Un altro capitolo della lunga storia di Gardini e dell’Italia di queitempi
Luglio 2018, Terza Repubblica in corso di gestazione: si torna a parlare dell’album di famiglia dell’imprenditore Raul Gardini, il quale disse: “Io credo che la vita debba essere vissuta fino in fondo, anche se a volte fa venire il mal di stomaco”. Una frase in sintonia totale con il romanticismo suicidario di Vincent Van Gogh, non v’è dubbio. E con James Gatsby ne Il Grande Gatsby. L’Espresso per la penna di Paolo Biondani e Alessandro Cicognani (due professionisti della manipolazione) ha riaperto il dossier di Raul Gardini, morto suicida nel luglio 1993.Questa la conclusione-manifesto del lungo articolo: “Gli ultimi segreti di Gardini. Le lettere a Cagliari e Andreotti. La lite con Craxi. L’agenda ritrovata. Ma le ragioni per cui si tolse la vita restano un mistero”.
No, le ragioni per cui si tolse la vita non sono un mistero purtroppo: sono invece chiarissime. Fa terrore l’affermazione “psico-sovietica” nell’elogio della mediocrità di Romano Prodi, uno dei tanti apologeti italianissimi della presunta “normalità” come antidoto alla temuta creatività: orbene, con un malcelato sadismo il professor Prodi dichiara a l’Espresso:“Parlavamo (con Raul Gardini, ndr) dell’Italia e di come stava cambiando il mondo e mi raccontava dei suoi progetti. Era un romagnolo vero, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. Gardini era un outsider negli Stati Uniti per l’alimentare e in Italia per la chimica. Picchi e cadute si devono al suo carattere: non teneva conto degli equilibri, dell’establishment…”. Scusi, Prodi, ma se Gardini avesse tenuto conto, come dice lei, degli equilibri e dell’establishment non avrebbe nemmeno contemplato il suo progetto creativo (folle, ma quasi riuscito) di privatizzare l’economia italiana (sic!). Morì la sua creatura “impressionista”Enimont– la cosiddetta “fusione Eni/Montedison”– perché Gardini come anima e come imprenditore dovette tenere conto degli equilibri che non sopportavano, e non sopportano l’apertura della nostra società al concetto di Individuo praticato da Steve Jobs.
Sono i giudici del Tribunale di Milano a metterlo nero su bianco nella motivazione della loro sentenza per la maxi-tangente Enimont: “La corsa di Gardini alla “privatizzazione” di Enimont era stata in varie forme ostacolata dalla parte pubblica e da forze politiche ed istituzionali, le quali non intendevano rinunciare al controllo sugli enti che gestivano la chimica italiana in considerazione dei rilevantissimi interessi – di natura economica, politica, sindacale– che ruotavano attorno ad essi. Nel corso dell’esame delle fasi salienti della vicenda Enimont si è infine rilevato come la corsa di Gardini avesse subìto una drastica battuta d’arresto con l’emissione, in data 9 novembre 1990, da parte del presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, su richiesta dell’Eni, del provvedimento di “fermo provvisorio” delle azioni Enimont e con la nomina, in qualità di custode, dell’avvocato Vincenzo Palladino”. In seguito, ma soltanto in seguito – continueranno i giudici – Gardini, che mollò il suo progetto, si sentì costretto a versare delle tangenti alla partitocrazia a titolo di concussione accettata con disincanto estremo, prendendo atto che suo “figlio” (Enimont) era morto per sempre.
Siamo nel 1990, un secolo esatto dopo il suicidio di Vincent Van Gogh: cambiano i contesti, ma la psicologia è la stessa. Orbene, qualcosa fa crac nel fragile equilibrio psichico dell’artista Raul Gardini, perché il ravennate Raul si sente come un artista fallito o castrato che non riesce più a riempire le sue tele di colori.“Una grande amarezza entrò nella sua vita”, Angelo Rovati dixit a La Storia siamo noi di Giovanni Minoli. Mi ha colpito nella sua immediatezza, la genialità di Gianni DeMichelis– tra gli intervistati, per il suo “cinismo” se così si può dire: “Era un misto di un visionario con delle visioni sostenute da dei ragionamenti, naturalmente, e al tempo stesso di guascone. Questo mix può portare molto in là, può portare verso dei grandi successi, ma può portare anche alla rovina”. Lucidissimo è stato Claudio Martelli: “Era uno che sarebbe piaciuto a Steve Jobs, probabilmente. Siate affamati e siate folli, visionari. Certamente era un visionario. Lo raccomanderei per questo aspetto, per l’ambizione, la visione.
