermazioni alle componenti più radicali del suo movimento – che ovviamente perseguono l’obiettivo della “trasformazione socialista a livello europeo” . Quest’ultimo, ha sottolineato Tsipras, è un obiettivo che si può spostare avanti nel tempo e che non si può cogliere “da un giorno all’altro”.
Dobbiamo quindi prendere atto che il liberalismo organizzato politicamente, con ruoli minoritari nelle coalizioni di governo, è definitivamente tramontato. Ma le politiche neo-liberali, di qui in avanti, possono fare a meno dei liberali ed essere ugualmente attuate da altri, come è accaduto fino ad ora?
Evidentemente, per darci delle risposte, dobbiamo avere ben chiara la prospettiva che ci è di fronte e gli scopi a cui una forza politica liberale deve tendere per garantirsi un futuro. Ovviamente per noi liberali questo coincide con la volontà di assegnare al nostro continente europeo un futuro meno fragile e claudicante di quello che abbiamo ereditato dalle politiche messe in atto dal Welfare e dalle correzioni che ad esso si sono successivamente dovute apportare. Questo obiettivo è raggiungibile se i liberali sapranno sopravvivere alla loro crisi. Una crisi che ha coinvolto ancora di più le forse di stampo socialdemocratico, che esistono ormai solo come espressione politica – e quelle di segno moderato e conservatore, che sono progressivamente svuotate dai movimenti di destra estrema e xenofoba.
Per superare la crisi dobbiamo innanzi tutto correggere alcuni punti del nostro programma e non indulgere alla illusione che il mercato, di per sé, sistema e aggiusta tutto, come molti di noi hanno troppo lungamente creduto e ripetuto ad ogni angolo della nostra Europa.
Questo è il primo punto che ci deve spronare ad un ripensamento della azione politica che ci restituisca una funzione di guida e non quella di supporto superfluo alle politiche e alle leadership espresse da altri.
Ralph Darherendorf, in uno dei suoi ultimi scritti, osservava che , ancora nel 2009, non stavano nascendo “movimenti politici in grado di offrire progetti di un futuro alternativo che abbiano una qualche speranza di raccogliere ampie adesioni”. E aggiungeva: “La crisi ha prodotto indubbiamente vittime, ma non ha creato una forza politico-sociale capace di promuovere un cambiamento di mentalità in nome di una immagine del futuro che abbia prospettive di successo”. Probabilmente egli auspicava che proprio da parte liberale si fosse posto mano alle costruzione di una simile forza elettorale, di cui ci ha dato alcune delle coordinate socio-politiche.
E quella forza politico-sociale avrà il compito di costruire una prospettiva di un futuro con possibilità di successo, che è quello che realmente interessa i giovani, i giovani adulti ed anche gli adulti non più giovani ma che hanno speranza di vita ancora abbastanza lunga. Dopo 6 anni dalle riflessioni di Darhendorf, notiamo che movimenti politici nuovi sono effettivamente nati in Europa, ma con quali idee e con quali programmi?
Mi riferisco principalmente ai due movimenti spagnoli, Podemos e Ciudadamos (il primo nettamente schierato a sinistra ha raggiunto, alle elezioni del 2015, il 20% dell’elettorato e il secondo, di orientamento più centrista, il 14%) e al movimento 5 stelle in Italia. Ma essi stentano ad interpretare le posizioni liberali – fatta eccezione per Ciudadamos e qualche isolato esponente dei 5 Stelle – e rischiano di scadere in movimenti di marca populista che tendono solo a coagulare il consenso elettorale spostando di volta in volta la barra del timone sui temi che i sondaggi di opinione sembrano indicare come prevalenti (la lotta al sistema bancario, le ingiustizie retributive, gli emolumenti ai politici e agli amministratori di enti pubblici, etc).
