George W. Bush: ma quale liberista!
Da un’analisi fredda, grigia e imparziale come dovrebbe essere quella della Grande Contrazione globale del potere d’acquisto 2007-2015, ad oggi mai fatta nella vulgata provinciale dei mass-media, emerge il dato davvero sconcertante – sull’onda dello scandalo “sovieticamente connotato” Alitalia-Volkswagen – che non siamo in presenza di nessuna egemonia neoliberista, una parola vergognosamente piccolo-borghese. George W. Bush è stato lo statalista più recidivo dai tempi di Herbert Hoover e, in mezzo, di Giulio Andreotti (sic!) : eh sì, perché la socializzazione keynesiana delle perdite e/o l’aumento del debito l’ha inaugurata il guerrafondaio George, quello che ha falsificato le prove sull’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq.
Come emerge dallo splendido libro curato dal sociologo Luciano Gallino “Colpo di Stato di banche e governi”, edito da Einaudi, l’immane portata economica e politica dell’intervento “keynesianamente anti-keynesiano” dello Stato quale non si è mai registrata prima ne disvela la natura borderline di Stato azionista con illecita “golden share” (diritto di veto) sui derivati non regolamentati a discapito dei cittadini.
Le impronte digitali di una siffatta operazione di nazionalizzazione in deficit ante-austerity dei derivati tossici le porta il “black dog”, il figlio ribelle, della dinastia Bush, esattamente identica a quando lo statista ciociaro della Balena Bianca Giulio Andreotti tentò di accollare le perdite gigantesche della Franklin Bank+Banca Privata Italiana alla Banca d’Italia, senza riuscirvi perché l’”eroe borghese” commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli pose il veto; Bush junior non ha incontrato sulla sua strada nuovi Ambrosoli “rompicoglioni”. Da “la crisi bancaria trasformata in crisi dei bilanci pubblici” ecco la smoking gun (la pistola fumante): che c’azzecca tutto questo con il (presunto) neoliberismo? E’ una sesquipedale sciocchezza: “In Europa come in America lo Stato, massimo soggetto pubblico, ha avuto un peso determinante nella gestione della crisi originata da soggetti privati. I governi Ue hanno agito non soltanto in modo rapido ed efficace, in sintonia con quello americano, per salvare decine di banche in difficoltà tramite massicci esborsi di capitale, talora in forma di prestito ma spesso a fondo perduto, varianti fra i 4-5 trilioni di dollari e i 150 miliardi di euro ciascuna… Fra l’una e l’altra delle nazionalizzazioni britanniche si erano avute negli Usa delle operazioni analoghe di eccezionale portata. A fine settembre 2008 il Congresso aveva approvato il “Programma di soccorso per gli attivi finanziari disturbati”, che prevedeva di sostenere le banche con 700 miliardi di dollari affinché potessero porre rimedio ai “titoli andati a male”. In altre parole, si legge in un sontuoso manuale eterodosso sulla crisi, “al Congresso era stato chiesto di rimpiazzare il denaro privato che il settore finanziario aveva creato, e che nel 2007-2008 era finito in cenere, con solido, tradizionale denaro pubblico”…”.
Se questo non è statalismo criminogeno antitetico alla liberalità di mercato, in quali altri termini si può definire il ruolo nefasto dello Stato azionista di maggioranza occulto dei derivati? Ma la sinistra dura e pura preferisce non parlarne, raccontandosi e raccontando un’altra storia.
Alexander Bush