Europa, no grazie

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Come sembra la UE vista da Londra dopo le ultime elezioni europee?

Vista dalla satolla e cosmopolita capitale dell’ex Impero Britannico, l’Europa non può che sembrare un continente sull’orlo di una crisi di nervi. Mai come nelle ultime settimane la Manica è tornata a sembrare una barriera per i demoni che tornano ad aleggiare su un continente che più che Vecchio, sembra appena uscito dalla TARDIS del Dottor Who. Le elezioni del Parlamento Europeo sono venute e passate senza che gran parte della popolazione della megalopoli che sta fagocitando l’Inghilterra sud-orientale abbia alzato un solo sopracciglio. La cosa può sorprendere chi, italiano e giornalista, fatica a concepire la vita se non come una continua successione di altisonanti dichiarazioni, polemiche da pollaio e furibonde baruffe chiozzotte nei salotti televisivi, tutti immersi in un’atmosfera da perenne resa dei conti. La politica, oltremanica, occupa più o meno il 2 per cento del tempo della gran parte della popolazione. Se non sei un politico, un giornalista politico o un dipendente pubblico diretto o indiretto, di politica si parla solo nelle settimane che precedono le elezioni generali. Parlare di politica è considerato di cattivo gusto. Le persone perbene preferiscono disquisire di altre questioni. Scannarsi a vicenda per le dichiarazioni del politico X o la risposta del politico Y non potrebbe esser più lontano dal mondo tutto sommato tranquillo di quella che molti considerano la capitale culturale e finanziaria del Vecchio Continente. Rookie mistake. Londra non solo non è Europa, ma non è nemmeno Inghilterra. Londra è Londra, un’altra cosa, una città che contribuisce per un quarto all’economia dell’intero paese, dove convivono a malapena riconoscendo la reciproca esistenza vette di privilegio stratosferiche ed abissi di incultura sottoproletaria da far rabbrividire. Vista da qui la follia che sta colpendo di nuovo l’Europa appare tanto prevedibile quanto inevitabile. Oggi come ieri, la vita dalla parte giusta della Manica sembra distante ben più delle poche miglia che separano quest’isola dal continente. Ben pochi sembrano sorpresi dal fatto che il pochissimo amato vicino abbia visto il trionfo di un partito profondamente fascista come il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. A nessuno fondamentalmente importa niente di sapere che anche nella Germania egemone il sentimento anti-europeo stia crescendo. Le convulsioni dell’un tempo Bel Paese sono passate del tutto inosservate. Le percentuali di votanti parlano da sole: più di sei su dieci aventi diritto giovedì non si sono disturbati a cambiare la propria routine quotidiana per trovare la mezz’ora necessaria per votare. Le percentuali sono salite di poco quando c’erano anche le amministrative, come nel borough nel quale vivo. Semplicemente, la politica non è il primo pensiero del cittadino medio. Di politica ci si occupa solo quando siano toccati direttamente i propri interessi personali. Il trader che lavora nella City e si occupa di Europa ovviamente avrà una percezione del Continente diversa da chi vive nella più completa e beata ignoranza su tutto quello che succeda al di fuori dalla propria ristrettissima sfera di interessi. Ancora non so decidermi se questo sia un bene o un male. In Italia la politica ha ormai pervaso ogni ambito del vivere civile, ogni secondo di ogni trasmissione televisiva o radiofonica. Qui al massimo si parla di “issues”, la politica interessa solo se i protagonisti si rendono colpevoli di qualche comportamento moralmente riprovevole. Fino a quando non vengono beccati con le mani nel barattolo di marmellata la popolazione è ben lieta di continuare a vivere senza nemmeno sapere i nomi dei ministri. Anche in redazione, quando capita di parlare coi colleghi inglesi della politica italiana, l’ignoranza è totale e devastante. Lo stesso capita ai colleghi francesi, spagnoli, tedeschi o russi. L’inglese mediamente educato non riesce ad andare oltre ai luoghi comuni più triti, ridacchia