A 70 anni dalla morte del grande filosofo italiano non è ancora stata chiarita la sua posizione nei confronti del liberalismo
l 15 aprile scorso è stato il giorno in cui sono scoccati i 70 anni passati dalla morte di Giovanni Gentile, quando il filosofo fu assassinato da alcuni gappisti, davanti al Salviatino, la sua residenza vicino a Firenze, in una vicenda ben ricostruita da Luciano Canfora, nel libro La Sentenza, e ora nella Ghirlanda Fiorentina, di Luciano Mecacci. E settant’anni non sono bastati non solo per far piena luce sulla morte del filosofo, ma non sono stati sufficienti neanche per intraprendere e definire una discussione sul liberalismo di Gentile (un destino che l’accomuna a quell’insufficienza di studi dedicati alla sua riforma della scuola, come ha scritto De Felice nel volume II di Mussolini il fascista). Settant’anni dunque andati a vuoto anche per una discussione, all’interno del campo liberale, sul liberalismo di Gentile. E dire che per Gentile il liberalismo rappresenta il fulcro del suo pensiero. Solo per rimanere ad una dimensione giornalistica, e per citare solo uno dei suoi innumerevoli articoli, Gentile, con un certo stile ad effetto, spiega il suo liberalismo in un intervento che scrisse per il Resto del Carlino, il 23 marzo del 1919, polemizzando con Mario Missiroli, che, in sostanza, nei giorni precedenti, aveva teorizzato che il liberalismo fosse una derivazione del socialismo. E qui Gentile si dichiara, solo all’apparenza paradossalmente, «più liberale di Wilson e più socialista di Lenin, certamente». Vale la pena ripercorrere almeno una parte dell’articolo, per comprenderne appieno il senso: «Il liberalismo di cui, se mi fosse consentito, io parlerei», scrive Gentile, «non è l’individualismo, né la concezione borghese. Non l’individualismo […], poiché «lo Stato vero non è quello che esiste di fronte all’individuo, ma quello stesso dell’individuo, ma quello stesso che l’individuo realizza. E non è la concezione borghese, perché il liberalismo, come io l’intendo, è anteriore alla formazione di quello che i socialisti dicono Stato borghese, e contiene in sé tutta quanta la storia dello sviluppo della borghesia, che ne rappresenta solo una forma o una fase. Il liberalismo, almeno da cento anni a questa parte», scriveva Gentile poco meno di un secolo fa, «è concezione dello Stato come libertà e della libertà come Stato: doppia equazione nella cui unità trova adeguata espressione il principio liberale. […]Lo Stato perciò non è dei proletari, né della borghesia». Insomma, spaziando tra le più variegate famiglie che dal liberalismo prendono corpo, è difficile individuare un liberalismo più autentico proprio nel momento in cui Gentile sgancia il liberalismo sia dalla borghesia, sia dal proletariato, per legarlo allo Stato, che tutto è (anche nel senso filosofico del termine), tranne qualcosa di katéchon, di «pietrificato»; in quanto lo Stato è, per sua natura, «spirito». Ma il liberalismo si fa tale, da un lato sciogliendosi definitivamente da tutte le categorie politiche «storiche» e dall’altro contenendole non negando nessuna di esse; respingendo da una parte quel liberalismo «wilsoniano», che vede soltanto una rivendicazione dell’individuo su tutto il resto e dall’altra quel socialismo che ha eretto a modello la supremazia di una classe (una qualsiasi classe) su qualsiasi altra categoria. Un’aria che si percepisce fresca anche oggi, nel clima irrespirabile del 21° secolo, nel quale il mainstream dominante vede ancora soltanto il radicalizzarsi delle tendenze da una parte o dall’altra, divisi tra un pauperismo economico e una decrescita culturale, sociale e politica senza freni.
Vito de Luca