Chi era davvero Gramsci?
Il Pd ha proposto, e fatto approvare alle Camere, un decreto legge che dichiara la casa natale di Antonio Gramsci “monumento nazionale”. In quell’edificio di Ghilarza, in provincia di Oristano, il filosofo comunista visse dal 1898 gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza con i suoi familiari. In attesa di conoscere la cifra che verrà stanziata in proposito, la reazione dei più (e non solo a sinistra) è stata di consenso: così si rende onore a uno degli intellettuali italiani più noti del secolo scorso, cui sono dedicate innumerevoli scuole e altri luoghi pubblici, e al quale si ispirano le ideologie di importanti movimenti contemporanei, islamici compresi.
Nessun dubbio sulla grandiosa costruzione teorica del filosofo, che ha pagato con la vita e il carcere (per mano fascista e forse con la segreta complicità di Mosca) la coerenza con le sue idee. C’è solo un piccolo particolare: Gramsci era il teorico non della democrazia, bensì del totalitarismo comunista. Proprio così, del totalitarismo, cioè di un mostro che ha sacrificato sull’altare della società senza classi, e del partito (il “moderno Principe”) milioni di vite umane. Non è un particolare di poco conto la sua idea della filosofia marxista come nuova “fede religiosa” destinata a prendere il posto di quella cristiana, borghese e fatiscente. Ma dovrebbe indurre a riflettere soprattutto una sua conseguenza: Gramsci ha teorizzato nei suoi Quaderni del carcere la necessità di superare il “totalitarismo regressivo” fascista per mezzo di un nuovo “totalitarismo progressivo”, cioè “portatore di una nuova cultura”. Ma lasciamo parlare lui stesso: “Una politica totalitaria tende: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in quel solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni culturali estranee; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema in cui il partito sia il solo regolatore” (“Quaderni del carcere”, Einaudi 1975, pp. 800). Concetto che si può tradurre così: Gramsci non solo rivendica la qualifica di “totalitario” al partito comunista, ma lo eleva al rango di “divinità” e di “imperativo categorico”. E in conclusione: rimprovera al totalitarismo fascista, allora al potere, il difetto di non essere abbastanza totalitario.
C’è da augurarsi che deputati e senatori, dopo aver approvato il decreto sulla sua casa natale, siano a conoscenza di tutto ciò. E dunque colgano l’occasione per far sì che le nuove generazioni conoscano il senso della reale eredità gramsciana.
Dario Fertilio