I luoghi comuni dell’ideologia italiana. La mancata ‘riforma protestante’

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Un saggio di Dino Cofrancesco sul fatto che non sia vera l’asserzione che in Italia sia mancata una riforma protestante: progressisti e riformatori esistono su entrambe le sponde religiose

Spesso anche giornalisti e studiosi seri ripetono (stancamente) un luogo comune che fu uno dei cavalli di battaglia del povero Piero Gobetti, una coscienza morale integerrima come ne nacquero poche nell’Italia del primo Novecento ma, altresì, un precoce maitre-à-penser prodigo di stramberie concettuali e di ossimori non innocui (a cominciare dal suo liberalsovietismo). Si tratta del topos che attribuisce l’arretratezza della civic culture italiana e, in genere, la decadenza inarrestabile del bel paese, alla mancata riforma religiosa. Per colpa del cattolicesimo non siamo riusciti a tenere il passo con quella che Carlo Cattaneo chiamava l’Europa vivente, ci ritroviamo un’etica segnata dal familismo amorale, pensiamo solo al nostro ‘particulare’ e al ‘tirare a campà’. Il corollario sotteso a questa filosofia nazionale della storia è che solo la ‘cultura laica’ avrebbe potuto, in qualche modo, rimediare alla perdita dell’occasione storica offerta dai fermenti protestanti che non mancarono neppure da noi nei primi decenni del XVI secolo. Sennonché, sempre per colpa della Chiesa e della sua ‘presa’ sulle campagne, la cultura laica rimase sempre ‘di minoranza’ anche se ad essa si ispirarono quasi tutti i partiti e partitini laici, appunto, (sulla cui ‘etica pubblica’, peraltro, andrebbe steso un velo pietoso..: non che fossero più corrotti, e corruttibili, dei cattolici e dei militanti dell’altra chiesa, quella comunista, ma certo, al governo, non diedero sempre esempi sublimi di ‘senso dello Stato’). Per alcuni studiosi, storici e analisti politici, ora che i resti delle due Chiese si sono incontrati e fusi—ex cattolici ed ex comunisti—non c’è più scampo e non resta che rassegnarsi a una fine già da tempo annunciata.
Non sono stato molto fortunato ma nel mio ambiente di lavoro –l’Università, dove misi piede quasi mezzo secolo fa–nelle amministrazioni pubbliche, nelle aziende private, non ho avuto modo di constatare nei cattolici investiti di una qualche autorità uno standard morale inferiore (o superiore) a quello dei cosiddetti laici o una minore (o maggiore) apertura agli ‘altri’: anzi, durante gli anni di insegnamento, mi è capitato di incontrare docenti cattolici che hanno messo in cattedra allievi laici (e persino ultrasinistri e mangiapreti) ma non mi è mai capitato di incontrare docenti laici (e soprattutto di sinistra) che abbiano messo in cattedra allievi bigotti e, comunque, di destra. (Forse perché a destra non c’è cultura?). Ho da molto tempo la sensazione che la divisione laici/cattolici sia una di quelle mascherate ideologiche che all’Italia non hanno mai fatto difetto. Certo ci sono temi sui quali molti cattolici convergono e altri che trovano d’accordo molti laici ma sarebbe sbagliato riferirli a diverse e distinte ‘scuole di pensiero’. Su certi temi bioetici, ad es., i cattolici sembrano compatti ma se si esaminano le cose fino in fondo si vede, ad es., che sull’adozione gay molti laici nutrono le stesse riserve dei cattolici e che c’è, persino, una minoranza cattolica molto più possibilista dei conservatori (?) laici. In sostanza, si tratti di bioetica o di altro, le grandi ‘questioni pubbliche’ dividono trasversalmente credenti, non credenti, agnostici, atei, seguaci di altre confessioni religiose.
