Nel mondo attuale la lezione di Epicuro è ancora attuale
Viviamo un momento storico simile per molti aspetti a quello in cui visse Epicuro: il suo è un mondo che non conosce più stabili confini, in cui i grandi imperi privano progressivamente di importanza le realtà locali e il confronto con altre culture mette in forse certezze consolidate. L’etica filosofica delle grandi scuole morali sorte in Grecia alla fine del IV secolo – dallo stoicismo all’epicureismo – deve fronteggiare una profonda crisi e la ricerca della sapienza intende additare una via di salvezza che aiuti un uomo, privo ormai di sicuri punti di riferimento, a rendersi immune dall’irrazionalità che lo circonda. Oggi stiamo attraversando una crisi altrettanto profonda indotta sia dalla globalizzazione, che impone nuove sfide sociali, culturali e politiche, sia dalla necessità di fronteggiare una delle più importanti rivoluzioni tecnologiche della vicenda umana: la cosiddetta “rivoluzione biologica”. Ogni progresso scientifico rende la morale più difficile e le nuove possibilità offerte dai progressi delle biotecnologie pongono alla nostra coscienza quesiti morali tra i più ardui da risolvere. Come vivere? In che cosa credere? Come essere felici? Nella nostra civiltà l’ordine della scienza è sempre più indipendente dai valori etici ed esistenziali: in ciò risiede uno dei dilemmi dell’epoca presente. Come potrà il nostro mondo ritrovare una forma di sapere che non verta solo sugli oggetti del conoscere ma anche sul modo di vivere e di operare? Questa separazione tra scienza e saggezza non esisteva nella grecità. Ritornare a una “filosofia vissuta”- come la intendevano gli antichi greci – può forse aiutarcia costruire una “scienza con coscienza” – per riprendere l’espressione di Edgar Morin – e, soprattutto, a riapprendere un’arte del vivere. L’esercizio della filosofia non è, infatti, una pratica puramente intellettuale e speculativa, ma una scelta impegnativa che coinvolge una dimensione esistenziale profonda, un modo di vita che abbraccia l’intera attività umana.
Anche per questo l’invito di Epicuro riguarda ciascuno di noi:” Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio di filosofare si stanchi: nessuno è troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. Chi dice che non è ancora giunta l’età di filosofare o che è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora o non è più l’età per essere felici”. La spiegazione che ci viene offerta è di grande finezza psicologica. Perché devono filosofare sia il giovane che il vecchio? Il primo perché sia insieme giovane e vecchio, per l’assenza di timore di fronte al futuro; il secondo perché invecchiando rimanga giovane nei beni, per il ricordo gradito del passato. E’proprio la consapevolezza del limite temporale della nostra esistenza, la certezza indeterminata della nostra mortalità a farci apprezzare il valore della vita, il senso delle sue possibilità. Saggezza è dunque saper vivere nel presente, accettare con gratitudine il proprio destino (amor fati).
Non nasciamo che una volta – ci ricorda Epicuro -, due non ci è concesso, non siamo padroni del nostro domani… Perché dunque procrastinare la gioia di cui potremmo godere nel presente? La vita se ne va mentre si indugia. Si tratta allora di cogliere la bellezza dell’attimo fuggente – sarà memore di questo Orazio col suo carpe diem – dando un senso ad ogni istante di un’esistenza terrena che, pur se nata dal caso, è insostituibile nella sua unicità. In tal modo Epicuro intende consegnarci i precetti di una vita felice.
Gli equivoci dell’edonismo.
