“Se De Pedis non fosse stato ammazzato, oggi sarebbe in Parlamento”
Antonio Mancini
“Com’era piccina e carina la moglie di Giulio Andreotti. Pranzammo a casa loro io e Renatino (De Pedis, ndr) con borse di Louis Vuitton piene zeppe di banconote e cocaina”.
Sabrina Minardi, conversazione con Raffaella Notariale
Il 23 maggio del 1992 cade il trentesimo anniversario della strage terroristico-mafiosa di Capaci, ma nel Belpaese dell’intellighencia non si può dire che Giovanni Falcone chiese nell’agosto del 1989 a Totuccio Contorno di piazzare 58 candelotti di esplosivo sotto gli scogli dell’Addaura, con il risultato di ottenere la nomina a Direttore Penale del Ministero degli Affari di Grazia e Giustizia. E lo stesso Falcone ordinerà all’analfabeta Contorno – rientrato clandestinamente in Italia dagli Stati Uniti in violazione degli obblighi del programma di protezione – di decapitare il gotha dei Corleonesi. Guardie e ladri sono accumunati dal fatto di funzionare nell’emergenza, violando l’ortodossia. Nella vulgata comune s’ignora che tra guardie e ladri c’è la stessa intensità cerebrale, ma ci torneremo…
A proposito della sparizione di Emanuela Orlandi del 22 giugno 1983 – e che è ancora in corso di svolgimento, perché come hanno detto a Canale 5 a “Verissimo” Pietro Orlandi e Silvia Toffanin Emanuela è ancora viva – viene tirato in ballo spesso Enrico De Pedis, che insieme a Sabrina Minardi avrebbe consegnato la ragazzina figlia del messo pontificio a Paul Marcinkus per un ricatto al Vaticano: è un falso clamoroso, che rientra nel “falso verosimile”; la figlia del messo pontificio è stata liberata dalla Banda della Magliana che ha scoperto i Lupi Grigi attraverso il “contro-sequestro”, e l’ha poi restituita al Vaticano con l’eliminazione dei terroristi turchi uccisi sul campo nella covert action del gruppo dei Testaccini. Lo sapeva bene l’allora giudice istruttore Ferdinando Imposimato. E’ una storia estremamente complicata, e che non è agevole raccontare in un unico articolo. Ci sono le matrioske all’interno del cold case; qui basti dire che l’uomo che si è trovato al centro della intricatissima vicenda della guerra fredda – e che quando prese in carico Emanuela aveva 27 anni – è stato un criminale del livello di Lucky Luciano. Enrico De Pedis detto “Renatino” è stato il fondatore della Banda della Magliana insieme a Antonio Mancini e Maurizio Abbatino, e quando è morto assassinato a 35 anni a Roma in pieno centro non lontano dall’inquietante Via dei Coronari in un agguato dei suoi sodali di banda che erano rimasti alla dimensione proletaria del gangsterismo aveva accumulato ormai un enorme livello di ricchezza, tale da consentirgli d’interloquire pariteticamente con i Vip della Capitale e poteva vantare un “curriculum vitae” che pochi altri vantavano. Il curriculum di un enfant prodige nel senso tecnico del termine, non di un enfant prodige del crimine (sic!) che aveva aiutato i poveri e i bisognosi, e stava ormai di fatto dalla parte dello Stato. Ma in Italia, paese mentalmente catto-comunista, non si può dire. Perché i familiari delle vittime della mafia insorgono. Prima di tutto, Renatino De Pedis detto “il Dandi” aveva liberato Emanuela dai suoi rapitori – il che non è un fatto negativo –, e poi si è affrancato dal suo passato criminale incontrando monsignor Pietro Vergari – il rettore della Basilica di Sant’Apollinare – che lo mise in contatto con l’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro (governo Craxi). E Scalfaro, figlio politico di Mario Scelba che sarebbe diventato Presidente della Repubblica, lo reinventò in agente sotto copertura dei servizi di sicurezza; De Pedis in cambio otterrà l’impunità con la pulizia della sua fedina penale, incassata anche grazie alla pronunzia di assoluzione “ad personam” nei suoi confronti all’interno del maxiprocesso alla Banda della Magliana firmata da un certo Giancarlo De Cataldo, che anni dopo sarà lo sceneggiatore di “Romanzo Criminale” del regista Michele Placido. De Cataldo salvò De Pedis? Ci fu un interessamento dei fratelli Vitalone, gli “elementi cerniera” del “porto delle nebbie” al Tribunale di Roma?
