GIULIO ANDREOTTI, UNA PASSIONE PER TUTTA LA VITA: SALVARE I MASCALZONI. MA ALLA FINE CAMBIO’

Data:

“Il maxiprocesso a Cosa Nostra senza Andreotti non si sarebbe mai fatto”
Ferdinando Cionti

“Delle due l’una: o Andreotti è stato il più grande perseguitato nella storia d’Italia, o è un criminale che l’ha sempre fatta franca”
Indro Montanelli

“Colpisce la solitudine di Giulio Andreotti”
Tony Servillo a Lilli Gruber, La 7

Era il 7 agosto 2019, quando è uscito in edicola Corriere Sette allegato al Corriere della Sera con una copertina e un titolo decisamente erotizzanti: “I diari segreti di Giulio Andreotti”, dove compariva sullo sfondo il Divo con lo spessore kafkiano del suo “personaggio inquietante” (vedi Eugenio Scalfari): il Mistero fatto in persona, come tante volte di lui è stato detto e scritto, una buona dose di stranezza, la gobba, il viso giallognolo: insomma, tutti gli elementi per altro eccessivamente noti a chi scrive (Andreotti è stato una vera e propria ossessione, per fortuna non l’unica a differenza di Giancarlo Caselli), congiuravano all’acquisto del settimanale con le poche monete a disposizione, appena sufficienti. Risultato dell’acquisto? Una vera delusione.
L’articolo molto dettagliato di Massimo Franco non ha rivelato niente, per altro con quel provincialismo furbescamente piccolo-borghese dei terzisti alla Franco che non è la cifra alta dell’Italia, diciamo, ma passi… Come era già stato rilevato da Francesco Merlo, il Gobbo non era un genio della scrittura (“i suoi libri erano mediocri”), la sua cultura? Meno consistente di quanto si possa pensare nella vulgata comune…
No, cari lettori: il punto è un altro.
L’ex enfant prodige dello statista Alcide De Gasperi aveva un segreto, aveva un enigma che chi scrive crede finalmente – con un pizzico di presunzione, certo – di avere disvelato: il delirio di onnipotenza con potenziale “passaggio all’atto” suicidario che affliggeva Giulio dietro l’apparente razionalità granitica dei comportamenti. Si, avete capito bene: Giulio, il sette volte Presidente del Consiglio, l’evergreen ciociaro della Prima Repubblica era afflitto dalla “sindrome di hybris” con l’atroce sofferenza delle emicranie quale prezzo da pagare. Attenzione, non era un bipolare a differenza dell’amico Francesco Cossiga. Eh no. Ma rientrava nella fenomenologia dello psicopatico… C’è una bella differenza. E che, alla fine, la Maschera la perse. Precisamente: nel 1992, mese di marzo. Omicidio di Salvo Lima. Anche per colpa di Piero Ottone, che ammirava tenendolo debitamente a distanza (subì da lui un colpo di bazooka nel pezzo su Il Venerdì de la Repubblica: “Andreotti ha paura: crolla un mito”) … Ci arriveremo per gradi. Occorre un antefatto.