La rilettura dei suoi testi – che dobbiamo a Diogene Laerzio – ci fa comprendere il valore di un’attività filosofica che, lontana da ogni astrattezza, diventa saggezza e coerente pratica di vita. Come spiegare, allora, la cattiva fama dell’epicureismo, la confusione di un insegnamento che mira alla terapia dell’anima con una forma di volgare edonismo? L’equivoco risiede appunto nel concetto stesso di ‘piacere’. Il criterio con cui valutiamo ogni bene, secondo Epicuro, è il piacere, inteso come il principio e il fine della vita beata. Ma di quale piacere parliamo? Occorre distinguere due tipi di piaceri: quello ‘stabile’, che consiste nella privazione del dolore e quello ‘in movimento ‘, che si manifesta nell’allegria. La felicità, nella visione epicurea, risiede soltanto nel piacere stabile o negativo, cioè “nel non soffrire e nel non agitarsi” ed è quindi definibile come atarassia (assenza di turbamento) e aponia (assenza di dolore). Già da questi primi rilievi emerge nettamente come l’epicureismo richieda non il semplice abbandono ai piaceri ma un loro sapiente calcolo e un’attenta misura. E’infatti proprio il carattere negativo del piacere a imporre la scelta dei desideri e la limitazione dei bisogni. Per questa ragione solo i bisogni naturali e necessari alla vita e alla salute del corpo andranno soddisfatti, gli altri invece abbandonati o rimossi. Questo controllo esige un assiduo allenamento e una costante ricerca interiore, il che ha indotto un grande studioso della grecità, Pierre Hadot, a parlare di veri e propri ‘esercizi spirituali’ – da intendersi, ovviamente, non in senso religioso ma rigorosamente filosofico – della scuola epicurea.
Un giudizio per molti aspetti sorprendente ma che trova la sua spiegazione nel fatto che per Epicuro la filosofia è una terapia e la guarigione consiste nel liberare l’anima dalle preoccupazioni della vita. Molti, infatti, sono gli argomenti utili a “calmare l’anima”, simili quasi a delle prescrizioni mediche, come osserva una fine studiosa dell’etica ellenistica, Martha Nussbaum.
In effetti, Epicuro vede nella filosofia la via maestra per raggiungere la felicità. Innanzitutto, può liberare gli uomini dal timore degli dei dimostrando che, per la loro natura immortale e beata, nulla deve essere loro attribuito che sia estraneo all’immortalità o diverso dalla beatitudine. Gli dei esistono – Epicuro non ne dubita – ma non nel modo in cui i più li concepiscono, applicando ad essi le opinioni del volgo. Mettendo in guardia dalle “ingannevoli supposizioni” che attribuiscono al loro intervento danni o vantaggi, ci ammonisce che essi, “dediti soltanto alle virtù loro proprie”, non si occupano delle faccende umane. Vani e irragionevoli sono dunque i turbamenti e la paura superstiziosa che assalgono gli uomini allorché temono punizioni e castighi di origine divina.
La seconda liberazione riguarda la paura della morte.“Abituati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo; ma la morte è la perdita di ogni sensazione”. Noi siamo il nostro corpo composto di atomi e la morte è il suo disgregarsi. L’anima è un elemento corporeo formato da atomi sottilissimi, come quelli del vento, ed è fonte delle sensazioni soltanto quando si trova in relazione col resto del corpo. Al di fuori, dunque, dell’unione anima-corpo la sensazione non esiste più per nessuno dei due elementi. Ecco la cristallina chiarezza con cui Epicuro, nella Lettera a Meneceo, ci invita a riflettere sul fatto che la morte è nulla per l’uomo saggio e consapevole dei limiti della sua esistenza. Fondamentale, ancora una volta, è l’acquisizione di un’abitudine al pensare che ci conduce a quella “retta conoscenza” che fa accettare serenamente il dato che la nostra vita è mortale, liberandoci dal vano desiderio dell’immortalità. “Non vi è nulla di temibile nella vita per chi ha la profonda convinzione che nulla di temibile vi è nel non vivere più”. Epicuro – la cui passione per la ragione si congiunge mirabilmente ad una delicatissima sensibilità morale – si rende ben conto che ciò che più ci inquieta è l’attesa della morte, un pensiero che tuttavia ci affligge vanamente dal momento che “il male che più ci atterrisce, la morte, è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non siamo più. Pertanto essa è nulla per i vivi e per i morti, perché per quelli non c’è, e questi non sono più”.
