Giulio Regeni e la “verità di comodo”

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Le modalità per conoscere la verità sul caso Regeni sono talmente retoriche e opache che la prima vittima sembra proprio la verità

“Verità per Giulio Regeni”. Lo slogan, l’appello, l’auspicio esprime un bisogno di chiarezza persino pleonastico: di fronte a un delitto oscuro è implicito il desiderio di verità. Ma se cristallino è il bisogno di chiarezza – a dispetto o forse in virtù della retorica che ha accompagnato il “caso” – straordinariamente opache sono e restano le modalità per soddisfarlo.
In questo senso credo che andrebbe quanto prima coniato uno slogan parallello e a suo modo riparatorio: “Rispetto per il termine verità”.
Intorno alla vicenda di Giulio si è scatenato un tale pandemonio di illazioni preventive e pregiudiziali che la seconda vittima, dopo il povero ricercatore italiano, di tutta l’intera faccenda è proprio il termine “verità”. Al punto che non della verità sembra importare realmente al vasto popolo degli indignati, ma di qualunque verità sia utile a scagionare a priori e radicalmente ogni possibile mandante dell’omicidio estraneo alla compagine governativa del presidente El Sisi.
“Rispetto per il termine verità” dovrebbe pertanto risuonare come monito a quanti inalberano il proprio senso di giustizia nello stesso modo e con la medesima disinvoltura con cui ammainano la bandiera dell’obiettività e del realismo. “Rispetto per il termine verità” equivale, innanzitutto, a compiere infatti due elementari operazioni: sospendere l’accusa a chicchessia fintantoché che prove oggettive non ne svelino la responsabilità criminale, ed estendere ogni ambito della ricerca a chiunque tale responsabilità potrebbe portare.
Ora, né la prima né la seconda operazione hanno trovato se non adepti marginali, nel gran baillamme delle illazioni accusatorie sprovviste di prove. Pochissimi hanno saputo resistere alla tentazione di indicare, se non il mandante, il consapevole complice dell’assassinio, nel presidente El Sisi. E quasi nessuno ha avuto la premura di indagare se al di là delle responsabilità egiziane non ve ne fossero di continentali e per la precisione di britanniche.
L’informazione fondata sul pathos e restia a ogni analisi capillare delle circostanze dell’omicidio ha ancora una volta sommerso sotto migliaia di servizi pregiudiziali il rispetto per il termine “verità” e eletto a suo vassallo di comodo quella che potremmo chiamare, appunto, una “verità di comodo”. Cioè, fino a prova contraria, una “non verità”.
Ora, di questo il giornalismo dovrà prima o poi rendere conto. Non tanto di essersi ormai svenduto all’informazione “del dolore” (che pur di vendere notizie le ammanta di un sentimentalismo che definire stucchevole è persino eufemistico), ma di pretendersi portatore di “verità” nel momento stesso in cui promuove viceversa, sistematicamente e pertinacemente, il “camuffamento della verità” ovvero “verità di comodo” equivalenti di fatto a “non verità”.
Fintantoché questo cortocircuito che annulla l’emersione della possibilità della verità in nome della “propaganda della verità” o di una “verità propagandistica” non sarà stigmatizzato come un vero e proprio cancro dell’attuale informazione, inutile sarà intervenire nel dibattito: meglio ritirarsi in un canto e attendere lo sviluppo delle indagini giudiziarie lasciando che il giornalismo abbai i propri aprioristici rancori.
Ma proprio questo è il punto: si può ancora mettere la museruola a questa “vox media” alleata alla “vox populi” in funzione mercantile? Oppure dobbiamo definitivamente accogliere come storicamente data la diffusa coincidenza fra giornalismo e assenza di verità, ovvero fra giornalismo e propaganda di verità presunte, di comodo, non vere, non provate, non definitive, non dimostrabili né dimostrate?
Eppure basterebbe squadernare una serie di minime evidenze per porsi almeno qualche domanda: perché i referenti accademici di Giulio, fra cui alcuni dichiarati simpatizzanti della Fratellanza musulmana egiziana, tacciono? Perché un ricercatore è implicato in faccende di soldi e di prestiti? E perché nessun sostanziale coinvolgimento dei servizi segreti britannici è mai stato preso in considerazione nel corso delle indagini giornalistiche? E per quale ragione nessuno ha mai risposto concretamente alla domanda su quali interessi concreti, su quale tornaconto politico o di immagine, El Sisi avrebbe potuto trarre da un simile assassinio?
Tante altre domande andrebbero poste, se fossimo in un regime giornalistico di bisogno di verità vera e non di verità mercantile. In un regime siffatto, è guerra ad armi pari con le politiche di depistaggio messe in atto dal vituperato governo egiziano.

di Marco Alloni

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