FALCONE DIVORATO DALL’AMBIZIONE: LA BOMBA ALL’ADDAURA ERA UN FALSO?

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No, caro Roberto Saviano (nei confronti del quale ho una stima bassissima poiché mi ricorda i professionisti dell’Antimafia senza nessuno specifico background culturale). Giovanni Falcone, l’icona immortale dell’antimafia, non era un modello di magistrato solo perché è saltato in aria. Anzi, era divorato dall’ambizione al punto da essere capace di procurarsi un falso attentato dinamitardo negli scogli dell’Addaura pur di ottenere la nomina a Direttore penale degli Affari di Grazia e Giustizia, il 21 giugno del 1989. Quando la sua carriera era di fatto terminata. Sì, proprio così. Ma arriviamoci con ordine, un passo alla volta. Ha ragione Saviano nel suo editoriale pubblicato su “la Repubblica” come sempre connotato dalla mediocritas del birignao dell’intellighenzia di sinistra a scrivere che nessuno in vita come magistrato ha accumulato così tante sconfitte come Giovanni Falcone: una bocciatura dietro l’altra; Falcone bocciato come capo dell’ufficio istruzione a Palermo; Falcone bocciato come candidato a procuratore nazionale antimafia ed isolato dal Csm; Falcone bocciato soprattutto per l’essenza del suo lavoro: la “giustizia creativa” del maxi-processo alla Cupola fondata sulla violazione strutturale dell’art. 27 della Costituzione – la “responsabilità penale è personale” – pur di passare alla Storia come il nemico pubblico n.1 della criminalità organizzata. Mi avvalgo della citazione del giurista Ferdinando Cionti per argomentare nel merito una tesi che può sembrare davvero spregiudicata, ma è in realtà provocata dal disincanto di chi scrive, sull’illegalità pericolosissima del cosiddetto “metodo Falcone” riassumibile alla voce “Il fine giustifica i mezzi”, che è stato una vera e propria tragedia giuridica del Diritto “mostruosamente creativo” all’origine della necessità della stessa trattativa Stato/Cosa Nostra (se la Certezza del Diritto è fatta a brandelli, il ritorno nel reale è sempre cruento): “… visto che siamo nel campo delle congetture, cedo alla tentazione di esporre anche le mie sulla trattativa stato/mafia. Semplificando “brutalmente”, fino al maxiprocesso di Palermo, nei processi di mafia venivano condannati gli esecutori materiali dei delitti, ma quasi mai i mandanti, per la difficoltà di provare la loro colpevolezza. La tesi accusatoria di Falcone/Borsellino fu che, considerata l’organizzazione gerarchica verticale di Cosa Nostra, i delitti dei “picciotti” fossero “automaticamente” riconducibili ai capi. Una tesi efficace, già proposta negli Usa e respinta perché si scontrava con un antichissimo principio del diritto per cui la responsabilità penale è personale. Dunque da una parte la ragion di Stato e dall’altra il diritto. In primo grado prevalse la ragion di Stato, ma si temeva che in Cassazione – dove la prima sezione, competente per i reati di mafia, era presieduta da Carnevale, il magistrato più preparato e rigoroso d’Italia – l’ardita tesi accusatoria non sarebbe passata. Di qui la vergognosa persecuzione di Carnevale scatenata dalla sinistra e la sua sostituzione con un magistrato più attento alla “giustizia” che al diritto (fatta dal duo Andreotti-Falcone, ndr). Di qui la condanna dei capi mafiosi che la ritennero al di fuori delle regole. Di qui la loro reazione con gli attentati a Milano e a Roma…”. Di qui lo stragismo mafioso destabilizzante degli organi costituzionali, con il rischio di una spaccatura bipolare dell’Italia nel secessionismo separatista di tipo golpista. E la necessità di scendere a patti con Vito Ciancimino. Dato che come diceva Victor Hugo “il diavolo si annida nei dettagli”, nel 1989 – mentre procedeva a tutta velocità la giurisprudenza extra-ordinem dei giocatori d’azzardo tanto brillantemente pratici quanto di dubbia preparazione accademico-giuridica Falcone/Borsellino versus Carnevale –, Falcone visse l’esperienza traumatica della bocciatura tout court dei suoi percorsi professionali: lo consideravano, la maggior parte dei suoi colleghi – a prescindere dalle diaboliche motivazioni di natura invidiosa che pure c’erano – un giustiziere spericolato. Nell’89 Falcone era professionalmente isolato da tutta – ma proprio tutta – la Procura di Palermo. Da “ingenuo che non capiva nulla di politica” (il copyright è di Claudio Martelli che lo conosceva bene), Falcone non riteneva possibile di essere stato scavalcato dal dott. Meli, un magistrato più anziano e più competente di lui, senz’altro meno brillante, come capo ufficio istruzione di Palermo. La considerava un’umiliazione intollerabile, ma soprattutto un vulnus inaspettato. Finchè il 21 giugno 1989 gli agenti della scorta ritrovano sulla scogliera antistante la villa affittata dal magistrato 75 candelotti di tritolo, mentre era in compagnia dei colleghi Carla Del Ponte e Lehman. La reazione di sdegno nell’opinione pubblica è quasi unanime: “Lo vogliono morto, è un perseguitato”. Ma autorevoli personaggi pubblici investiti di alte cariche – e citati dalla Suprema Corte di Cassazione proprio con le suddette parole nella sentenza sull’Addaura dell’ottobre 2004 – sostengono “la non funzionalità dell’ordigno” e accreditano mediaticamente la tesi dell’attentato falso e/o simulato: Domenico Sica, Francesco Misiani – cioè i vertici dell’Alto Commissariato Antimafia! – e il colonnello del Ros dei Carabinieri Mario Mori. Mario Mori non è un personaggio qualunque: è un pluridecorato che ha messo le sue impronte digitali sulla cattura di Totò Riina, Domenico Sica e Francesco Misiani hanno coordinato le indagini romane sulla arcinota Banda della Magliana. Tutti e tre scemi o invidiosi? O peggio, calunniatori al servizio di Cosa Nostra? Inverosimile (soprattutto se si tiene conto del fatto che lo stesso Mori inviò a comunque a Falcone, in regime di collaborazione, il famoso “Rapporto Mafia-Appalti” nel 1991 che è ancora oggi una grande indagine contro i crimini dei colletti bianchi). Sta di fatto che Martelli portò l’“utilizzatore finale” dell’ordigno suppostamente non funzionale al Ministero di Grazia e Giustizia, da dove l’uomo d’azione – intelligenza pratica versus cogito – Falcone ebbe l’intuizione davvero geniale della Superprocura centralizzatrice delle indagini. Ma questa è un’altra storia. Cosa non si fa per uscire dall’anonimato, e a quale prezzo!

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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