De Pedis era ormai un benefattore della comunità, un ex bandito che aveva salvato la vita a Emanuela Orlandi e aveva dato cospicui finanziamenti socialmente utili alla Basilica di Sant’Apollinare – non proprio a monsignor Vergari (sic!).
Viaggiò inoltre negli Stati Uniti nel 1990, poco prima di essere ammazzato.
E’ un film, la vita di Enrico De Pedis. Quasi come “Nikita” di Luc Besson. Un borgataro che ce l’aveva fatta, bruciando le tappe. Ma non aveva bruciato le tappe anche Amadeus Mozart?
“Personalità di un delinquente nel diritto della Chiesa” s’intitolava la tesi di laurea di Giulio Andreotti, e De Pedis e il Divo Giulio s’incontrarono nell’abitazione romana del Gobbo per una colazione con (l’allora) bellissima Sabrina Minardi, una femme fatal che si concedeva in giro come una mantide in calore. Anche al “principone” Carlo Caracciolo, sempre a corto di soldi e un po’ fetente. Italian Tabloid, e ci vorrebbe James Ellroy. Non è possibile in questa sede – per ragioni di tirannia di spazio – raccontare il “romanzo criminale” di Emanuela Orlandi nel suo intero svolgimento, ma è essenziale riportare che la figlia del postino di Karol Wojtyla – inghiottita dal lato oscuro nella calda estate del 1983, un mese e mezzo dopo la sparizione di Mirella Gregori – venne rapita dai Lupi Grigi cui apparteneva Mehmet Ali Agca, per ordine del segretario di Stato del Vaticano Agostino Casaroli: il nemico n.1 di Giovanni Paolo II (come si evince anche dalla requisitoria del defunto giudice istruttore Ferdinando Imposimato, dai libri stupendi del gius-filosofo “rara avis” Otello Lupacchini e dal bestseller di Raffaella Notariale “Il freddo”).
Il 23 giugno Casaroli avvisò il Pontefice che era a Cracovia, acclamato da una folla di migliaia di persone: ricatto per mezzo del telefono; un ricatto diabolico, dal momento che Wojtyla adorava Emanuela il suo rapimento diventava lo strumento per favorire la Ostpolitik e bloccare la linea dell’Opera: in guerra non si fanno prigionieri. Marcello Neroni, uomo vicino ai servizi segreti e alla criminalità organizzata ma senza background culturale, con le informazioni in suo possesso è caduto nella trappola del “falso verosimile”.
Wojtyla in persona affidò – rientrato affannosamente in Italia, come ha scritto anche Mehmet Ali Agca nella bella lettera aperta a Pietro Orlandi – il mandato al segretario dello Ior Paul Marcinkus di ritrovare Emanuela, che attivò Pippo Calò e i suoi soci; Calò attivò a sua volta Renatino De Pedis che riuscì a trovare il luogo dove era segregata la povera ragazza: la cosiddetta Banda della Magliana uccide sul campo i due terroristi turchi che avevano la copertura di Casaroli, l’obiettivo del quale come “mente raffinatissima” (ma le “menti raffinatissime” non esistono) era quello di ottenere la scarcerazione di Mehmet Ali Agca in cambio della liberazione sia di Mirella che di Emanuela, prima che potesse fare agli inquirenti il nome di Casaroli; l’interesse di Wojtyla nel suo incontro riservato con Ali Agca in carcere era di incastrare Casaroli come “cavallo di Troia” dell’Urss all’interno del Vaticano, e Casaroli naturalmente lo sapeva.