A 13 anni, ho molestato un bambino di 9. E’ bene precisare: non l’ho violentato. L’ho soltanto molestato, sotto le siepi del giardino della villa di famiglia, a Binasco in Pianura Padana nel maggio del 2001. Era uno dei periodi più belli della mia vita: in seconda media, pieno di passioni, ingenuità e interessi nella fase della pubertà. Il ragazzino in questione? Si chiamava Carlo, fratello della futura modella Eleonora. Stanno bene entrambi. Lo dico con l’aperta sincerità anti-moralistica che mi caratterizza: non mi pento di quello che ho fatto. Fermai le mie azioni ingerenti mentre Carlo si mise a piangere, senza capire bene quello che stavo facendo. I suoi genitori non reagirono male, e rimanemmo in amicizia; non credo affatto che la sua vita sia stata traumatizzata da me. Siamo rimasti buoni amici negli anni successivi. Perché nel momento del gesto certo non esemplare ero in fase maniacale antitetica in quanto tale al ragionamento, e la mania che mi assaliva era legata a un fatto bellissimo: la mia travolgente passione per Enrico Mattei, a seguito della visione del film “Il caso Mattei” di Francesco Rosi qualche mese prima dell’accaduto: gennaio 2001. In seguito all’innamoramento per il regista Rosi, provai dunque – e non è tanto difficile spiegarlo ai lettori – che cos’è il delirio di onnipotenza. Ma avevo appunto tredici anni, e a quell’età non solo è facile sbagliare ma in un certo senso è doveroso (sic!).
Arriviamo così a Giulio Andreotti, che non aveva 13 anni ma 55 quando nel 1979, da Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, non si fece scrupolo di far minacciare per telefono Giorgio Ambrosoli il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, noto riciclatore di denaro sporco, da parte del cognato di Stefano Bontate Giacomo Vitale: all’epoca, Andreotti rischiò di perdere la poltrona di Capo del Governo e forse ben altre conseguenze pur di salvare a tutti i costi Michele Sindona: la sua passione per i mascalzoni lo induceva a perseguire azioni azzardate di cui non calcolava minimamente le conseguenze (tant’è vero che la mitica segretaria Enea una volta disse: “Andreotti non è pericoloso, ma è spericolato: che è tutta un’altra cosa!”)… E perché il Divo aveva una passione per i banditi? Semplice: non lo sapeva nemmeno lui.
Ciò che è importante, però, è dare un senso alla propria giornata anche esagerando e delinquendo (sic!), e il Gobbo, indubbiamente, lo ha fatto forse con qualche emicrania di troppo.
Una volta – era il luglio del 2020 – la domestica di Hanne Winslow Luba, guardando casualmente uno scambio di battute tra il documentarista Tatti Sanguineti e Giulio Andreotti in un lungo documentario-intervista per Sky –, disse molto acutamente di Andreotti, dopo averlo fissato alcuni minuti: “Che persona strana, non è autentico nel suo modo di parlare” (era, rectius).
No, Andreotti non era autentico nel suo modo d’interloquire con l’Altro come è vero dello psicopatico –, che sembra profondamente immerso nel contesto da cui resta invece separato.
C’è un episodio che illumina piuttosto bene la tendenza psicopatica alla menzogna da parte di Giulio Andreotti: ed è contenuto nella denuncia depositata dall’avvocato Giorgio Ambrosoli agli organi inquirenti della Procura del Tribunale di Milano per le minacce di morte arrivategli da Cosa Nostra, a causa del suo diniego fermo ai progetti di salvataggio della Banca Privata Italiana di Michele Sindona; dalla denuncia penale dell’“eroe borghese” Ambrosoli si apprende che Giulio fece arrivare sia a Sindona che all’uomo d’onore Giacomo Vitale – cognato di Stefano Bontate – un’informazione non vera: l’informazione falsa era che l’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi avrebbe telefonato, o cercato di contattare Ambrosoli per lamentare la non collaborazione dello stesso (sic!) alla sistemazione della questione Sindona. Orbene, questa era una bugia colossale, per lo più uscita dalla bocca di colui che era il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana –, e che quindi giuocava con il fuoco!
Il 9 gennaio 1979 Giacomo Vitale, esponente della loggia coperta Grande Oriente d’Italia altrimenti nota come la “loggia dei trecento”, telefona per due volte ad Ambrosoli, che scrive nella denuncia consegnata brevi manu alle forze dell’ordine: “Oggetto delle telefonate è ancora il viaggio a New York per depositare documenti di cui disporrebbe Michele Sindona, ma soprattutto l’avvertimento che ambienti di Roma imputavano al sottoscritto la mancata chiusura della vicenda Sindona. In particolare l’anonimo affermava che l’on. Andreotti aveva telefonato direttamente a New York dicendo a Sindona che il sottoscritto non voleva collaborare alla sistemazione del suo caso. Ha affermato pure che il direttore generale della Banca d’Italia – dottor Ciampi – avrebbe dovuto telefonare al sottoscritto, e si meravigliava che tale telefonata non fosse qui pervenuta. Concludeva ripetendo che a Roma e Milano diversi amici di Sindona – compreso il dott. Cuccia – attribuivano al sottoscritto la colpa della mancata definizione del caso Sindona, ed aggiungeva che – se fosse stata sistemata la cosa – si sarebbe presentato con una bella busta”.
Ecco la trascrizione di uno dei passaggi decisivi della prima telefonata minatoria giunta ad Ambrosoli, con la “moral suasion” di Giulio Andreotti che ne era il suggeritore:

Vitale: Pronto, avvocato?
Ambrosoli: Sì.
Vitale: Mi sono spiegato bene oppure no, avvocato?
Ambrosoli: Lei mi dice che Andreotti dice che la colpa è mia e io le ho risposto…
Vitale: Esatto, ma… ha telefonato là… di sopra, no?
Ambrosoli: Sì.
Vitale: Dicendo che aveva telefonato a quello (Sindona, ndr) e che lei non è… non voleva collaborare per niente, mi sono spiegato?
Ambrosoli: Sì, ma scusi, io cosa ci posso fare? Telefono al presidente del Consiglio? Guardi che lei si sbaglia.
Vitale: No, per carità…
Ambrosoli: Io questo devo fare…
Vitale: Siccome lei… insomma ci voglio dimostrare…
Ambrosoli: Sì.
Vitale: … Tramano dietro le sue spalle, forse, per questo l’ho richiamato, capisce?
Perché praticamente tutti puntano il dito su di lei…
Ambrosoli: E COME FA A INVENTARSELO IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO?
Vitale: E perciò… perciò glielo sto dicendo io, guardi che lei, ha visto, ieri sera ci abbiamo telefonato… perché quello non sapeva niente, quello di sopra, no? Lui gli ha telefonato direttamente a quello, dicendo io ti ho fatto telefonare da quel signore là – che ci ho fatto il nome – però non sono…
Ambrosoli: Ma il dottor Ciampi mi avrebbe telefonato, secondo Andreotti?
Vitale: Esatto… esatto, questo è tutto il… mi sono spiegato?
Ambrosoli: E lei chiede in Banca d’Italia se il dottor Ciampi mi ha telefonato…
Vitale: No, io non chiedo niente a nessuno, siccome noialtri siamo qua giustamente per… potere sistemare questa faccenda, loro puntano tutti il dito su di lei, per dire la colpa come se fosse lei e vogliono insomma… mi sono spiegato? Vogliono che insieme si rende conto della situazione, solo per questo io… che io lo vedo, insomma… anche lo guard… guardandolo, vedo che lei è una persona a posto, per cui io non… non mi sento, diciamo noialtri, di potere fare del male, se prima non sono sicuro… mi sono spiegato… capisce?… E allora vedo, che dato che tutti sono amici suoi e puntano il dito su di lei…
Ambrosoli: No, amici miei non sono, guardi, Andreotti non è mio amico proprio.
Vitale: Lo vogliono avvisare… ma c’è quell’altro di Milano, signor Cuccia invece pure?
Ambrosoli: Ma Cuccia non lo conosco neanche lui, pensi un po’…
Vitale: E comunque puntano il dito tutti su di lei.
Ambrosoli: Possono puntare quello che vogliono, ma se non mi chiedono niente e io non gli faccio niente e non ci conosciamo, non vedo cosa possono…

Ciò che sconcerta di più di questa vicenda da Sudamerica, è che Andreotti – nei suoi colloqui avuti con il bandito Michele Sindona, e poi riportati per flatus vocis dal picciotto Giacomo Vitale – riportò la circostanza del tutto inventata che Carlo Azeglio Ciampi avrebbe appoggiato il folle piano di salvataggio a spese dei contribuenti italiani della Banca Privata Italiana – più di 250 miliardi di lire; questa “fake news” inventata dal Divo, senza pensare alle conseguenze sui suoi rapporti con lo stesso Ciampi (sic!), serviva a mettere sotto pressione l’onesto avv. Ambrosoli, che – nelle stesse telefonate da egli registrate con il braccio destro del boss Stefano Bontate – osservava incredulo: “Ma come fa a inventarselo il Presidente del Consiglio?”.