L’argomentazione irrefutabile di Epicuro – che ci insegna a guardare in faccia la realtà, sollecitandoci ad una presa di coscienza razionale il cui fine è la liberazione dal ‘male’ rappresentato dalla paura della morte – assume un particolare significato oggi per noi. Siamo molto lontani da ogni terapia dell’anima. Viviamo in un’epoca in cui i progressi della biomedicina hanno trasformato le circostanze e le modalità del morire, generando, da un lato, progetti futuribili di immortalità tecnologica, mediante clonazione o ibernazione, dall’altro provocando una rimozione collettiva dell’idea insostenibile della morte. Lo storico Philippe Ariès ha parlato, a questo riguardo, di “morte negata”, in opposizione alla “morte accettata”, vissuta come un evento naturale, nel mondo di ieri. A fronte di tutto questo, Epicuro ci ricorda che l’esercizio del vivere bene e del morire bene è il medesimo. Il futuro non è del tutto nostro, né del tutto non nostro “perché non ci illudiamo come se assolutamente si dovesse avverare, né perdiamo la speranza, come se non si dovesse avverare affatto”. Anziché, dunque, rappresentarci i mali in anticipo occorre staccare la nostra mente dalla visione degli eventi dolorosi, godendo dei piaceri presenti o facendo rivivere il ricordo dei piaceri passati. Anche in tal caso la filosofia può aiutarci – ecco ancora il suo valore di farmaco – attraverso una sicura conoscenza dei piaceri che sappia ricondurre ogni scelta e ogni rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima. “E quando abbiamo raggiunto questo, ogni tempesta dell’anima si dissolve, perché l’essere vivente non ha più qualcosa da inseguire come se ne fosse privo, né qualcos’altro da cercare, con cui completare il bene dell’anima e del corpo”.
Parole di grande significato, anche queste, per noi oggi, assillati come siamo dal meccanismo perverso di una moltiplicazione incessante dei desideri – che spesso pretendono di convertirsi in veri e propri diritti -, facendoci ritenere che il loro appagamento sia la condizione della felicità. Sappiamo che l’invito alla sobrietà, alla moderazione, al senso umano del limite è un tratto costante dell’insegnamento della filosofia greca – compendiato nelle massime incise sul tempio di Delfi: “conosci te stesso”, “nulla di troppo”, “riconosci il momento favorevole”, “la misura è la cosa migliore” – nella consapevolezza che quello dei desideri è un pozzo senza fondo – si pensi ad Eraclito – in cui l’uomo rischia di smarrirsi e di perdersi. Ma Epicuro sottolinea ulteriormente che, proprio perché il piacere è il principio e il fine della vita beata, dovremmo scegliere accuratamente quali desideri soddisfare, ponendo, per così dire, ad ognuno di essi la domanda: che cosa avverrà se viene appagato? E che cosa avverrà se non viene appagato? In effetti, a seconda delle circostanze, quel bene che è il piacere può essere per noi un male e, viceversa, quel male che è il dolore può rivelarsi un bene. La previsione delle conseguenze dovrebbe condurci, attraverso un accorto calcolo, a rinunciare a quei piaceri da cui potrebbe provenire un dolore maggiore e, vicendevolmente, a tollerare quei dolori da cui potrebbe derivare un maggiore piacere. Sembrerebbe una sorta di aritmetica morale – in parte ripresa dall’utilitarismo anglosassone nelle sue diverse versioni – che sottintende, tuttavia, un’analisi psicologica assai fine,confermata pienamente oggi dagli studi più recenti di neuroscienze, utile a farci comprendere la necessità di interrogare i nostri desideri per il nostro stesso equilibrio psico-fisico, vista la complessità dell’intreccio quasi inestricabile tra piaceri e dolori che contraddistingue la nostra esistenza.
Luisella Battaglia