E anche la passione nazionale in un contesto globale. Raccomanderei di essere molto più prudenti”.
Nel 1992 si toglie la vita dopo aver scritto una lettera romantica da “Nuovo Cinema Paradiso” ai suoi figli, a sua figlia – soprattutto – in previsione di una custodia cautelare richiesta dall’ambiziosissimo pm Antonio Di Pietro: per carità, le tangenti c’erano… Ecco il vero segreto (a parere di chi scrive) del suicidio di Raul Gardini: la distruzione delle sue opere d’arte, la depressione, la ferita melanconica, il passaggio dal Paradiso all’Inferno. Il successo che non gli è stato perdonato. Così Massimo Recalcati nel suo “Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh” descrive a pag. 51 capitolo 6 “Le due melanconie di Vincent”, tanto simile di temperamento al Gardini diviso tra le due melanconie che lo strangoleranno: “Io sono la chimica italiana” e il colpo di fucile che si spara alla testa: “Nelle lettere di Van Gogh il riferimento a un suo stato profondamente melanconico è ricorrente. Egli evoca costantemente la melanconia come una sorta di condizione di fondo della sua vita. Tuttavia questo fondo melanconico, come avviene anche in Nietzsche, è, almeno sino all’ultimo passaggio all’atto suicidario, sempre in relazione a un’aspirazione, altrettanto intensa, a emanciparsene o, meglio, a fare di questa stessa melanconia una possibilità di uscita dalla melanconia. In altre parole, il senso di indegnità che accompagna la sua vita è sempre intrecciato a una sorta di spinta affermativa, di volontà di esistere, di vitalità disperata. In Van Gogh questo comporta la distinzione lucida di due tipi di melanconia. In una melanconia prevarrebbero l’abbandono, la morte, l’assenza di speranza, la nostalgia, la stagnazione, l’inerzia. Nell’altra invece, in quella che Van Gogh stesso definisce propriamente come la sua “melanconia attiva”, si manifesterebbe un’energia vitale che “spera, aspira e ricerca”, irriducibile a ogni claustrazione, a ogni identificazione all’oggetto – scarto del mondo. Questa melanconia attiva non è affatto una negazione maniacale della ferita melanconica, sempre aperta, che egli porta con sé. Piuttosto essa indica lo sforzo singolare di Van Gogh per non soccombere di fronte al richiamo tetro dello sprofondamento melanconico. La melanconia attiva è il nome che egli stesso attribuisce al suo tentativo di non lasciarsi aspirare dal vuoto: “la desolazione di quel che si dice il senso di vuoto, è la prima cosa da combattere affinchè non diventi una malattia cronica”. Col tempo sarà proprio il lavoro dell’arte ad assumere in Van Gogh i caratteri di una autentica melanconia attiva. Il lavoro dell’arte sarà la sua postazione di difesa, ma anche la sonda gettata nell’abisso del “dolore della vita”. Sarà, insomma, una possibilità di vita di fronte alla tendenza alla morte propria dell’identificazione melanconica all’oggetto perduto.
“Le cose misteriose, la tristezza e la melanconia restano – scriverà a Theo – ma l’eterna negazione viene controbilanciata dal lavoro positivo che in tal modo, tutto considerato, si riesce a fare” (come accadde esattamente a Gardini quando, sconfitto nell’impresa Enimont, lanciò il Moro di Venezia, ndr).“Questo “lavoro positivo” capace di controbilanciare l’inerzia melanconica sarà evidentemente la pratica dell’arte: come trasformare la spinta alla morte, la forza devastatrice di questa spinta, in una pratica simbolica? Come contrastare la spinta melanconica a farsi oggetto-scarto del mondo attraverso la forza della sublimazione artistica? Come trasformare il negativo in positivo? Come rendere la melanconia attiva?…”.
Ecco gli ultimi segreti di Gardini. Grandezza e fragilità. I due colori più violenti della vita.
di Alexander Bush