Ma Pertini non si piegò, rifiutando la concessione della grazia all’ex “lupo grigio” Ali Agca nel frattempo recluso nelle patrie galere dal 13 maggio del 1981, quando in piazza San Pietro – con la complicità di altri due soggetti – sparò a Karol Wojtyla su mandato di monsignor Casaroli. Operazione Ostpolitik. Nel frattempo, Emanuela viene data in carico da Renatino all’amante Sabrina Minardi, e da ella consegnata a Paul Marcinkus a bordo di una Mercedes nera targata Città del Vaticano che era nella proprietà di Flavio Carboni; la consegna avviene in via Mura Aureliane. “Non lo capisci, Sabrì? E’ tutto un gioco de potere…”.
Concluso nel luglio dell’83 il “controsequestro” della “disgraziata” Emanuela, triturata ormai dalle porte girevoli – un argomento che di per sé necessiterebbe dell’autopsia psicologica –, forse addirittura il 3 luglio – giorno del misterioso appello di Giovanni Paolo dal balcone di piazza San Pietro, in occasione della ricorrenza dell’Angelus – il segretario dell’Istituto delle Opere di Religione noto come l’Amerikano inizia la trattativa al coperto dell’158 con Casaroli: i due si odiavano (come emerge anche dal film “I banchieri di Dio”), e si capisce; uno era americano e in rapporti con Reagan, un altro era catto-comunista nel senso deteriormente piccolo-borghese e in rapporti con
l’Urss, che aveva mezzo Vaticano a libro paga. La suddetta trattativa fallisce curiosamente solo per un fatto: ormai nell’angolo, Casaroli, che secondo Maurizio Abbatino consumava rapporti omosessuali con i detenuti di Regina Coeli (ma vale la “presunzione d’innocenza”), ricattò Marcinkus – che era la “colomba” all’interno del Vaticano, come sa bene Mario Meneguzzi – grazie alla circostanza che recapitava la corrispondenza diretta al Papa.
E tra i documenti in suo possesso, c’era una lettera autografa a firma di Roberto Calvi datata 5 giugno 1983 utilizzata a scopo di ricatto nei confronti di Marcinkus: se rivolete indietro la ragazza, esce fuori che avete ammazzato Roberto Calvi.
La Ostpolitik e la linea dell’Opera si fronteggiavano senza esclusione di colpi: Emanuela stava in mezzo. E da allora, non è più tornata a casa. Sono passati quarant’anni, e la testimonianza del “lupo solitario” del Sismi resa alla trasmissione Metropolis nel giugno del 2011 è agghiacciante: sarebbe stata farmacologizzata dal giorno del sequestro ad oggi. Una donna ridotta in stato di cattività, ed è una verità atroce.
Nell’affascinante e documentatissimo libro del cronista di razza Pino Nicotri “Cronaca criminale. La storia definitiva della Banda della Magliana”, viene pubblicata una lettera della vedova di Renatino, Carla De Pedis: “… Le parole “capo della Banda della Magliana”, “pluriomicida”, ecc., riguardo mio marito non sono supportate da sentenze o da una pur minima fonte perlomeno attendibile, tant’è che mio marito è stato assolto con formula piena perfino dall’accusa di essere un semplice membro della banda. Tutto è iniziato in concomitanza con l’uscita del film Romanzo Criminale, arrivato nei cinema il 3 settembre 2005, ma almeno il magistrato Giancarlo De Cataldo, autore del romanzo dal quale è stato tratto il film, spiega che si è ispirato alle gesta della Banda romanzandone la storia. E comunque De Cataldo si è attenuto alle sentenze…”.
E certo che De Cataldo si è attenuto alle sentenze, bella forza! Firmò il verdetto di assoluzione a carico dello stesso De Pedis, che contribuì a riabilitare ma era rimasto a metà del guado. Un ex criminale né innocente, né colpevole ma che voleva cambiare vita tout court. E il fallimento è l’altra faccia del successo: l’assassinio in Via del Pellegrino pose fine al suo sogno.