Abbiamo avuto anche in Italia esempi , in passato, di movimenti nati sotto la spinta populista – come “L’Italia dei Valori” – che non avendo affinità elettive verso i gruppi socialisti o conservatori, si è acconciata ad iscrivere propri parlamentari europei nel gruppo liberaldemocratico. Ma essi erano addirittura reticenti sulla loro iscrizione a quel gruppo e nessuna azione parlamentare da loro proposta era veramente orientata verso la condivisione delle tematiche proprie dei liberali. Non possiamo quindi pensare di “mettere il cappello” sopra un raggruppamento politico nuovo che sorge dalla protesta senza porci il problema della sua identità.
La adesione alle idee liberali può anche sorgere e affermarsi incidentalmente e un raggruppamento politico può, in corso d’opera, assumere su di sè il ruolo di proposta di alcune, anche se non tutte, tra le tematiche più care ai liberali. E noi non possiamo fare altro che facilitargli la strada, a patto che ci sia una ispirazione di fondo comune e condivisa.
Ma veniamo al punto. Quelle tematiche devono essere comunque aggiornate e calarsi nel mondo di oggi che ha subito trasformazioni strepitose.
Sempre Darhendorf aveva opportunamente esaminato le conseguenze che il capitalismo avanzato, basato sul debito, aveva avuto “per la creazione del valore cioè per la cosiddetta economia reale”. Il debito, sia quello privato che quello pubblico, ha alimentato la crescita e “il denaro è stato generato dal denaro più che dalla creazione di ricchezza durevole”. Per questo si è aperta una fase in cui è venuto meno il parallelismo tra “economie di mercato e società di mercato”.
In tal senso la fede nel mercato come entità capace di regolarsi da sé può talvolta diventare “una eresia fondamentalista” e non esiste più “un nesso necessario tra liberalismo e capitalismo” (e noi in Italia abbiamo già avuto in passato una celebre polemica tra Croce ed Einaudi sul rapporto tra liberismo e liberalismo). Alla luce di queste novità si profila la necessità di un nuovo contratto sociale basato su una politica sociale e liberale che superi i ”dogmi liberali di ieri” per arrivare a concepire un sistema di controllo-limitazione delle strutture decisionali oligocentriche che stanno dietro alle scelte imperanti e ristrette della attuale politica economica.
A lato di questi ragionamenti si rende necessaria una revisione anche del concetto di crescita, al quale fanno spasmodicamente riferimento tutti gli attori sul proscenio politico di oggi, siano essi di sinistra che di destra. Quel concetto va ridimensionato e ridefinito. La crescita non può essere solo riferita alle quantità di merci prodotte e agli indici che di essa si sono sperimentati – includendovi anche i fatturati della criminalità organizzata – ma va principalmente misurata sul “well-being” delle persone (calcolando anche il valore negativo apportato dai danni ambientali, talvolta molto pesanti, che il perseguimento della crescita può comportare).
Tutto ciò può assemblare interessi politici ed elettorali ad di fuori delle due contrapposte categorie dei lavoratori salariati e dei lavoratori autonomi. Queste categorie non sperimentano più tra di loro il conflitto sociale ma sono assorbite dalle organizzazioni politiche – di destra e di sinistra – che le hanno proiettate nei “governi del consenso“. A fronte di tali categorie si è formata una nuova, vasta categoria di soggetti che non godono né di entitlement né di provisions e che costituiscono una consistente fetta della popolazione che ha redditi appena sufficienti per garantirsi un futuro degno di essere vissuto e che rischia di essere estromessa, a causa della propria debolezza contrattuale, dai diritti di cittadinanza. In essa si deve necessariamente fare riferimento anche agli stakeholders (da contrapporsi agli shareholders e cioè agli azionisti /proprietari delle imprese) i cui interessi, pur legati alla salute del sistema di impresa, sono più svincolati dalle necessità immediate della attività imprenditoriale e quindi sono in grado di costituire una controparte politica che dia indicazioni più ampie di quelle della proprietà e del management delle aziende. Tra di essi ci sono tutti gli operatori che vivono attorno all’impresa e che partecipano direttamente o indirettamente alle sue sorti (come alcune attori del sistema amministrativo locale, del sistema del credito, e naturalmente i fornitori di beni e servizi). Ed anche i soggetti, tantissimi, interessati alla Sharing economy e agli esperimenti di “Short time rentals” che offrono alla popolazione intera la possibilità di servizi competitivi a costi dimezzati.
