Una recensione sull’ultimo libro di Elisabetta Rasy. O meglio sull’autrice
Su Elisabetta Rasy la mia memoria possiede due diapositive radicalmente opposte tra loro. La prima risale al 1969 e mi mostra una giovane piena di entusiasmo che collabora nello studio romano di Luca Patella mentre io, con una piccola squadra della Philips, lo riprendo in uno dei primi video in assoluto, almeno per l’Italia, che vengano registrati sul campo, per poi essere immessi in un circuito di monitor in una mostra, che fu il successivo “Gennaio 70”, a Bologna, Museo civico.
Poi passano gli anni, la Rasy cresce, fa strada, credo protetta da qualche “potere forte” che le permette di compiere rapidi passi, mentre io procedo al piccolo trotto, o addirittura arretro, conquisto a fatica un posticino nell’organigramma dell’”Espresso”, dove me la vedo capitare tra capo e collo, non ricordo bene in quale anno, addirittura nel ruolo di caposervizio alla cultura, da cui mi bacchetta, rigida e altezzosa, come se dovesse farmi scontare colpe inesistenti. E’ il peggiore dei ricordi che mantengo del quarto di secolo di mia collaborazione a quel settimanale, pari nel riscontro negativo a quello che mi resta di Giulio Anselmi, un direttore che qualche tempo dopo mi ha licenziato brutalmente, non si è mai capito bene per ordine ricevuto da chi, poi del resto licenziato anche lui, e finito in un incarico burocratico sicuramente generoso di buone prebende ma di scarso prestigioso, a presiedere l’Ansa.
Ma torniamo alla Rasy, che miete successi come narratrice, fino al recente “Le regole del fuoco”, ricordandoci perfino il caso della Ferrante, anche lei protetta dai “poteri forti” che le hanno consentito di ricevere recensioni entusiastiche dalla migliore stampa newyorkese. Gli amici critici, piuttosto che indagare su chi stia dietro il “nom de plume” della Ferrante, farebbero meglio, come contributo a una sociologia della lettura, a tentare di capire chi ne protegge l’ascesa.
Ma tornando alla Rasy, almeno lei ha il merito di non nascondersi, di presentarsi allo scoperto, rendendo quindi più facile il compito di scoprire chi l’abbia assistita nel cursus honorum, e che ora, beninteso, è già pronto a tessere le lodi di questo suo ultimo nato. Con qualche punto di contatto con la Ferrante, se non altro per una comune partenza da Napoli. Il romanzo in questione si apre con un ampio prologo dove una voce narrante, forse la stessa autrice, ci riporta a un ambito di buona borghesia partenopea dei primo decennio del secolo scorso in cui appare una figura di una giovane, Alba Rosa, dallo spirito indipendente che la porta a mordere il freno cui pretenderebbe di sottoporla una madre “comme il faut”, fino a meditare la fuga trasgressiva e polemica. Ai nostri giorni fanciulle di questo tipo deciderebbero di darsi al volontariato e di andare in qualche landa depressa ed emarginata dell’Africa o dell’Asia minore, fino magari a cadere vittime di qualche sequestro. A quei tempi c’era una pista regia da seguire, quella di andare volontarie nel corpo delle crocerossine. A questo modo la nostra Rasy può infilarsi trionfalmente nel tema della Grande Guerra, che continua ad essere di moda. Là la nostra puledra fiera e capricciosa incontra una più solida coetanea del Nord, tale Eugenia Alferro, che di ferro appare essere davvero, cioè più posata, solida, prudente, rispetto all’avventata figlia del Sud. Le due, in realtà, si comportano come giovinette “bene” finite in qualche severo collegio, magari di suore, come volevano i costumi dell’epoca, con la quasi inevitabile conseguenza di darsi a un amore lesbico, che costituisce il nucleo portante dell’intera vicenda, e anche la parte che potrebbe, se lo si vuole, consentirne il salvataggio.
Che attorno a loro ci sia la guerra, è un inserto del tutto occasionale, risolto dalla scrittrice in modo convenzionale. Converrebbe stampare a caratteri cubitali una ammonizione, ai narratori di oggi, esortandoli a tenersi lontani, nonostante la ricorrenza celebrativa, dagli eventi della Grande Guerra, e soprattutto da Caporetto, terreno minato, ci hanno già rimesso le penne narratori più robusti della Nostra, come per esempio Baricco. Ci vuole una bella faccia tosta a mettersi sulle orme di Hemingway e Malaparte, che oltretutto baravano già anch’essi, in quanto a Caporetto non ci erano stati, ma ne avevano respirato la sacra aura, si aggiunga anche il caso di Comisso, che quelle tremende giornate le aveva sperimentate davvero, rendendole poi con la sua corda elegiaca. In queste pagine c’è invece uno sfondo di cartone, sempre monotono e uguale, come quelli che i fotografi di altre stagioni ponevano alle spalle dei loro clienti. Si susseguono orrori evocati per procura, fatti di un unico impasto di sangue e fango che invade come una piena i vari episodi, mostrando tutta l’insufficienza di quando si tenta di ricostruire fatti non vissuti di persona. Ma niente paura, il racconto in sostanza vira verso esiti che potremmo intitolare a “Voglia di tenerezza”, o “Va’ dove ti porta il cuore”. Naturalmente, a completare una evocazione di fatti ricostruiti per sentito dire, quando, finita la guerra, le due si separano, l’amica del Nord viene portata via dalla “spagnola”, e una inconsolabile Alba Rosa trascina il suo forzato zitellaggio in una Parigi in cui sembra voler ricalcare in formato minore il destino di Gertrud Stein.
da www.renatobarilli.it
Elisabetta Rasy, Le regole del fuoco, Rizzoli, pp. 180, euro 17.
Renato Barilli