sul giullare Berlusconi, unico politico italiano che conosca, in fondo ci considerano tutti poco più che simpatiche canaglie. Tornando alla domanda che mi viene fatta da molti colleghi rimasti a sud delle Alpi, la risposta non può che essere tranchant: di quello che avviene in Europa, da queste parti importa ben poco. Gli unici che si sono presi il disturbo di andare a votare sono gli inglesi che non vedono l’ora di poter correre alle urne per il referendum che Cameron, obtorto collo, è stato costretto a concedere per cercare di limitare la marea viola dell’UKIP. “Better off out” è un mantra che gran parte della popolazione inglese farebbe proprio, se non fosse per il continuo martellamento dei maître à penser, le cui profezie di sventura economica farebbero rabbrividire anche il più scettico degli scettici. Il Regno Unito (chissà fino a quando) non è e non sarà mai “Europa”, nonostante i mille tentativi della frangia europeista, che considera l’UE un artificio per imporre alla popolazione leggi che non approverebbero mai di propria spontanea volontà. Con tutta probabilità, il “terremoto Farage” lascerà lo stolido universo che gravita attorno a Westminster del tutto inalterato. Continuerà la guerriglia nei liberal-democratici, divisi tra la fedeltà ad un leader poco amato e la sensazione di essere sul punto di finire nel dimenticatoio. Nel partito conservatore continuerà la guerra fredda tra l’ala thatcheriana e quella “etoniana” dei maggiorenti di ieri ed oggi, tutta arroccata attorno ad un David Cameron percepito da tutti come una banderuola senza principi. Continuerà la lotta nel partito laburista tra l’ala sindacalista dei duri e puri contrapposta ai New New Labour, convinti di aver forse scelto il Milliband sbagliato per rinverdire i fasti del grande ammaliatore Tony Blair. Anche il referendum scozzese non sembra in grado di accendere l’entusiasmo del pubblico inglese, la cui deriva su posizioni libertarie è confermata anno dopo anno, sondaggio dopo sondaggio. Le conseguenze sul dibattito politico sono evidenti. Anche i laburisti più trinariciuti ammettono senza problemi che il contenimento della spesa pubblica sia una priorità. Si discute solo sul come, quando e quanto. Cose del genere in Italia, come in Francia, Grecia o Spagna, sembrano ancora un’eresia. Qui, come in Olanda, Svezia, Danimarca e Germania, il tono della conversazione è ancora normale, si possono cercare soluzioni serie, ragionate, non affrettate. Il resto dell’Europa, invece, sembra impegnato a combattere contro la realtà, in uno stato confusionale sempre più patologico. Si guarda sempre indietro, rifacendosi ad esperienze fallimentari, convinti che il mondo non sia cambiato, che basterà continuare a spendere e stampare moneta per tornare ai bei tempi andati delle spese pazze, delle pensioni alle casalinghe, dell’esplosione del debito pubblico usato per comprare voti e mantenere la sacra “pace sociale”. Dalla parte giusta della Manica l’Europa è già divisa in due. C’è un Nord che, sebbene controvoglia, cerca di vedere in faccia la realtà e si muove per ridurre i lacci e lacciuoli sull’iniziativa privata, convinto che solo da questa possa ripartire la crescita. Poi c’è un Sud sonnambulo, incattivito, che sull’orlo del baratro si illude che la persecuzione fiscale di chi si ostina a produrre ricchezza sia la strada maestra per sostenere se non espandere un sistema clientelare e parassitario che, in fondo, nessuno vuole veramente smantellare. Ai londinesi in fondo tutti questi ragionamenti importano ben poco. Il vero problema sono i prezzi delle case in continuo aumento, che stanno trasformando le zone più ricercate della metropoli in enclaves aperte solo a danarosi stranieri. Gli stessi che le politiche criminali dei pazzi sonnambuli stanno costringendo a fuggire verso lidi più ospitali per chi voglia ancora fare impresa. Non è la prima volta che movimenti del genere colpiscono il Vecchio Continente. L’ultima volta avvenne negli anni ’30 e sappiamo tutti come andò a finire.

Luca Bocci

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