Perché era una personalità tendente alla menzogna con naturale disinvoltura, incapace psicopaticamente di distinguere la realtà dalla finzione…
Giorgio Galli, raffinato politologo, lo definì “il più grande mentitore professionista nella storia d’Italia”.
La causa ab origine di tali scriteriati comportamenti – che lo esponevano, tra l’altro, al rischio di sanzioni severe da parte dell’Autorità giudiziaria e infatti fu interrogato come persona informata sui fatti dal pm Guido Viola –, va rintracciata a parere di chi scrive nel suo “pensiero bugiardo”, con distorsione menzognera della realtà.
Mai i suoi famosi mal di testa emicranici che gli durarono tutta la vita – leniti talvolta con l’Optalidon, che Andreotti regalò anche in una confezione di capsule al giornalista Mino Pecorelli –avevano un rapporto eziologico causa/effetto con la continua negazione della realtà, che il Gobbo somatizzava sotto forma di cefalea.
Abbiamo la “prova schiacciante” che Andreotti aveva informato fraudolentemente Sindona, che Ciampi – approvando il memorandum di Gaetano Stammati (P2) in favore delle banche in narcodollari di Sindona, cui invece era ovviamente contrarissimo (sic!) – aveva cercato di contattare Ambrosoli, per convincerlo da Governatore di aderire ai progetti di salvataggio piduista che ormai anche alla Banca d’Italia avrebbero approvato (non è una semplice scelta criminosa dire delle bugie così gravi, ma dietro c’è il disturbo mentale) nella condotta “one track mind” dello psicopatico.
Scrive il cronista di razza Peter Gomez – che nella sua carriera da giornalista brillantissimo ha fatto strage di donne – nel pezzo “Giulio Andreotti – Assolto per aver commesso il fatto”: “… L’indomani, 10 gennaio 1979, verso le 12, Ambrosoli riceve la visita dell’avvocato Guzzi. Che gli domanda se ha ricevuto una telefonata di Ciampi. “Ambrosoli gli contestò che la stessa domanda era stata formulata il giorno precedente dall’autore delle telefonate anonime (Giacomo Vitale, ndr), e gli fece ascoltare la registrazione della relativa conversazione telefonica. Il 12 gennaio l’anonimo interlocutore telefonò per l’ultima volta all’avv. Ambrosoli. Ecco la trascrizione:
Picciotto: Pronto, avvocato!
Ambrosoli: Buon giorno.
P: Buon giorno. L’altro giorno ha voluto fare il furbo, ha fatto registrare tutta la telefonata!
A: Chi glielo ha detto?
P: Eh, sono fatti miei chi me lo ha detto. Io la volevo salvare, ma da questo momento non la salvo più.
A: Non mi salva più?
P: Non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e bastardo!”…”.

Resosi conto che, pur di salvare l’amico Sindona, il Gobbo aveva messo a rischio i suoi stessi rapporti con Ciampi, Sarcinelli e Baffi – cioè la Banca d’Italia – con l’episodio dell’“incontro Guzzi-Ambrosoli”, chiese e ottenne allora di incontrare l’agente segreto del Sismi Francesco Pazienza, braccio destro del direttore piduista dei servizi segreti Giuseppe Santovito: “… Un giorno Santovito mi mandò da Andreotti. Io vado e il presidente mi fa: c’è questo avvocato di Sindona “Gizzi”, “Guzzi, presidente” – “Ah, bravo”, rispose lui – che sta dicendo un sacco di stupidaggini (Giulio alludeva esplicitamente al menzionato incontro tra Ambrosoli e Rodolfo Guzzi, ndr). Come si fa a farlo smettere? Gli consigliai, con un po’ d’ironia, di rivolgersi alla divina provvidenza. Rispose dicendo che l’aveva già fatto e per questo ero lì”.
Il background di questi incontri kafkiani è la menzogna sorretta dall’omicidio.
“Chi non vuol far sapere una cosa, in fondo non deve confidarla neanche a se stesso”: Giulio dixit. Le crisi di cefalea (“Il problema, Andreotti, è che lei ha sempre il mal di testa”: Cirino Pomicino dixit), avvengono su questo sfondo.
Va detto per completezza dell’informazione, che Andreotti – da presidente del Consiglio dall’89
al ’92 – sostenne il maxiprocesso a Cosa Nostra, ma praticando il “doppiogioco” a Totò Riina che poteva costare la vita ai suoi stessi figli (sic!), e che comunque portò alla soppressione violenta per mano armata di Ignazio Salvo e Salvo Lima, che non erano riusciti a rispettare (per colpa del Divo) le promesse di assoluzione fatte al “capo dei capi”.
L’incontro tra Giulio e Riina è quasi certo, come scrive Guido Lo Forte nel libro “La verità sul processo Andreotti”.
Ma come hanno detto e confermato più volte l’ex pm a latere del maxiprocesso Giuseppe Ayala e
Claudio Martelli, l’attività di sostegno al cosiddetto “maxi-ter” che mise alla sbarra Cosa Nostra da parte del Divo fu importante e continuativa nel tempo: assicurando il successo di Falcone, che in Andreotti vedeva un costante punto di riferimento (tant’è vero che fece condannare il pentito Pellegriti per calunnia nei confronti di Giulio, a proposito delle sue dichiarazioni accusatorie sui rapporti con Salvo Lima).
La motivazione di tale inedita attività anti-mafia – considerata con parole di apprezzamento da parte degli stessi giudici della Corte d’Appello di Palermo che hanno motivato le loro sentenze di assoluzione a carico di Andreotti – non era da ricercare soltanto nell’ambizione di avere i voti per il Quirinale (che avrebbe significato il coronamento d’una cinquantennale carriera politica), ma ce n’era una ben più importante –a parere di chi scrive: il Gobbo non ne poteva più di rimanere invischiato nella ragnatela del “mondo di mezzo”, e voleva voltargli le spalle. Come Michael Corleone ne “Il Padrino” parte III.

