Un saggio critico sullo scritto “L’enigma della crescita”di Luca Ricolfi
Non vi è nulla di matematico, ma molto di “filosofia della storia”, nella intensa riflessione svolta dal docente torinese di Analisi dei dati Luca Ricolfi, in “L’enigma della crescita” ( Mondadori, 2014 ). Il saggio sposta il fuoco della attenzione verso gli anni precedenti il forte della crisi economica e finanziaria mondiale ( 2007-2008 e seguenti), e cioè verso gli anni di apparente “benessere” 1995-2007, per sostenere che: “Il benessere conta non perché stimola la crescita, bensì perché la spegne. A parità di altre condizioni ( tasse, istituzioni, capitale umano ), un paese cresce tanto di più quanto più è lontano dal benessere, e tanto di meno quanto più alti sono gli standard di benessere che ha raggiunto”. Tutto ciò, ad un primo approccio fenomenologico dell’analisi, risulta plausibile. “Se io sono un paese arretrato, – prosegue lo studioso – posso imitare i paesi più avanzati, ma se sono già un paese avanzato, allora non ho nessuno davanti a me, nessuna possibilità di copiare prodotti o importare tecnologie”.
Dove però il discorso si fa, in profondità, più sfaccettato, sfiorando la enucleazione di una “legge”, o “quasi legge”, del divenire storico dei processi di creazione e distribuzione delle ricchezze, è sul versante, per dir così, psicologico e antropologico. “Ma crescita significa precisamente aumento del reddito pro capite, dunque del benessere. Di qui una conseguenza sconcertante; la crescita genera dal proprio interno le forze che possono spegnerla”. Per ciò stesso, allora, bisogna puntare su “altre forze e contro-forze che influenzano la crescita” ( più investimenti in capitale umano, migliori istituzioni di mercato, meno tasse sui produttori ). Ora, se non fosse per correttivi metodologici e mediazioni interne introdotti nella tenuta complessiva del ragionamento, il suo paradigma principale potrebbe apparire, però, come una rivisitazione “soft”, o ancora tardomoderna, della vecchia tesi della ineluttabilità del “crollo del capitalismo” (da Marx a Sraffa o allo stesso “eretico” Trotskj o Gramsci o Leonetti).
Ma il Ricolfi vuole andare ancora più a fondo. “Resta la domanda: perché il benessere rallenta la crescita ?”. Ed è qui che il discorso si protende verso una visione del mondo olistica e organicistica, da “philosophie de l’ histoire”, come se vi fossero leggi ineluttabili del divenire storico ed economico, dando per scontati i “dati”, ossia assumendoli come già fluiti e rifluiti all’interno di un “processo”, oramai nettamente riconosciuto e definito. “Ebbene, a mio parere – scrive sul punto l’autore -, la ragione fondamentale per cui il benessere frena la crescita è che, man mano che diventano ricche, le società modificano radicalmente la propria cultura, come rettili che cambiano pelle”. Seguono riflessioni esemplificative sull’aumento dei costi di produzione nelle società “avanzate”, come “prezzo della civiltà” ( rispetto delle norme sulla sicurezza, protezione dell’ambiente, smaltimento dei rifiuti, certificazioni obbligatorie, etc ). Ma il punto fondamentale resta che “una società in cui il tempo dell’intrattenimento supera quello del lavoro, la popolazione inattiva eccede quella attiva, i settori assistiti soffocano quelli che creano ricchezza, il bisogno di protezione prevale sulla volontà di rischiare, una società, insomma, in cui la cultura dei diritti ha preso definitivamente il sopravvento su quella dei doveri, è una società che ha cambiato pelle”. Tale considerazione, che impegna una prospettiva di “terza forza”, ma sempre presupponendo il saggio di Keynes del 1928 “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, porta l’autore alla definizione conclusiva del nostro tempo come di una “società signorile di massa”, dal momento che: “la condizione signorile, il vivere senza produrre, vi occupa uno spazio sempre più grande, e la condizione servile, il lavorare duro per tutti gli altri, non ne è affatto scomparsa, come attesta la condizione degli immigrati”. Tutto ciò non è applicabile, ovviamente, a paesi come la Cina, al di fuori ampiamente del cosiddetto “prezzo della civiltà”, o del rispetto delle norme e guarentigie per lavoratori che trova proprio a Prato, in Toscana, ma non solo costì, drammatica esemplificazione ( Francesco Guerrera, “Wall Street Journal” del 25 febbraio 2014 ).Lo sviluppo delle tesi suesposte ( con necessaria sintesi ) mi ha fatto ricordare quanto molti grandi economisti, da Einaudi in avanti, hanno spesso sostenuto, che cioè l’economia non è una scienza meramente matematica o “quantitativa”, ma che si basa essa stessa su implicazioni culturali, su “cornici”, “frames”, “orizzonti di aspettative” di carattere filosofico ( Popper ). Croce in “Materialismo storico ed economia marxistica” ( silloge degli studi fine Ottocento, influenzata da Antonio Labriola ) arriva a confutare matematicamente la legge sulla “caduta tendenziale del saggio di profitto”, ma pur sempre perché avvalora la decisione individuale, l’ardore e il tremore della scelta che indirizza all’azione e dunque l’azione economica come “parto”, “creazione di ogni istante”. Da ultimo, lo stesso economista Giulio Tremonti ripeteva di mantenersi guardingo verso la produzione di tabelle, grafici, rapporti statistici in economia, elementi che serbano un senso solo all’interno di una visione generale, più larga e comprensiva dei processi culturali e sociali, facendo in qualche modo propria la diffidenza crociana verso “’o Begriffe”, ossia il ‘concetto’ di una qualche“scuola” economica ( come con scherzoso accento tedesco-partenopeo amava dire il filosofo italiano ).