Giancarlo De Cataldo, ex presidente del collegio giudicante del processo cosiddetto Banda della Magliana che scrive benissimo, è “reo confesso” della pronunzia di assoluzione nei confronti di Enrico De Pedis come sceneggiatore del soggetto “Romanzo Criminale” per conto di Michele Placido: “… Inoltre, visti gli articoli 88 e 222 del codice penale, dichiara di non doversi procedere nei confronti di Pascale Settino detto Bufalo perché totalmente incapace di intendere e volere e ne ordina il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (vedi la “sindrome di Ganser” che affliggeva anche Raffaele Cutolo, ndr) per la durata di anni 10 di reclusione; infine (la cinepresa è puntata su
Giancarlo De Cataldo, ndr), visto l’art. 479 del codice di procedura penale, assolve dai reati ascritti De Magistris Bruno detto “Dandi” (cioè Enrico De Pedis ristretto in carcere, ndr) per insufficienza di
prove; respinge tutte le altre richieste delle parti. L’udienza è tolta”. Schiamazzi e urla in aula. Orbene, a interessarsi della sentenza “ad personam” verso De Pedis che ne rese pulita la fedina
penale, è stato anche Oscar Luigi Scalfaro: saldiamo i tuoi conti con la giustizia, ma tu entri nell’intelligence e lavori per lo Stato; lo sa bene Pietro Orlandi. Non è questa la “smoking gun” che Renatino De Pedis stava dalla parte del Bene? “La verità è raramente pura, e mai semplice”, ha detto Oscar Wilde.
Ma è vero anche quanto scritto da Pino Nicotri: ormai De Pedis non era più un bandito, e voleva passare alla legalità proprio come Michael Corleone ne Il Padrino parte III ma era rimasto schiacciato sul “punto di equilibrio” tra “crony capitalism” e legalità: anche se l’avvocatessa Laura Sgrò – molto efficace davanti alle telecamere, ma di assai dubbia preparazione giuridica – ironizza sul fatto che De Pedis sia stato tumulato nella Basilica di Sant’Apollinare accanto a papa Innocenzo X, – “Era un benefattore della comunità”, ha detto in tono sarcastico a Ballarò nell’arroganza che è il suo charme, ma De Pedis era cambiato veramente. Proprio come Mehmet Ali Agca: “… L’evasione di (Marcello, ndr) Colafigli e il tuffarsi nel traffico della droga per ricompattare ed egemonizzare quello che restava della Banda della Magliana è all’origine anche del delitto di via del Pellegrino. De Pedis infatti di droga non ne voleva più neppure sentir parlare, specie da quando aveva preso a frequentare il sacerdote Pietro Vergari e la sua basilica. “L’eroina ammazza troppi giovani, e io non ci voglio avere a che fare”, diceva spesso Renatino: “Si possono fare soldi in altri modi, senza lordarsi di sangue innocente”. Ucciderlo era dunque l’unico modo per poter mettere le mani sulle ricchezze che si diceva fossero sue, ma intestate ad altri e da altri amministrate: tutta gente che per evitare di finire come lui si sarebbe facilmente adattata ai nuovi padroni. Ma la delusione sarà grande: “Ma ’ndo stanno tutti ’sti quattrini?! Chi se l’è fregati? Chi se l’è magnati?”, si domanderanno senza risposte Angelotti e Colafigli.
Quando era stato in carcere De Pedis aveva organizzato una squadra di calcio di detenuti, della quale si era scherzosamente definito il presidente e a volte usava ironicamente tale titolo per firmare le lettere o per parlare in essere di se stesso. Poi il titolo gli è rimasto incollato addosso, fino a diventare “il presidente della mala romana” o della Banda della Magliana. Che così quel 2 febbraio perde anche il presidente…”.