Il 24 settembre 2012, presentando il suo libro “Troppe coincidenze” a Taormina, Ayala ha dichiarato quanto segue – con quell’umiltà caratteristica della sua personalità, che l’avvocato Laura Gilli aveva ben colto nelle sue osservazioni del giugno 2014 – “Io non sono uno scrittore ma, al di là dei miei meriti, ho avuto a disposizione un osservatorio privilegiato come magistrato a Palermo prima, e come parlamentare dopo, a seguito delle elezioni del 5 e 6 aprile del 1992 (per il rinnovo del Presidente della Repubblica, ndr), e tutto questo mi ha consentito di fare delle supposizioni pur non essendo la mia una vera e propria indagine… E allora perché troppe coincidenze? La prima ed importante coincidenza è che, in quella legislatura, nel 1992, bisognava eleggere il presidente della Repubblica e non si riusciva, ma presto anche il Pds diede la propria apertura all’elezione di Giulio Andreotti, il nome dell’uomo più papabile e a quel punto si pensava tutti in Parlamento, che fosse davvero fatta. Quando quel pomeriggio del 23 maggio del ’92 arrivò la terribile notizia della strage di Capaci, Claudio Petruccioli –, inviato dall’allora segretario del Pds Achille Occhetto, a manifestare l’apertura del Partito Democratico di Sinistra – incontrò l’uomo di fiducia del senatore Andreotti, Nino Cristofori, e questo gli disse che il senatore a vita aveva deciso di rinunciare al Quirinale perché interpretava la strage in cui morì il giudice Falcone come una maniera per sbarrargli la strada verso il Colle… E una coincidenza clamorosa è certamente il fatto che lunedì 25 maggio 1992 il Quirinale avrebbe avuto un nuovo inquilino, ed era l’on. Giulio Andreotti.
Sabato 23 maggio, 48 ore prima, ci fu l’attentato a Giovanni Falcone e Andreotti rinunciò.
Al di là dei processi che si sono fatti a carico di Andreotti, credo che si debba riflettere.
La lettura dell’attentato a Falcone come segnale per non andare al Quirinale è attribuibile non ad Ayala, ma ad Andreotti”.
Che da gambler afflitto dalla “sindrome di hybris” – identificava se stesso con la Repubblica Italiana – prima aveva promesso in tre ore e mezza di conversazione con Totò Riina a casa di Ignazio Salvo di salvarlo dal maxiprocesso, poi aveva tradito le promesse fatte allo stesso Riina provocando l’uccisione di Salvo e Salvo Lima (per aver bloccato l’assegnazione del maxi all’“ammazzasentenze” Corrado Carnevale in violazione del pactum sceleris con il “capo dei capi”), e infine aveva capito lucidamente il 23 maggio del ’92 che lo stesso Riina – stuzzicato dalle “menti raffinatissime” – gli aveva sbarrato sine die la strada per l’agognata Presidenza della Repubblica.
Contrariamente alla vulgata comune, il “doppio gioco” non è una scelta autonoma, ma rientra nell’eteronomia del comportamento: il soggetto è prigioniero del suo stesso agire, come del resto George Soros aveva capito perfettamente bene dell’infame oligarca russo Boris Berezovskij: “L’imbroglio è il suo unico modo di agire. Ed egli non è capace di agire all’infuori di questo”.
Ma bisogna riconoscere che, come giuocatore, Giulio sapeva il fatto suo.
E l’ha fatta franca davvero fino all’ultimo.

Di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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