Questi gruppi sociali possano essere in grado di reinterpretare un nuovo contratto sociale col fine di “infrangere le rigidità sociali dominanti”, e quindi di costituire una forza elettorale, potenzialmente liberale, in grado di condizionare le politiche economiche; anche se, è inutile nascondercelo, questi sono i gruppi che ondeggiano nel comportamento elettorale tra l’astensionismo e il voto ai movimenti populisti e estremisti che si presentano per infrangere il quadro istituzionale piuttosto che intervenire in esso per riformarlo; e inoltre c’è sempre il rischio che la formazione di un nuovo ceto medio frustrato possa facilmente essere preda dei partiti conservatori ed anche dei movimenti di destra radicale.
Sono questi gli stessi soggetti sociali che, non essendo organici agli schieramenti politici di destra e di sinistra, hanno aderito al programma politico di Alexis Tsipras che, come abbiamo visto, in Grecia è riuscito a catalizzare e unire forze ancora maggiori rispetto a quelle raggruppate dal blocco socialista. Voglio aggiungere, con riferimento a Tsipras, che, intuendo la possibilità di aggregare strati sociali molto diversi e anche antagonisti tra loro, egli è riuscito ad attribuirsi una collocazione autonoma nell’ambito della sinistra. Per far questo ha ritenuto che il suo movimento non dovesse portare sulle spalle il peso dei “peccati originali”, come li ha definiti lui, di alcune forze della tradizione socialista. E con questo ha inteso dissociarsi da tutte le grandi famiglie europee compresa quindi quella a lui più vicina, la famiglia socialista. Quest’ultima – è bene precisarlo – raccoglie ormai movimenti e partiti che hanno in comune solo la loro antica origine socialdemocratica (con qualche eccezione come l’Italia dove il Partito democratico ha ereditato le spoglie del vecchio PCI e i pochi socialisti autentici sono ormai una razza in estinzione); questi gruppi politici non esprimono più alcun disegno politico coerente ed in grado di porsi alla guida di un progetto realmente riformatore degli Stati nazionali e della Unione europea.
Aggiungo che un altro problema oggi sembra molto importante ai fini della funzione liberale. La situazione attuale della nostra Europa ci avvisa del fatto che un conflitto politico di grande importanza si sta vivendo e presumibilmente si vivrà nel prossimo futuro: quello tra partiti e movimenti contrari alle politiche di immigrazione e quelli che si sono mostrati, in un modo o nell’altro, favorevoli a far transitare e in qualche caso ad accogliere, una parte dei migranti In transito, nei nostri paesi. Questo scontro, con ogni probabilità, vedrà rafforzarsi progressivamente la parte resistente all’accoglienza e in essa (non esclusa nemmeno la Francia che pure è sembrata molto attenta a non voler ingigantire l’estrema destra assegnandole ruoli di governo) saranno privilegiate elettoralmente le formazioni estremiste, xenofobe, isolazioniste e antieuropee. Ma non solo : questo scontro riduce anche gli spazi della discussione sulle origini del terrorismo in genere e di quello islamico in particolare, assumendo come paradigma la frase del premier socialista francese Valls secondo il quale “spiegare è già volere un po’ scusare”. E’ chiaro che gli atteggiamenti della destra, che non ammette spiegazioni sociologiche nell’esame del fenomeno terroristico, hanno contagiato anche la sinistra che è stata sempre più incline a considerare le cause sociali come giustificazione del comportamento dei terroristi. Quindi la morfologia sociale e politica delle vecchie formazioni politiche di sinistra e di destra si ridisegnerà assegnando ad ambedue linguaggi e argomenti molto simili e accomunandole verso il ruolo di difesa estrema e oltranzista delle radici autoctone dei popoli europei fino ad esaltarne le peculiarità localistiche e tradizionali a discapito delle visioni federaliste e integrative che sono state alla base della costruzione comunitaria .
