Arriva il secolo cinese, con o senza l’Italia
Il carisma è fatto di panna montata? Ci arriviamo per gradi.
Venerdì 22 marzo 2019 non è un giorno come gli altri. Su “Repubblica” esce l’articolo da Homo Sovieticus a firma di Federico Rampini sugli accordi commerciali tra Cina e Italia titolato “Che cosa chiedere a Xi”, che contiene alcune fake news sul memorandum di intesa con la Cina alias nuova Via della Seta, per fortuna smentite (a distanza) da Enrico Deaglio nel suo pezzo d’antologia “La 500 cinese che non fece strada”
Enrico Deaglio ha riferito correttamente i fatti sul New Deal Roma-Pechino: quando ci sono le buone notizie, bisogna darle!
“Parlando di politica estera, è da molti anni che noi italiani ci stiamo trattando male. Siamo andati a Nassirya solo per far piacere a Bush, ci siamo improvvisamente dichiarati amici per la pelle di Putin, lo abbiamo addirittura sostenuto quando si è preso la Crimea; vogliamo uscire dall’euro un giorno sì e uno no… abbiamo come presidente del parlamento europeo un ammiratore di Mussolini. Sembrava che fosse tutto qui quello che passava il convento, quando – per fortuna –è arrivata una notizia importante. L’Italia ha firmato un memorandum di intesa con la Cina per partecipare al più grande piano di infrastrutture che l’umanità abbia mai concepito, la nuova Via della Seta, un investimento di mille miliardi di dollari che coinvolge sessanta paesi, per “movimentare” le merci prodotte e che è destinato (con o senza l’Italia) a ribaltare la geografia del Pianeta e a consacrare il XXI secolo come “secolo cinese”…Era il 1952, la Cina di Mao era allora la “bestia nera”. Gli Stati Uniti l’avevano espulsa dal mondo civile. A Milano c’era un trader di nome Dino Gentili, partigiano antifascista, militante del partito socialista, amico di Pietro Nenni, che ebbe una visione: fare affari con Mao. Riuscì (rocambolescamente) a farsi ricevere dal ministro degli Esteri Ciù En-lai in Svizzera, la prima volta che tornava in Europa…
Gentili spediva merci e aggirava l’embargo da Hong Kong. I cinesi lo chiamavano“Signor Dino”, un nuovo Marco Polo…Nel 1975, Gentili e Nenni organizzarono il primo viaggio di Confindustria a Pechino, con Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli capi delegazione. Conclusero che la Cina era un “illimitato mercato” per le merci italiane. La Fiat addirittura progettò una 500 rudimentale, con le gomme piene e il motore estraibile, per aspirare acqua dai pozzi. Grande idea, ma Romiti scelse piuttosto di fare la Duna. Oggi siamo in Cina come tutti. Chissà se quel vecchio feeling del dopoguerra esiste ancora”. Certo, non possiamo rimanere accecati dall’illusione anti-storica dell’autarchia mentre la globalizzazione di Cristoforo Colombo ridisegna il mondo che già l’analista Zbgnew Brzezinsky aveva esaltato come il “secolo cinese” dei diritti e delle merci nella sua opera fondamentale “Il grande fallimento – Ascesa e caduta del comunismo nel xx secolo”: i dirigenti del partito comunista cinese hanno avuto successo con il laissez-faire all’autogestione dei contadini e degli imprenditori, là dove ha fallito Michail Gorbaciov bocciando il cosiddetto “piano Shatalin” di George Soros: la privatizzazione delle terre.