Come diceva Sigmund Freud, “Scherzando si dice la verità”. Ricordo che il simpatico – nella sua istrionicità romana da ex “Accattone” dei Pasolini’s boys – Antonio Mancini che come collaboratore di giustizia è dello status di Francesco Di Carlo e Tommaso Buscetta, disse a Federica Sciarelli:
“Ma presidente de che?”. In realtà De Pedis – che rientra a pieno titolo a far parte del “mondo di mezzo” che è collegato alla stanza dei bottoni, non ai servizi deviati (sic!) – ha avuto un ruolo nella storia d’Italia e nell’“ob-scaena” della caduta del Muro di Berlino.
Velleitarismo e grandezza s’incontrano, se è vero che i personaggi lombrosiani della “Roma da bere” hanno aiutato la Solidarnosc di Lech Walesa ad avere successo, e intelligenza e cultura sono due cose diverse come ricorda spesso Peter Gomez.
Scriveva Nicotri nel capitolo di “Italian Tabloid”, se così possiamo dire: “10. Il banchiere. Enrico Nicoletti ha superato da tempo le 70 primavere. E si gode la vecchiaia nella sua villa al civico 46 di via Valle Alessandra a Torre Gaia, un chilometro dall’Università di Tor Vergata, periferia est di Roma. Zona certo non lussuosa, per giunta vicino al dormitorio multirazziale di Tor Bella Monaca. Eppure dal 25 febbraio 2004 il vicino di casa di Nicoletti, al secondo piano di un modesto appartamento al civico 45, è un altro famoso pezzo grosso della finanza: il molto più giovane immobiliarista-finanziere-prestigiatore Danilo Coppola (così simile a De Pedis, ndr), uno dei furbetti del quartierino, cioè dei protagonisti dello scandalo del 2006 che – con l’interessata benevolenza, se non complicità, dell’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio – tentarono l’assalto alla Banca Nazionale del Lavoro, all’Antonveneta e al gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, assalto miseramente fallito sotto una grandinata di manette. Coppola era osannato come una delle facce nuove della finanza italiana, ma la faccia è invecchiata precocemente, di colpo, tanto da somigliare a quella del dirimpettaio anche se molto più magra. Tra i protagonisti dell’assalto fallito anche Stefano Ricucci, ex marito dell’attrice Anna Falchi. Ricucci, odontotecnico calato alla conquista di Roma e della Falchi dalla natia Zagarolo, ha il merito di avere coniato l’espressione “i furbetti del quartierino” entrata ormai nel lessico nazionale del Bel Paese. Enrico Nicoletti è invece passato alla storia del Bel Paese come “il banchiere della banda della Magliana”, titolo riduttivo e fuorviante. Fa bella mostra di sé in casa un autografo di papa Ratzinger: “A Enrico Nicoletti per i suoi 50 anni di matrimonio”. “E a cresimarmi la figlia è stato papa Wojtyla, che mi voleva bene e mi ha ricevuto in udienza più volte”, ci tenne ad aggiungere il padrone di casa…”.
Eh già, Solidarnosc costava 200 miliardi di lire. Forse aveva ragione Flavio Carboni, che sembrava un pagliaccio ma era pericolosamente intelligente: “Meglio navigare che vivere”, citando Plutarco di cui gli parlò un amico, essendo un po’ a digiuno di letture di classici… (dall’intervista di Peter Gomez a Carboni per Fq Millennium). Nel 1994, il faccendiere sardo che accompagnò Roberto Calvi al Chelsea Cloister, e poi nell’imbarcazione fino al Blackfriars Bridge interrompendo i suoi investimenti in Olbia 2 (non potendo dire di no a Pippo Calò), disse malinconico davanti al magistrato gius-filosofo Otello Lupacchini che lo interrogava; c’era un televisore acceso nello studio del grande accusatore della feroce Banda della Magliana: “Avrei potuto avere il suo successo. Gli ho venduto la casa in Sardegna a prezzi inferiori a quelli di mercato”. Vi lascio immaginare chi fosse…
Ma non è forse vero che il crimine fa parte del genio?
di Alexander Bush