“… Agnelli osservava e giudicava, con perspicacia. Però si accontentava di osservare. Era nella
sua natura. Ricordo un convegno che avevo organizzato, per conto del Corriere della Sera, fra
lui, Leopoldo Pirelli, Giuseppe Petrilli, presidente dell’Iri, Ugo La Malfa e Giovanni Mosca…
Si discuteva intorno a un tavolo, dunque; ciascuno diceva quel che aveva da dire, Agnelli
ascoltava con educata attenzione, la fronte corrugata, lo sguardo fisso. A un certo punto
esclamava: “Ho capito: lei vuol dire questo”. E riassumeva in una battuta sintetica e chiarificatrice
quel che l’altro aveva espresso, magari in modo prolisso, allusivo e oscuro. Poi taceva, contento.
Sembrava che a lui bastasse di avere capito; una volta capito, allentava l’attenzione, e non aveva
alcuna voglia di interloquire, di controbattere, di discutere…”.
“Il lungo viaggio dalla Costa Azzurra alla Fiat”, Piero Ottone “Il gioco dei potenti”
“Era pericoloso trovarsi nella stessa stanza di Gianni Agnelli. Ti leggeva nel pensiero”
Henry Kissinger
Don’t shoot the pianist, he’s doing the best he can.
Lapo Elkann, figlio del giornalista di genio Alain Elkann che ha avuto un ruolo importante nella mia vita, sta risalendo la china mostrando una talentuosità, che non si è mai compiutamente articolata nella sua vita costantemente “borderline” – se non nella lucidità a corrente alternata (e tra l’altro è fatto notorio che il nonno Gianni stravedeva per lui).
Il suo grande errore fu di rimanere schiacciato narcisisticamente sullo stadio infantile del “principio di piacere” fino all’episodio dell’overdose di cocaina ed eroina a Torino, compromettendo una carriera manageriale che era già oscurata dal manierismo stereotipo del “falso verosimile”: pose manierate, la narrazione del personaggio che surroga la persona e l’“eterno ritorno dell’uguale” nei comportamenti autodistruttivi.
Ma, per fortuna, ora Lapo sta meglio già da alcuni anni complice l’energica azione di sostegno da parte del fratello alla guida della Fiat.
Apprendo dall’articolo di Diego Longhin “Italia Independent licenzia 29 addetti, Lapo limita i danni – L’azienda di occhiali in crisi”: “Ventinove licenziamenti. Italia Independent Group, società quotata alla Borsa di Milano che opera nel campo dell’occhialeria e dei prodotti lifestyle, ha comunicato ai sindacati l’avvio di una procedura di licenziamento per 29 addetti del sito di Venaria Reale, dove si trovano gli uffici e un magazzino del gruppo.
Si tratta di uno dei passaggi previsto dal piano di risanamento avviato lo scorso 15 giugno e “che prevede un significativo intervento da parte dell’azionista di riferimento Lapo Elkann mediante erogazione di finanza propria, con l’obbiettivo di attenuare gli impatti negativi della procedura di licenziamento sui lavoratori e consentire il pagamento degli stipendi”, si legge nel comunicato.
La società sottolinea che ha dovuto prendere atto che “non ci sono più soluzioni percorribili e idonee a contemperare le esigenze di ristrutturazione e risanamento dell’impresa secondo l’attuale modello di business”. Anche Italia Independent ha subito gli effetti della pandemia, dell’instabilità dei mercati e del difficile contesto macro economico.
Ora partirà la trattativa con i rappresentanti dei lavoratori: “Nel caso di esito positivo della consultazione con i sindacati e nell’ambito di un accordo sulla forza lavoro in esubero – si legge nella nota della società – l’azienda è aperta a valutare misure ragionevoli tali da favorire la ricollocazione dei dipendenti”, viene sottolineato.”
