“Non poteva non sapere”, cioè la responsabilità morale del mandante. Un modo creativo di vedere la giustizia
Sarebbe un problema assai rilevante, dal punto di vista del codice penale, se lo scandalo di Sanitopoli lombarda diventasse il pretesto – nell’uso strumentale della questione morale – per celebrare processi giudiziariamente “creativi”.
Soltanto l’aristocrazia del pubblico ministero e/o del magistrato giudicante può inventare la categoria del “concorso morale” in corruzione uscendo dalle compatibilità della giurisdizione, con la conseguenza devastante della “tirannide dei giudici” già temuta da Alexis De Tocqueville. Quasi nessun osservatore, oggi, ha sottolineato che il momento genetico culminante della sentenza di condanna a carico del defunto segretario socialista Bettino Craxi per le tangenti alla Metropolitana milanese e satelliti si è estrinsecato nella responsabilità della “moral suasion” (persuasione morale) e/o del “conferimento psichico del mandato a corrompere” – quindi avente ad oggetto la categoria dell’“utilizzatore finale”, per usare una celebre espressione dell’avv. Niccolò Ghedini, in una flessibilizzazione americana della nozione di obbligatorietà dell’azione penale-, anziché nel mandato corruttivo fotografato dalla “responsabilità penale personale”.
Insomma, Craxi non poteva non sapere; orbene, è sulla base di tale impostazione eversiva (visto che solo il Parlamento può modificare l’ordinamento costituzionale introducendo la cosiddetta “responsabilità politica oggettiva” con l’elezione dei p. m. elevati al rango di prosecutors) che la “Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio e di autorizzazione a compiere atti di perquisizione” è stata costruita ed altresì imperniata, così come la successiva sentenza, su una pronunzia di responsabilità esclusivamente morale che come tale è in violazione del comma I dell’art. 27 della Carta per cui la responsabilità penale è personale, e altresì dell’art. 112 della Costituzione sull’obbligatorietà dell’azione penale.
E’ appena il caso di soggiungere che l’ipotesi astratta di un segretario politico che venga tenuto sistematicamente all’oscuro, proprio da coloro che più gli sono vicini e che egli stesso ha collocato in ruoli di responsabilità nel partito o in aziende pubbliche, circa le modalità di incremento adottate per le entrate del partito, con i rischi gravissimi di scandalo inerenti a tali modalità quando imperniate – come di fatto lo erano – sul delitto, equivarrebbe a un’ipotesi di congiura di palazzo, distruttiva e autodistruttiva insieme, che può trovare cittadinanza soltanto nel regno della fantasia (ma questo lo stabilisce il teorema Borrelli!, nda). Emerge perciò un quadro complessivo che vede l’on. Craxi al centro delle decisioni cruciali che mettono capo al finanziamento del partito o di sue articolazioni (e delle nomine degli uomini che a ciò debbono provvedere, oltre che diretto autore di interventi di “protezione” a favore di chi ha versato denaro), nonché destinatario (direttamente o indirettamente, personalmente o in relazione a articolazioni del Psi riconducibili alla sua persona) di gran parte delle somme riscosse…”. Ma l’affermazione cardine della Memoria accusatoria dell’ex Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli è un’invasione di campo, una “discesa in campo” nell’autonomia del Parlamento tout court: “Lo stesso parlamentare è intervenuto più volte pubblicamente su tali fatti afferenti la presente vicenda giudiziaria rilasciando varie dichiarazioni, sia in sede parlamentare sia in altre occasioni. Appare opportuno riportare alcune di tali dichiarazioni e cioè quelle rese nella seduta del 3 luglio 1992 della Camera dei Deputati (quali esse risultano dal testo degli atti parlamentari) in quanto perfettamente coerenti con il quadro rassegnato. Le menzionate dichiarazioni sono infatti ulteriore indice della conoscenza da parte dell’on. Craxi dei meccanismi d’illecito finanziamento del Psi e anzi, per l’autorità della Assemblea avanti la quale sono state rese e la solennità del tono usato, assumono, in ordine ai reati contestati, inequivoco valore di confessione stragiudiziale”. E’ un’affermazione allucinante in punto di prassi giurisprudenziale, perché se – precedente assoluto – le dichiarazioni difensive di un parlamentare costituiscono una delle prove da allegare al “factum probans” a suo carico in materia di colpevolezza penale, siamo in presenza allora di fumus persecutionis da parte dei magistrati requirenti con un vulnus gravissimo alla divisione dei poteri. Ultimo punto: sarà lo stesso Craxi nel suo discorso in Parlamento con incredibile lucidità, al netto del fortissimo stress psicologico cui era sottoposto, a dimostrare la plastica violazione del comma I dell’articolo 27 della Costituzione che ha davvero dell’incredibile se riletta con gli occhi di oggi: “La sostanza delle accuse che mi vengono rivolte si basa solo su congetture e su falsi sillogismi. Soprattutto, una serie di condotte, di miei comportamenti che il pubblico ministero si è preoccupato di evidenziare, non raggiungono in nessun modo il livello della rilevanza penale come attività di partecipazione, e quindi non possono costituire il fondamento di una responsabilità per concorso, ciò che rappresenta l’aspetto essenziale dell’intera impostazione accusatoria”.
Ecco, un giorno i magistrati della Procura milanese della Repubblica si sono svegliati e – bontà loro – senza chiedere il permesso al Parlamento hanno inventato la separazione delle carriere per sostenere e ottenere la richiesta di rinvio a giudizio del presunto gangster politico Craxi; non contenti hanno attribuito una rilevanza penale alla dichiarazione parlamentare dello stesso come se fosse integrabile alla “notitia criminis” (sic!) minacciando di sollevare un conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato se il sovrano Parlamento non avesse concesso la richiesta d’autorizzazione a procedere. Se questo non è fumus persecutionis versus la Repubblica Italiana…
Alexander Bush