Allora, ritornando alle ragioni e stagioni dell’attualità, il problema dell’ “enigma della crescita” non può disgiungersi dal parallelo e spesso contestuale aspetto della “fenomenologia della de-crescita”o “mancata crescita” o “defezione” socio-economica, soccorrendo in questo luogo il pensiero del sociologo berlinese Albert Otto Hirscham ( 1915 – New Jersey 2012 ), sempre attento al momento della crisi e decadenza delle società e degli stati.In altri termini, la dissoluzione interna della “crescita”, indotta dal raggiunto “benessere”( nello schema sociologico di Ricolfi ), non può né deve prescindere dalle dinamiche involutive “Loyalty – Exit – Voice” ( Hirscham 1970 ) o “Perversity – Futility – Danger”( Hirscham 1991), ovviamente ripensate alla luce della crisi avvertita tra gli anni Novanta e i primi decenni del nuovo Millennio. Vanno di pari passo le patologie del malinteso “liberismo”( da “cum-petere”, paradigma di “Lealtà”, a “De-regulation”, totale assenza di regole, à la Greespam, paradigma di “Exit”, fino alla Legittimazione della Protesta, paradigma di “Voice”) e dell’altrettanto frainteso e malamente esteso “Welfare”( come “Perversity” nello statalismo, fino alla “Liceità d’indebitamento”di Papà Pantalone, modello di sistematica e spregiudicata “Futility”, e poi alla “Messa a Repentaglio”, “Danger”, per l’intiero sistema mondiale). Trattando, nell’anno di Machiavelli teorico della “decadenza”, a cinquecent’anni dal “Principe”, con il sistema dei “modi categoriali” le varie tappe e fasi della crisi, ci rendiamo conto sempre di più che, se val bene studiare, e tematizzare, l’ “enigma della crescita” (portatore nel suo seno di “benessere”e di “appagamento”di fattori implosivi ), altrettanto indispensabile è chiarire la “evidenza della decrescita”imputabile alla occupazione della cosa pubblica e all’accumulo di clientelismi e sprechi nella pubblica amministrazione, specie in Italia dove non c’è quasi nessun ente ( comunale, provinciale, regionale o statale e parastatale ) che non possegga, invero ”futilmente”, montagne di debiti fuori bilancio ( cfr. il mio “Albert Otto Hirscham e Eugenio Colorni. Estetica, epistemologia e nuova legge delle tre forme”, in “Libertates.com” – “Saggi”del dicembre 2013 ).In verità ciò accade non solo in Italia, in Grecia o in Spagna ( lo “pseudoconcetto” dei cosiddetti P.I.G.S.); ma anche, ad esempio, in Romania o nella sfortunata Ukraina, il paese pieno di debiti che conobbe sulla propria pelle la “Grande Fame” del 1930-1931, l’ Olodomor del 1933 e la strage di contadini e centinaia di sensibili musicisti che nessuno ricorda: il paese di Mikail Bulgakov, autore del “Maestro e Margherita”, sorvegliato da Stalin; di Olena Ponomareva, testimone di libertà; di Elena Fedri, per la quale “unirsi nei principi della cultura è la sorte obbligatoria di qualunque popolo europeo” ( cfr. “Da est a Ovest. Tra cultura e terrore della storia”, Marco Valerio, Torino 2007, dedicato a Costantin Noica, Romain Rolland, Emil Cioran, Eugene Ionesco e Mircea Eliade, contrappunto orientale della ‘religione della Libertà’). Così, riassumendo le categorie e le condizioni economiche ed etico-politiche, si può forse meglio definire la società attuale, insieme, “signorile di massa” e “plebea d’élite”; “grande bellezza”e “grande monnezza”; ‘possesso’ di beni e ‘accesso’ alla rete; Informazione, “miniera”e “pattumiera dell’universo”; liceità d’indebitamento e ricorrente “de-regulation”; ‘irresponsabilità’ individuale e di massa. E al cuore dell’enigma, o se si vuole al centro del dilemma ( sulle modalità categoriali, cosìripensate ), sta sempre l’uomo, la persona, con il dramma della scelta, nella dialettica di utile e vitale, o tra l’utile e il vitale e la sfera morale che oltrepassa la ‘legge’, lo schema del “mondo va verso…”
Giuseppe Brescia