Lapo agisce nel solco di Ezio Tarantelli segnando un precedente come un samurai nel deserto attraverso il “compromesso manager-lavoratori” che ripropone con forza l’urgenza di ripristinare il meccanismo della scala mobile, come indicato dalla ricercatrice Marta Fana in un’intervista de L’Espresso del 20 giugno 2022: “In Italia il rapporto di forza fra sindacati e imprese è sbilanciato a favore dei secondi. Un fenomeno che ha subito un’accelerazione da trent’anni. Il salario minimo è il primo passo, bisogna tornare alla scala mobile.”
Oggettivamente Lapo ridisegna lo status quo ancorchè “al di là delle sue intenzioni”, e “la genialità
è nella semplicità” come diceva Marco Aurelio citato da Anthony Hopkins ne “Il silenzio degli innocenti”.
Sarà un modello per tutti gli imprenditori italiani, alle prese con lo spettro della stagflazione, la crisi dell’Ucraina, la crisi energetica e il rischio povertà.
Veniamo così a Gianni Agnelli, il cui enigma è interessante esplorare.
Aveva ragione Piero Ottone che con Gianni aveva un rapporto privilegiato, si davano comunque del lei: è nato in Italia un nuovo mito, il mito di Gianni Agnelli; l’ho già scritto nel pezzo dell’aprile 2021 “Gianni Agnelli, looking good feeling bad: un perdente di successo”: il suddetto lavoro fu realizzato tra gli stati misti dell’umore; la particolarità della cosiddetta “condizione mista” è che essa è compatibile con il successo, ma può sfociare nel fallimento.
Sono andato in edicola a Camogli ad acquistare la rivista “History – Il mensile che va oltre la storia”, mensile n.135 titolata “Gianni Agnelli, fascino e potere: un susseguirsi di privilegi e sciagure – Viziato e tartassato dalla sorte, ebbe il massimo successo, soddisfazioni mondane e sportive, le donne più affascinanti, ma anche sconfitte, lutti, umiliazioni. Un italiano di classe suprema, rappresentante di un’epoca che oggi rievochiamo con nostalgia”.
Non ebbe il massimo successo, Gianni soprannominato da Eugenio Scalfari “L’avvocato di panna montata” (la sua prestanza “interventistica” con le femmine era insufficiente, come Ottone diceva): sotto la vanità, niente. Anzi, non ebbe proprio successo.
Gianni perse su tutta la linea.
Perché dal successo era terrorizzato respingendolo al mittente, sempre.
Con una puntualità svizzera.
E in ciò, il nipote Lapo gli somiglia maledettamente come versione degenerata dell’Avvocato: “C’è un fondo di disperazione negli occhi di Lapo che c’era anche in Gianni Agnelli”, mi disse una volta Piero Ottone. Entrambi rovinati dalla debolezza di non riuscire a imporsi autodisciplina, andando “al di là del principio di piacere”. Entrambi due geni sprecati.
Ma Gianni era salvato dal personaggio di Gianni Agnelli, Lapo un po’ meno poiché del primo non ha l’enorme livello di intelligenza e lo charme che è di per sé una virtù: se si fosse impegnato coerentemente in uno solo dei suoi compiti (tutti lasciati incompleti, a metà tra visionario e guascone), l’Avvocato di panna montata avrebbe potuto guidare personalmente il New Deal di Franklin Roosevelt in Italia.
Ma c’era un problema, un tarlo che lo divorava: la noia; la noia devastante mascherata da un’iperattività a volte oltre ogni limite – degenerando nell’autolesionismo – lo perseguitò per tutta l’esistenza, perché era il prezzo che pagava al mancato approfondimento di un qualsivoglia compito: “Appena capiva un argomento, non lo interessava più”: così disse Piero Ottone in un’intervista di Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidiano (Piero Ottone, il cui vero nome era Pierluigi Mignanego, cambiava voce nel passaggio dal privato al pubblico in una leggera “coincidentia oppositorum” tra personaggio e persona che però era temperata da uno stile di vita equilibrato).
Di alto livello accademico è il contributo di Mario Galloni, giornalista ed esperto di storia della cui riflessione sulla citata rivista History si citano alcuni passaggi meritevoli di nota.