E’ in questo scenario che dobbiamo calare la funzione dei liberali. Che non può essere ancora una volta quella di fiancheggiare i movimenti di destra “frenando” le esagerazioni e le estremizzazioni. Considero uno sforzo inutile quello di frenare i risorgenti nazionalismi accodandosi sempre di più alle posizioni estremiste e intolleranti dei partiti di destra. Ciò ridurrebbe il compito dei liberali ad un inutile esercizio di morigerato nazionalismo che li porterebbe a scomparire definitivamente e irrimediabilmente dal la scena politica.
Si apre invece un grande spazio politico per i partiti liberali che intendono porsi alla guida di un movimento transnazionale che si contrapponga alle formazioni di destra ed anzi assuma coraggiosamente la guida delle correnti di opinione progressiste, laiche, libertarie, federaliste ed europeiste. Queste componenti ormai indicano che il contrario di ciò che noi oggi siamo sta a destra e che la sinistra socialdemocratica ha abdicato al suo compito. In questo caso la nuova collocazione liberale non mi spaventa; semmai, deve spaventare che la destra possa divenire di nuovo un terreno di coltura di esperimenti autocratici, poujadisti, razzisti, peronisti, quando non addirittura francamente neofascisti e neonazisti che ci impongono di affermare risolutamente la nostra profonda avversione alle loro scelte politiche.
In più dobbiamo rilevare che il concetto della sinistra si è trasformato e si è mondato , anche se non del tutto, del pesante fardello dello statalismo e del dirigismo che ne avevano fatto in passato indubbiamente un terreno di approdo impossibile per i liberali. Noi siamo ormai coscienti che quella brutta e lunga pagina dell’avversione all’iniziativa privata e al ruolo della impresa si sta definitivamente chiudendo e anche se ancora assistiamo a rigurgiti di statalismo retrogrado e passatista possiamo ritenere che il ruolo della nuova imprenditorialità privata (compresi gli esperimenti di commercio solidale, di Sharing economy e le nuove e inedite forme di impresa che arrancano nel difficile contesto economico di oggi), per quanto limitato e marginale, ha stimolato una diffusa sensibilità che privilegia la iniziativa sociale e individuale al posto di quella pubblica e statale. La sinistra quindi è oggi un campo aperto a nuove definizioni e non può più essere intesa come il retaggio della economia pianificata e statizzata. In essa possono tranquillamente convivere formazioni politiche di matrice liberale con altri movimenti, dagli ambientalisti ai progressisti di varia identità, che spingono per un approccio alle tematiche liberali partendo da punti di vista molto lontani dai nostri.
Per questo e per dar forza alla loro ragione di essere, i liberali hanno il compito di formulare un nuovo contratto sociale tra gli attori del mercato e i gruppi sociali che ne diventano protagonisti , in un sistema di regole che recuperi forza morale alle società occidentali ; che ridefinisca i limiti di una crescita che guardi all’uomo in un quadro di economia sociale di mercato; che riduca le attività lucrose che si avvalgono delle frodi e della corruzione; che restituisca agli affari onesti e alla economia del risparmio, dopo e oltre quella del debito, una prospettiva di affermazione; che possa offrire alle quote di migranti che proseguiranno, clandestinamente o no, ad arrivare in Europa, un quadro di certezze giuridiche e di tutela che comprenda anche e contestualmente il rispetto degli ordinamenti e degli istituti che regolano in Europa la vita civile, l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza, senza rafforzare i concetti di esclusione e di confinamento delle etnie; che sanciscano il diritto alla procreazione responsabile anche attraverso tutti i 18 modi di avere figli tra coppie sposate, coppie di fatto, coppie etero od omosessuali col solo limite di rendere un figlio in grado di sviluppare la sua personalità in un ambiente vivibile; che sancisca per i cittadini la proprietà del proprio corpo e che assegni ad essi il controllo totale delle misure di sopravvivenza e di intervento sanitario nel fine vita; che diano allo Stato non solo il compito di confezionare “pacchetti congiunturali e ombrelli di salvataggio” ma quello assai più arduo, di assicurare ai cittadini europei l’appartenenza a una società veramente e sicuramente libera in grado di garantire il godimento dei diritti di cittadinanza alla più ampia platea possibile.

Maurizio Hanke

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