Da un punto di vista strettamente cinematografico “La grande bellezza” è un gran bel film, su questo sono d’accordo con l’Academy di Hollywood. Scontato e comprensibile – a parte qualche eccesso che talvolta ha rasentato il ridicolo – anche l’entusiasmo con cui i soliti ambienti italiani della cinematografia e della cultura hanno accolto la notizia dell’Oscar assegnato all’opera di Paolo Sorrentino. Di tutti i possibili nazionalismi, quello cinematografico è certamente il più ridicolo e strumentale, perché attento soprattutto alla difesa degli interessi della una sub corporazione romana.
Quello che non riesco a capire e a condividere è il compiacimento e l’orgoglio con cui è stato accolto il modo in cui viene rappresentata Roma (e quindi, aggiunge abusivamente qualcuno, l’Italia, dimenticando, come troppo spesso accade, che Roma non è l’Italia). Non mi riferisco, naturalmente, alle splendide immagini della città, di una suggestione unica, talvolta perfino surreale, onirica. Uno struggente documentario su Roma che fa da sfondo alla vicende e ai personaggi del film. Ma proprio di questo, dell’ambiente umano e culturale, della società, dei rapporti tra le persone e tra persone e la città che descrivono un umanità degradata, corrotta e marcia descritta da Sorrentino, della quale non c’è proprio nulla di cui andare orgogliosi, come pare accada invece ad alcuni commentatori.
Non è un caso se, alla fine, i personaggi migliori, in fondo i più sani, si rivelino paradossalmente proprio quelli che inizialmente appaiono i peggiori, i più squallidi e perduti: il protagonista Jep Gambardella-Toni Servillo e la patetica spogliarellista interpretata da Sabrina Ferilli. Tutti gli altri sono figure irrimediabilmente perse nella vanità, nell’inconsistenza, nella corruzione, nei meandri dei disvalori. Su questo sfondo umano perfino le meravigliose immagini di Roma sembrano quasi finalizzate a giustificare, a coprire tanto marciume e tanta vacuità, risultando perciò alla fine meno belle e meno vere.
Non capisco proprio come di tutto questo si possa andare orgogliosi.
Carlo Maria Lomartire