Erdogan, Putin, Maduro, Duterte: ombre autoritarie sull’Europa

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stefano
La democrazia totalitaria è il vero nemico della libertà

Che spettacolo deprimente e pericoloso, quello della democrazia che divora sé stessa! Abbiamo un esempio concreto sotto gli occhi: la Turchia di Erdogan. E abbiamo un pericolo sotto gli occhi: un’Europa in cui i governi democratici sono sempre più delegittimati agli occhi delle opinioni pubbliche. Il primo nemico della libertà, oggi, non è più la classica dittatura, sorretta sulla punta delle baionette, ma la democrazia totalitaria, il tiranno eletto dalla maggioranza.
Il XXI Secolo, in appena un quindicennio, ci ha mostrato tanti esempi drammatici di questa degenerazione. Cosa accomuna i tiranni di oggi: Putin in Russia, Erdogan in Turchia, Chavez e il suo successore Maduro in Venezuela, probabilmente anche Duterte nelle Filippine (se rispetta le sue promesse elettorali)? Sono stati tutti eletti da ampie maggioranze popolari. La loro ricetta è un mix di sicurezza economica e sicurezza militare, promesse fatte a popoli angosciati da crisi economiche, disuguaglianze sociali e paura di pericoli esterni e interni.
Chavez ha puntato tutto sulla sicurezza economica, il suo momento d’oro è giunto con il default dell’Argentina le cui ripercussioni si sono sentite in tutto il Sud America. Poi ha consolidato il potere sventando il golpe ordito contro di lui nel 2002: la minaccia militare alla sicurezza interna, che gli ha permesso di puntare il dito anche contro una presunta minaccia esterna (secondo lui, a organizzare il fallito golpe erano stati i soliti “yankees”). Putin deve il suo successo a circostanze simili: la grave crisi economica del 1998-99 e la guerra in Cecenia. Anche lui ha sviluppato la sua retorica puntando il dito contro il nemico esterno: i soliti yankees, accusati di tutti i mali della Russia. Duterte ha stravinto le elezioni nelle Filippine, quest’anno, promettendo “legge e ordine” contro la criminalità, il terrorismo rosso e quello islamico, si rivolge a un popolo povero in cui le disuguaglianze sociali sono ancora radicali. Se mantenesse le sue promesse elettorali, diverrebbe un Chavez (o un Putin) del Sudest asiatico.
Quanto a Erdogan, il suo è il profilo tipico del leader securitario, l’uomo forte che governa su un popolo colpito duramente da varie forme di terrorismo, curdo, nazionalista e islamico, un paese che ospita 3 milioni di profughi dalla vicina guerra siriana, da cui riceve anche qualche cannonata al confine. Il premier e poi presidente islamico ha consolidato la sua fama denunciando un golpe presunto (il piano Ergenekon, nel 2011) e procedendo con una massiccia purga, poi sventando un golpe armato (il 15-16 luglio scorsi) e completando la purga con l’arresto o il licenziamento di decine di migliaia di militari, poliziotti, magistrati, professori. Anche lui punta il dito sul nemico esterno: ovviamente gli yankees, accusati di essere dietro al fallito golpe.
Questi “uomini forti” hanno reso i loro paesi delle società chiuse. Sotto i loro governi, tutte le forme di libertà individuale, personale, economica, di religione e soprattutto di espressione, sono minacciate o apertamente soppresse. Eppure la maggioranza non si ribella, anzi: li applaude e li vota. Non li sceglie nonostante il loro comportamento tirannico. Li sceglie proprio per il loro comportamento tirannico.
Ma le democrazie occidentali rischiano di fare questa fine? O possiamo limitarci a vedere questo triste spettacolo in televisione, in paesi più o meno lontani dal nostro mondo? Purtroppo quel che dobbiamo capire è che le condizioni che hanno portato al governo queste tirannie della maggioranza, possono ripetersi anche qui e in parte si stanno già ripetendo.
I lettori adesso penseranno a: Donald Trump. In effetti il personaggio si presta a suscitare timori autoritari ed esprime apertamente la sua simpatia per Vladimir Putin (prontamente ricambiata da Mosca). Ma bisogna anche pensare che la libertà americana ha la pelle dura. Gli Stati Uniti non si sono trasformati in una socialdemocrazia nemmeno dopo 8 anni di politiche progressiste di Barack Obama. Non si trasformerebbero in una “democratura” autoritaria nemmeno se Trump venisse eletto presidente e ce la mettesse tutta per limitare la libertà degli americani. Perché gli Usa sono formati da 50 stati che godono di ampia autonomia. La società nordamericana esprime associazioni, aziende e confessioni religiose ricche e fiere della loro indipendenza, che mai risponderebbero ai diktat del potere politico.
Il pericolo vero, semmai, è in Europa. Perché le democrazie europee sono state scosse da tre successivi crisi, dal 2013 ad oggi, che stanno minando la legittimità dei loro governi. La prima è stata la crisi dei debiti sovrani, i cui strascichi si vedono ancora oggi nella più lunga recessione della storia recente. La seconda è la crisi dell’immigrazione, che sta suscitando, dal 2014 ad oggi, la paura emotiva di un’invasione strisciante. La terza, iniziata l’anno scorso, è quella del crescendo del terrorismo di matrice jihadista, che colpisce ovunque e in modo estremamente imprevedibile. Il risultato è un misto di insicurezza economica e timore per la propria sopravvivenza, lo stesso insieme di fattori che ha portato, altrove, all’elezione plebiscitaria dei vari Chavez, Putin ed Erdogan. E le nostre leadership politiche, come quelle della repubblica di Weimar a suo tempo, non hanno saputo dare alcuna risposta efficace. Anche da noi, come nelle altre democrazie che hanno finito per divorare se stesse, i complottisti dilagano e attribuiscono la colpa di tutti i problemi al solito nemico esterno: gli americani, come sempre, capro espiatorio di destra e sinistra, come lo erano gli ebrei per le destre del Novecento.
Contrariamente agli Usa, la libertà degli europei non ha la pelle dura: i nostri sono tutti sistemi centralisti, dove lo Stato gioca un ruolo dominante sull’economia così come sulle nostre decisioni personali. Per un aspirante dittatore occorre ben poco sforzo per trasformarci in una società chiusa.

Stefano Magni

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