E’ singolare il fatto, ma è più rifornita un’edicola a Camogli che a Trafalgar Square (sic!):
“… Così quando il grande Vittorio Valletta, braccio destro del nonno, artefice delle fortune di casa Fiat, si rivolse senza mezzi termini al giovane padrone: “Delle due l’una: il presidente o lo faccio io o lo fa lei”, l’Avvocato rispose con un aristocratico distacco: “Ma senz’altro lei, professore”.
Altrettanto laconicamente vent’anni dopo avrebbe pensionato l’ormai anziano Valletta: “Penso che adesso spetti a me”.
Tra torinesi molte parole non servono (Valletta per la verità era genovese, ma in quanto tale a Torino non aveva dovuto imparare niente in fatto di sobrietà e modi rudi).
Ricco, bello e famoso, Gianni Agnelli si prese il suo tempo. Che era quello sfrenato che si avviava già alla “dolce vita” immortalata da Federico Fellini.
L’erede degli Agnelli faceva base in Costa Azzurra ma il suo palcoscenico d’elezione diventò il jet set internazionale animato da teste coronate, miliardari, artisti e divi dello spettacolo. Mentre a Torino Valletta macina dividendi, il giovane padrone della Fiat passa da un party esclusivo ad una crociera da sogno, nuota, scia, veleggia, intesse relazioni con il Gotha della finanza e della politica mondiale, costruisce il mito dell’elegante seduttore cosmopolita”.
Fermiamo un attimo Mario Galloni.
E’ in questo passaggio, che l’edonista Gianni aderirà completamente alla maschera del personaggio “altro” rispetto alla persona, con il trucco del “falso verosimile” che è la finzione al posto della sincerità: le citazioni “pret à porter” di opere mai lette, l’iperbole, la mediazione del “pensiero bugiardo” negli incontri ininterrotti; il tutto artificiosamente condito dall’uso di cocaina per mantenere un andamento all’insegna dell’iperbrillantezza – altro demone dell’Avvocato – che si conciliava con il suo temperamento ipomaniacale: se fosse stato bipolare, il signor Fiat non ce l’avrebbe fatta; ma bisogna riconoscere che riuscì a mantenere uno stato di ipomania ad alto funzionamento per tutta la vita, fino a 82 anni.
“Looking good, feeling bad” dalla locuzione di Friedman è un modo di omaggiare l’aforisma di Oscar Wilde: “Rivelare l’arte e nascondere l’artista”; bisogna però vedere a quale prezzo in termini di sofferenza soggettiva, in quanto non è gratis recitare tutto il tempo; nel libro impressionante “L’altra Marilyn – Psichiatria e psicoanalisi di un cold case” a cura di Liliana Dell’Osso e Riccardo Dalle Luche, a pag. 248 si legge nella sezione “Album fotografico”: “Il falso verosimile portato all’estremo: Marilyn in posa finge di leggere sotto la foto di Eleonora Duse. Ossimoro visivo: Marilyn legge l’Uysses di Joyce”.
Aveva ragione Eugenio Scalfari: è un libro destinato ad avere notevole importanza; orbene, lo stesso fenomeno di dissociazione, malessere narcisistico era presente in Gianni, al limite della morte; continuava Mario Galloni: “Una casa ovunque e ovunque anche una garconnière. Con i suoi flirt, veri o presunti, i paparazzi vanno a nozze. Agnelli tutto si concede, e a lui tutto è concesso, perché è assolto per diritto di sangue. Come quando nel 1952, a bordo di una Fiat spider con a fianco la 17enne francese Anne-Marie d’Estainville, all’uscita del tunnel di Cap Roux, in Provenza, va a sbattere contro un furgone Lancia. Sono le quattro di notte e l’impatto è terribile: due dei quattro occupanti del furgone muoiono sul colpo.
Agnelli ne esce con la gamba destra maciullata, tanto che si teme addirittura di doverla amputare. Sui giornali però la notizia dell’incidente esce senza riportare il nome degli occupanti della Fiat e quanto al guidatore non dovrà temere conseguenze legali…”.