Orbene, sotto l articolo di Enrico Deaglio viene pubblicata in gran risalto una foto che ritrae Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli insieme a Pechino nel 1975. Chi scrive la osserva con attenzione. Sul volto di Agnelli, regale come sempre, un fondo di disperazione ne illumina gli occhi: una disperazione molto simile al mal di vivere tratteggiato da Piero Ottone nel suo agevole saggio “Gianni Agnelli visto da vicino”, e che così Ottone descrisse con gli accenti di un investigatore della psiche: lezioni di stile di un cosmopolita tra i provinciali, con il rigore stilistico alla maniera di Francis Scott Fitzgerald: “…Nel 1963 andai a Torino, dovevo scrivere qualche articolo sul Piemonte per il Corriere della Sera, e Piemonte voleva dire soprattutto FIAT, che allora era potente, troppo potente, riduceva Torino a semplice company town, permeava e dominava ogni cosa. Dominava anche i giornali, che ne scrivevano con timore reverenziale. Non ero ben disposto, dunque… A tutto il colloquio con Valletta assistette Gianni Agnelli, che vedevo dunque per la seconda volta. Ascoltò con attenzione (il saper ascoltare con attenzione fu sempre un suo charme), e interloquì una sola volta. Quando uscii dalla stanza, una segretaria mi raggiunse e mi disse che Agnelli, non ricordo più se lo chiamassero dottore o già avvocato, mi avrebbe aspettato nel suo ufficio alla RIV, alle tre del pomeriggio… Della FIAT quasi non si parlò. Feci solo un accenno a quel che avevo visto la mattina in stabilimento, dopo il colloquio con Valletta, e dissi che a mio parere sarebbe stato opportuno migliorare le condizioni di lavoro dal punto di vista psicologico, anche se non ci si poteva illudere di rendere felice la vita in fabbrica. “Capisco”, rispose, “si tratta di renderla almeno vivibile”. L’aggettivo mi colpì, e lo scrissi. Non scrissi invece che mi colpì anche la sua giacca di tweed.
Avevo trascorso vari anni a Londra, dove non si andava in ufficio vestiti a quel modo…“Rendere la vita vivibile…” In quel nostro primo colloquio stavamo parlando della FIAT, ma non so fino a che punto l’aggettivo che mi colpì fosse adatto a definire i problemi degli operai alla catena di montaggio; ebbi piuttosto l’impressione che si riferisse a lui, con quella sua sfumatura vagamente disperata, quel suo tono di angoscia esistenziale. Un uomo in apparenza così fortunato, così invidiabile, aveva dunque qualche difficoltà a rendere vivibile la vita; a renderla sopportabile, insomma? Sentiva, nonostante l’apparente spensieratezza, una qualche angoscia? Era strano che usasse quel termine, e nell’articolo scrissi qualche cosa di simile, non più di un accenno, a quel che scrivo adesso. Il mio direttore, Alfio Russo, uomo di grande saggezza, ebbe a sua volta sentore che entravo, con quelle mie osservazioni, in una sfera delicata. “Lascia perdere”, mi disse, senza spiegare bene perché (Alfio, più che dire, lasciava capire). Così mi limitai a scrivere che l’aggettivo mi colpì, e lì mi fermai.
Da dove nasceva, dunque, il carisma: nasceva da tutto questo? Da questo mix di tante qualità diverse, dal coraggio e dall’eleganza, dall’élan vital, dall’insieme di caratteristiche personali e sociali che, sommate, producevano un certo stile, quasi creavano un incantesimo, impalpabile, indefinibile; e anche fragile, campato in aria? C’era sempre il pericolo che un brutto giorno gli dei si stancassero, e negassero il loro favore; ne era consapevole, magari se lo aspettava. Un giorno chiese a un amico di vecchia data, Sandrino Perrone: “Fino a quando ci lasceranno vivere così?”; una frase il cui soggetto potevano essere le forze politiche ostili, ma anche le potenze celesti, chi sa, gli dei dell’Olimpo. Che potevano sempre distrarsi, pensare ad altro: e allora sarebbe venuta la nemesi, sarebbe venuta la fine”. Riflessioni inutili, potranno obiettare i lettori.
Tuttavia c’era sempre il pericolo che arrivasse la tragedia del fallimento o della rovina, ma Gianni dopotutto l’ha fatta franca. E’ uscito di scena nel momento migliore: due ore dopo la sua morte hanno trovato 2 miliardi di euro in un conto della Jp Morgan, soldi dei contribuenti…
Alcuni vincono e altri perdono. Mentre si annuncia il nuovo secolo cinese, con o senza l’Italia.
di Alexander Bush