Mettiamo da parte, allora, la bufala della ‘mancata riforma’. Il tradizionalismo cattolico ha pesato non poco sulla storia risorgimentale e post-risorgimentale: Pio IX (elevato agli altari da Giovanni Paolo II per ragioni per me incomprensibili), i Gesuiti di ‘Civiltà Cattolica’, i parroci della ‘provincia profonda’, hanno remato contro la modernità laica e liberale ma è anche vero che senza una classe dirigente e intellettuale cattolica oggetto d’invidia da parte dell’Europa intera (i d’Azeglio, i Manzoni, i Ricasoli, i Minghetti, i Lambruschini, i Mamiani, i Pellegrino Rossi etc.) l’Italia non sarebbe mai riuscita a riunire le sue sparse membra in uno stato unitario degno di rispetto. E non si dica che i cattolici del Risorgimento dovevano la loro statura intellettuale e morale al fatto di essere stati influenzati dall’illuminismo–e quindi alla loro relativa scattolicizzazione—così come non si dica che i ‘laici’ della Prima e della Seconda Repubblica hanno perduto le loro virtù primigenie a causa della contaminazione irrimediabile della ‘mentalità cattolica’. Con spiegazioni così semplicistiche e risibili non si fa storia né si educano le giovani generazioni.
Del resto, se la nostra mancanza di senso civico dipendesse dal condizionamento cattolico, non si spiegherebbe come mai la cattolicissima Austria sia stato un esempio insuperabile di buona amministrazione, di tolleranza, di libertà intellettuale e come mai il Belgio, sia stato, dopo l’Inghilterra, un modello indiscusso di democrazia parlamentare (con un forte partito popolare che si alternava al partito liberale e conservatore). La ‘presa della Chiesa sulle masse’ non ha impedito alla stessa Francia di darsi solide ed efficienti istituzioni, un patriottismo diffuso, una società civile ricca e articolata, anche senza la stabilità dei regimi politici.
Va ricordato, infine, con buona pace di Gobetti, che la riforma, come la cattolicità, non presenta affatto un volto unitario. Quella luterana non solo non riuscì minimamente a neutralizzare i fattori culturali e istituzionali che produssero, sul suolo tedesco, una <modernità non liberale> ma, se si leggono gli scritti del banditore della crociata loss von Rom!, si resta sconvolti dalla violenza politica che li caratterizza (i contadini vanno sterminati come cani rabbiosi) e dagli incunaboli dell’antisemitismo. Era questa la riforma di cui il destino cinico e baro ci ha privato? O era quella di Giovanni Calvino, che condannò al rogo l’ingenuo e fiducioso Michele Serveto?
Un grande studioso napoletano, Vittorio de Caprariis, che era andato a Parigi per le sue ricerche sulle guerre di religione in Francia, incontrando, alla Sorbona, un suo collega pure lui partenopeo, gli disse sconsolato: < so’ venuto pe’ studià a libertà e tutte chist |gli autori protestanti| sono uno chiù fetente e autoritario dell’altro!>. Naturalmente, non intendo minimizzare il prezioso apporto del mondo protestante alla formazione della ‘coscienza europea’ alla quale dedicò un saggio brillante e profondo Paul Hazard. Quell’apporto, però, è molto più complesso di quanto non si creda e se ci si riferisce alla nascita dell’individualismo moderno – un supporto imprescindibile del capitalismo occidentale – bisogna chiedersi se quell’individualismo non avesse radici assai più antiche di Lutero, di Calvino, di William Penn. La riforma operò proprio su quelle radici e con innegabile successo giacché non si ‘snaturarono’ costumi della mente e abiti del cuore secolari se non millenari (penso ai Germani di Tacito). Chissà perché, invece, in Italia ci si rammarica tanto del mancato ‘sradicamento’ e si rimpiange una ‘rivoluzione spirituale’ che avrebbe dovuto cancellare pregiudizi e superstizioni alle origini dei nostri ritardi storici. Ci si riempie la bocca di storicità ma non si riesce a interiorizzare la verità più preziosa dello storicismo antico e moderno: che natura non facit saltus ovvero che nella terra bruciata non si costruisce niente di solido e di durevole e che le riforme riuscite bene sono quelle che si innestano su un terreno predisposto. Ma oggi chi legge più il geniale Vincenzo Cuoco, che tutte queste cose aveva cercato di spiegare nel suo saggio sulla rivoluzione partenopea del 1799?

Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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