Un liberale poteva essere contento dell’Egitto post-rivoluzionario, con una maggioranza parlamentare di Libertà e Giustizia (il partito dei Fratelli Musulmani) alleati con gli ultra-fondamentalisti di Al Nour, un presidente islamico quale Mohammed Morsi e una Costituzione basata sulla legge coranica?
Sia chiara una cosa: il parlamento, il presidente e la Costituzione erano tutti stati votati democraticamente. Sull’assemblea costituente si poteva discutere sulle modalità di elezione. C’erano non pochi dubbi sui criteri di voto. Non c’era alcun dubbio, però, sul fatto che la maggioranza assoluta degli egiziani avesse votato per i partiti islamici. Il presidente, esponente del movimento dei Fratelli Musulmani, era stato eletto, anche lui, dalla maggioranza del popolo, il primo elettivo dopo 60 anni di dittature militari. Sulla Costituzione va ricordato che fosse scritta da una maggioranza islamica, senza la partecipazione della minoranza formata da laici, nazionalisti e cristiani, che avevano imboccato la via “dell’Aventino”. Ma va anche ricordato che era stata approvata tramite referendum, dalla maggioranza degli egiziani. Insomma, da un punto di vista democratico, l’Egitto islamico di Morsi era ineccepibile. Mentre quello a cui abbiamo assistito la settimana scorsa è un processo non democratico. Un regime change rivoluzionario, chiamato a furor di popolo, sicuramente. Ma non della maggioranza del popolo, bensì da una minoranza molto aggressiva, sostenuta dall’esercito.
Il problema è proprio questo: la democrazia basta a soddisfare un criterio di legittimità liberale? I Fratelli Musulmani egiziani, erano stati eletti da una maggioranza, con un chiaro mandato: negare i diritti alle minoranze. Morsi aveva promesso, prima delle elezioni, di formare un governo di unità nazionale con tutti i partiti della rivoluzione contro Moubarak. Non lo ha fatto. Di nominare (a garanzia del pluralismo) una vicepresidente donna e un vicepresidente copto. Non lo ha fatto. Di rispettare la volontà delle minoranze per redigere la Costituzione. Non lo ha fatto. Cosa ha fatto, piuttosto? Si è fatto forte del voto della maggioranza degli egiziani per formare un governo monocolore islamico, per creare un’alleanza con i salafiti di Al Nour (che non avevano neppure partecipato alla rivoluzione contro Moubarak), scrivere con loro una carta costituzionale che non lasciava spazio ai diritti delle donne, né alla libertà di culto. Mentre, in compenso, dava pieni poteri agli ulema dell’Università di Al Azhar per interpretare tutte le leggi in chiave coranica. Per “difendere la rivoluzione” aveva emesso dei decreti, a novembre 2012, con cui minava l’indipendenza della magistratura. Insomma, l’Egitto, con i molteplici voti vinti dai Fratelli Musulmani, era diventato un caso esemplare di democrazia che scaccia la libertà. Senza libertà la democrazia perde di significato già alle elezioni successive: solo chi è al potere è libero di riconfermarlo a se stesso, gli oppositori hanno sempre meno chance di rimontare. Lo si è visto ovunque un partito totalitario, esplicitamente anti-liberale abbia vinto democraticamente: le prime libere elezioni diventano anche le ultime.
La privazione di libertà, oltre che l’assenza di ordine pubblico, hanno bruciato l’economia: dopo neppure un anno di governo islamico, il primo Paese arabo per popolazione (80 milioni di abitanti) è diventato un deserto economico, in piena recessione, con una fuga di capitali stranieri, quasi del tutto privo di valuta pregiata, col turismo (prima fonte di ricchezza) al collasso e dipendente dagli aiuti internazionali.
Il rovesciamento del potere è stato effettuato da tutte le forze rivoluzionarie che si erano sentite escluse, appoggiate da una piazza di esasperati egiziani, già stanchi della crisi, del governo e della completa assenza di ordine pubblico. E, in ultima istanza, dall’esercito, che sin da gennaio aveva avvertito che non avrebbe permesso il collasso economico e politico del Paese. Il generale Al Sisi (ironia della sorte: un ufficiale voluto da Morsi per la sua fede islamica e la sua scelta di ammettere i Fratelli Musulmani all’accademia militare) ha posto fine ai disordini, annunciando la deposizione del presidente, lo scioglimento del parlamento e la sospensione della Costituzione. Tutti e tre i cardini del potere islamico sono stati rimossi. Dal clero la palla è tornata in possesso dei militari. Non è democrazia… ma è libertà?
Nel nuovo ordine egiziano, una certa dose di libertà è stata già grattugiata via: diritti civili e libertà di espressione sono sospesi assieme alla costituzione. L’esercito non ha esitato a sparare, per due volte in meno di una settimana, sulla folla in protesta dei Fratelli Musulmani, provocando decine di morti. Trecento militanti del movimento islamico sono ricercati o già in galera, fra cui lo stesso loro leader Mohammed Badie. Le Tv vicine al vecchio governo sono già oscurate, le sedi di Libertà e Giustizia chiuse o sequestrate.
C’è, però, più di un’opportunità per dare all’Egitto una carta costituzionale più liberale e rispettosa delle minoranze. Le elezioni saranno rifatte fra sei mesi e i risultati sono ancora imprevedibili. Il nuovo premier è l’economista (a quanto si dice: liberale) Hazem el Beblawi. Il nuovo presidente è Adli Mansour, giurista ed ex presidente della Corte Suprema, che i Fratelli Musulmani accusano velatamente (con articoli che appaiono e scompaiono dal loro sito) di essere un ebreo in incognito. Il vicepresidente è El Baradei, diplomatico, ex direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, premio Nobel per la Pace. Era stato il primo candidato associato ai Fratelli Musulmani, poi è entrato in rotta di collisione con il movimento ed è diventato l’alfiere della causa dei laici.
Insomma, con Morsi l’Egitto aveva democrazia, ma non libertà. Adesso non ha democrazia, non ha libertà, ma potrebbe conquistare l’una e l’altra in futuro. E’ già un inizio più promettente.
Stefano Magni