Nel 2011 vi fu un referendum sulla possibilità di privatizzazione della distribuzione dell’acqua (non della proprietà delle fonti). Referendum che fu bocciato a grande maggioranza sulla spinta populista e statalista di tutti i partiti (che in effetti volevano mantenere il controllo sugli enti distributori).
Dopo 13 anni ecco i risultati di questa scelta (da un’inchiesta della Arthur Little):
– il quaranta per cento dell’acqua si perde durante la distribuzione, causa la vetustà delle rete idrica
– mentre nella UE si investono in media 82 euro per abitante, in Italia la media è di 38 euro. Ma questa media è fatta sia dalle grandi utility (a2a, Acea) che investono 56 euro sia dai piccoli comuni che investono la miseria di 8 euro
– nonostante l’Italia sia uno dei Paesi più ricchi di acque la rete è poco interconnessa, poco digitalizzata, con perdite elevate, con pochi depuratori, una rete ferma a trent’anni fa
– ci sono ben 939 procedure d’infrazione presso la UE per l’inadeguatezza dei servizi di fognatura e depurazione e il 72% riguardano regioni del Sud.
Perché tutto questo? Perché ancora millequattrocento comuni gestiscono con propri uffici gli acquedotti e la maggior parte degli altri hanno affidato il servizio a società in house (cioè direttamente controllate da loro stessi).
È una situazione direttamente collegata con le inefficienze dei comuni che se non sono in grado di gestire gare contestualmente non vogliono cedere il controllo di queste strutture: al punto che abbiamo utilizzato solo il 39% dei fondi UE destinati a questo scopo. I soldi quindi ci sono ma non vengono utilizzati.
Ecco il risultato di scelte stataliste e populiste che privilegiano gli interessi del sottobosco politico rispetto agli interessi dei cittadini.
di Angelo Gazzaniga