Guida alla Biennale di Venezia. Quella libera

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Con questo reportage Andrea Colombo, giornalista e saggista, inizia la sua collaborazione a Libertates

Una Biennale marxista? Può apparire paradossale che, nel 2015, vi sia ancora chi sia disposto, sia pure sotto il paravento di una manifestazione artistica, a recuperare il ferro vecchio e ormai ampiamente arrugginito del materialismo di marca leninista. Eppure quest’anno i presupposti c’erano tutti: a partire dall’impostazione terzomondista del direttore, il nigeriano Okwi Enwezor, passando per la riproposizione di Luigi Nono fino alle datate pornoprovocazioni della partecipazione inglese. E invece, sorprendentemente, proprio dai Paesi dell’Est europeo, quelli che il comunismo l’hanno vissuto davvero, sono arrivate le suggestioni migliori.
Devo ammettere che faceva un certo effetto vedere sventolare la bandiera ucraina sulle rive dell’Arsenale, con san Marco sullo sfondo. La Serenissima, da sempre città di approdo delle genti più diverse e ambasciatrice dell’incontro di civiltà nel mondo, non poteva non ospitare con la dovuta evidenza la presenza di un popolo sofferente, piccolo Davide minacciato dal Golia russo. Il padiglione sulla riva dei Sette Martiri, trasparente (come vorrebbe essere la repubblica slava ai confini dell’oscuro impero putiniano), si chiama “Hope”, “Speranza” , e ospita opere che intendono fornire una testimonianza della situazione attuale del tormentato Paese: come la gabbia di corde di Anna Zvyaginseva, urlo visivo contro ogni forma di repressione liberticida, o la violenza della guerra che esplode in mille colori pirotecnici dello “Spettacolo” di Artem Volokitin. La sofferenza di un popolo è immortalata nel volto scurito di un minatore nello scatto di Yevgenia Belorusets intitolato significativamente “Per favore non fotografarmi o mi fucileranno domani”, mentre l’umiliazione della perdita della Crimea viene rivissuta nel collage di Zhanna Kadyrova, “La folla”, che intende rappresentare l’effetto straniante della politica di potenza del Cremlino.
Va a fondo nelle ragioni di un passato lacerato l’interessante partecipazione lituana dell’artista-musicista-performer Dainius Liskevicius. Tra i tanti oggetti, cimeli, ricordi dell’era sovietica, spicca il grande dipinto murale, che ripropone lo stile pop di Roy Lichtenstein, dedicato all’ultimo partigiano antirusso ucciso nel suo bunker dal Kgb il 17 marzo 1965. Una resistenza armata durata 20 anni quella del piccolo popolo baltico contro l’oppressore venuto dall’Est. Una resistenza che è comunque continuata, sotterranea e non violenta, soprattutto per impulso della comunità cattolica, determinata a non farsi eliminare dal totalitarismo comunista.
Le ferite dell’espansionismo russo sono più fresche in Georgia, che non a caso ha chiamato il suo padiglione all’Arsenale “Crawling Border”, “Confine che striscia”: le frontiere fluttuanti del Caucaso, marcate da nuovi muri e filo spinato, diventano un corridoio nero, un gioco di specchi, le sabbie mobili di una spiaggia artificiale e infine, quasi facendo il verso a Duchamp, un insieme di w.c. impiccati, ironico punto finale di un percorso segnato da una cupa esistenza ai margini. La quotidianità perduta di genti costrette a scappare dai carri armati russi, la paura sempre incombente di nuovi attacchi e improvvise invasioni.
Ed è nell’installazione di un artista moscovita di fama internazionale, Grisha Bruskin, “La collezione di un archeologo”, allestita nel suggestivo ambiente della chiesa di Santa Caterina, che troviamo l’apice della riflessione estetica su ciò che è stato il potere sovietico. “Il grande errore del comunismo è stato quello di volere che tutti fossero felici per decreto”, mi aveva confidato passeggiando per le calli veneziane questo simpatico maestro nato a Mosca da una famiglia ebraica che ora vive fra la capitate russa e New York. Con un imponente sito archeologico creato ad hoc, con 33 sculture che ricordano un passato tragico, Bruskin ha voluto narrare lo stato d’animo dell’Urss in disfacimento. Ogni scultura rappresenta un archetipo sovietico: il marinaio, il prigioniero, il pioniere, il proletario, l’atleta, l’ufficiale, il burocrate. Dopo aver ricreato, scolpendoli, i soggetti, li ha distrutti in un furore iconoclasta. Un rito di purificazione. Quindi ha sepolto i frammenti in un sito archeologico toscano, accanto a rovine già interrate del primo e secondo impero romano. Poi li ha riestratti dal terreno e, appositamente per la Biennale, li ha collocati nei luoghi oscuri della chiesa veneziana, ricreando appunto l’atmosfera di un vero sito archeologo. Dove i reperti sono le immagini e i simboli del regime marxista. Quasi a ricordare che quel passato è sotterrato per sempre e non potrà più tornare.

Andrea Colombo

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Andrea Colombo
Andrea Colombo (Torino 1965) è un giornalista professionista e saggista specializzato in letteratura anglo americana. Ha scritto, fra l’altro, una controstoria del rock (“Sesso, droga & rock’n’roll”, “Fogli” n.219, 1995), una guida ai principali luoghi di spiritualità cattolici italiani (“Guarire l’anima. Itinerari dello spirito”, Leonardo Mondadori, 1998) e un saggio sui rapporti fra Ezra Pound e il cattolicesimo (“Il Dio di Ezra Pound”, Ares, 2011). Ha tradotto e curato diverse opere di Ezra Pound (fra cui i controversi “Radiodiscorsi” della seconda guerra mondiale, per Il Girasole 1999, nonché i pamphlet economici, “L’Abc dell’economia e altri scritti”, per Bollati Boringhieri 1996), G.K. Chesterton, R.H. Benson e C.S.Lewis. Collabora con le pagine culturali de “La Stampa”, con il mensile di “Avvenire”, “Luoghi dell’Infinito”, e con “Studi Cattolici”. Residente a Milano, ha vissuto in varie parti del mondo, fra cui New York, Sydney, Londra, Oslo e Helsinki. Appassionato di storia dell’arte antica e contemporanea, sta preparando una “controstoria dell’arte” e un saggio sul giovane Cioran. Si definisce “un liberista jeffersoniano con una spiccata predilezione per l’anarchia”.

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