Una rappresentazione del Ramadan fuori dagli stereotipi tipici di noi occidentali: un Ramadan visto dal di dentro
Il Cairo – Anche quest’anno è terminato il mese sacro del digiuno, il Ramadan. Un mese particolarmente drammatico non solo perché caduto d’estate ma per le tragiche vicende che l’hanno accompagnato: dalla recrudescenza jihadista in Iraq ai massacri di Palestina alla incessante guerra di Siria agli attacchi terroristici in Egitto e via elencando. Eppure in questo scenario apocalittico il Ramadan si è proposto più o meno come sempre, con il suo paradossale corredo di rinunce ed eccessi e la sua straordinaria serie di contraddizioni.
Innanzitutto il cibo, che insieme alla preghiera cadenza questo rukn (pilastro) della fede musulmana. A Ramadan si consuma secondo gli esperti il 30% in più di cibo rispetto al resto dell’anno. Non solo, malgrado venga presentato – e sia coranicamente imposto – come salutare è considerato fortemente lesivo dell’integrità fisica e procura ogni anno migliaia di ricoveri. Accumula inoltre sprechi esorbitanti e mette a dura prova le economie dei paesi coinvolti nonché le politiche di controllo sulla speculazione e l’inflazione. Nondimeno è un mese di autentico sacrificio spirituale e corporeo che, se pure determina un calo della produttività del 30%-50%, coinvolge nella sua azione purificatoria anche i musulmani meno credenti.
Altro paradosso di questo mese sacro è il rapporto che viene instaurandosi fra spiritualità e business. Le cifre indicano che il carico pubblicitario che accompagna le serie televisive di Ramadan supera in un solo mese un quarto dell’intero budget annuo, e per quanto riguarda l’Egitto è ormai diventata prassi che la maggior parte dei registi di cinema si consacri alle telenovelas di Ramadan sapendo di poterne cavare ascolti e guadagni altrimenti impensabili.
Serie televisive o telenovelas sono però un banco di prova per la migliore cinematografia araba e di fatto rappresentano l’intrattenimento fondamentale sia prima dell’iftar, il pasto del tramonto che rompe il digiuno, sia a ridosso del suhur, la colazione dell’alba prima del levarsi del sole. Tali serie o musalsalat propongono generalmente ricognizioni sulle grandi epoche della storia araba, in particolare di quella egiziana. Ma anche attente letture del presente che non sempre incontrano il favore delle autorità. Come è accaduto quest’anno con “Gente di Alessandria” dello sceneggiatore Bilal Fadl, censurato perché metterebbe in cattiva luce le forze dell’ordine egiziane e nel cast figurerebbero oppositori al governo di El-Sisi.
Sia come sia, le musulasalat sono di fatto il vero centro d’interesse e polemica del Ramadan. E può capitare, come è accaduto con “La prigione delle donne”, che una di esse sia un vero e proprio capolavoro, in grado di mostrare l’indigenza e la maledizione che accompagnano molti destini mediorientali fuori da ogni retorica e spirito oleografico. A dimostrazione che il Ramadan è anche nel suo aspetto commerciale un’occasione di riflessione sul bene e sul male, l’indigenza e l’ingiustizia, il dolore e la rassegnazione al fato.
È vero, una stragrande maggioranza di musulmani dribbla la coerente logica del Ramadan coricandosi tardi e svegliandosi nel pomeriggio, quando è del tutto evidente che la prescrizione coranica esorta a un digiuno attivo dall’alba al tramonto. Ma moltissimi sono coloro che alle 7 di mattina sono già al lavoro, magari sotto il sole cocente di luglio. A costoro l’ammirazione va tributata senza riserve e il sacrificio riconosciuto come ben più di un atto simbolico. Perché se d’inverno è la fame a farla da padrona, d’estate la sete può essere dilaniante. E accettarla per un mese consecutivo, insieme all’astinenza da fumo e sesso, è prova di fede che riscatta ogni paradosso e contraddizione del Ramadan.
Non sia mai, comunque, che qualcuno in terra islamica osi l’impensabile: per esempio, come suggerì Bourghiba nel 1960, di abolire il Ramadan. Questo non è per il momento né ammesso né considerato parte di una possibile riflessione critica. Né, infine, ha senso porlo tra le opzioni di progresso.
Marco Alloni