Ad Arles, nel sud della Francia, il 23 dicembre 1888, Vincent van Gogh si amputerà l’orecchio dopo aver tentato di aggredire Paul Gauguin.
Da scrittore mediocre e cronista consumato, cito soltanto un altro passaggio formidabile dell’analisi dello studioso Galloni: “… Agnelli aveva trovato in Romiti il suo Valletta, soltanto che il nonno se lo era scelto, mentre Gianni e la famiglia vissero Romiti e il suo protagonismo come una sorta di esproprio del timone dell’azienda.
In cambio, Cuccia garantì i fondi necessari a dare ossigeno al gruppo, un’operazione spericolata che portò la Libia del colonnello Gheddafi ad entrare nell’azionariato Fiat, nonostante l’ostracismo di tutta la comunità democratica occidentale.
“Non fu una buona idea”, sentenziò Henry Kissinger, pur amico dell’Avvocato e tifoso dichiarato della Juventus. Poi tornò il sereno…”.
Ma, caro Henry, non è forse vero che gli aristocratici adorano i farabutti? E, forse, non fu una buona idea neanche avallare il colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile.
Si fa presto a liquidare Agnelli come un pessimo industriale, perché quando si impegnava faceva gli effetti speciali: “L’esordio della Panda nel 1980 segnò il rinascimento della Fiat.
L’indistruttibile utilitaria dalle linee accattivanti disegnate da Giorgetto Gingiaro trainò l’intera produzione del gruppo. Dopo aver scorto il baratro gli Agnelli ripresero a spartirsi gli utili e, per volere dell’Avvocato, a investire… Tornato volitivo, Gianni Agnelli sbarrò la strada allo sbarco della Ford in Italia comprando al posto dei rivali americani – lo aveva già fatto con la Ferrari – la moribonda Alfa Romeo dall’Iri di Romano Prodi. La Fiat pilotava quello che gli esperti assicuravano essere un nuovo boom economico, il Paese ci credeva e volentieri si accodò. Ritornarono di moda i ricchi, gli stessi che nel decennio precedente avevano abbandonato la scena.
Avere successo non era più considerato una colpa, esibire il proprio status quasi un dovere…”.
Questo merito di Agnelli è una rivoluzione per un paese piccoloborghese come l’Italia, dove avere successo non è ancora oggi perdonato.
A pag. 14 della rivista History che è fatta molto bene, leggo “Le sue frasi più famose. L’Avvocato era famoso anche per i suoi aforismi, frutto di una invidiabile conoscenza degli uomini e delle cose umane. Ecco alcuni dei più famosi.”
Ma non sono d’accordo: negli aforismi del signor FIAT c’era un tratto di mediocrità oscurato dall’iconizzazione della persona, però essi rivelano la “forma mentis” di un uomo molto creativo, poco razionale e dal bilancio mediocre. Anzi, addirittura provinciale sotto la superficie del “mito snob”:
“Un padrone che non esige che un’impresa dia profitto è un pessimo padrone”. (ed era vero di Gianni Agnelli, che incassò da Enrico Cuccia ben 2 miliardi di euro nascosti tra i forzieri della Jp Morgan: la Tangentopoli della Fiat, ma amava dire con la inconfondibile erre blesa: “Amo il vento perché è l’unica cosa che non si può comperare.”)
“Gli uomini si dividono in due categorie: gli uomini che parlano di donne e gli uomini che parlano con le donne. Io di donne preferisco non parlare”.
“Non chiamatemi senatore. Ogni volta che sento questa parola penso a mio nonno, che per me e la famiglia è tutto. Il senatore è lui. Il mio nome d’arte è avvocato Agnelli, ed è giusto così”.
Non fu un vero esteta, non fu un vero industriale, non fu neanche un uomo d’azione. Fu soltanto un grand’attore. Ricordo che quando morì nel gennaio del 2003, Nanni Moretti disse: “Un po’ meglio di Berlusconi”; la caratteristica di Moretti è di capire tutto in maniera sbagliata.
Ma la mediocrità non è forse il prezzo che si paga alla genialità?
di Alexander Bush