Il 25 aprile dei moderati

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Quale valore ha oggi il 25 aprile 1945?

Non c’è molto da “festeggiare” in questo fine aprile 2017. L’ Unione Europea, alla quale l’Italia si aggrappò come un bimbo alle gonne di una vecchia zia, implode. L’euro ha due facce: il raddoppio dei prezzi e la svalutazione dei risparmi all’ingresso, l’incubo di come uscirne un domani senza precipitare nel baratro. La Gran Bretagna è come da secoli: “Rules Britannia”. La Francia, ex grande potenza, è sull’orlo dell’abisso. Carlo Magno? Roncisvalle? Giovanna d’Arco? Napoleone? Morti, sepolti, dimenticati. E il Portogallo? Fatima, un villaggio dal nome arabo, forse è depositaria di un quarto segreto: l’islamizzazione dell’Europa. Francesco dirà. La Germania, infine, è più gonfia che forte: non ha armi vere e, senza quelle, oggi non si conta. Anch’essa ha perduto la seconda Guerra dei Trent’anni, tra il 1914 e il 1945; l’ha persa davvero male, sicuramente molto peggio di noi. Centinaia di migliaia di tedesche dell’est, un tempo avanguardia contro gli slavi, furono stuprate dall’“Armata Rossa”, composta in buona parte di asiatici. Il Mediterraneo è a ferro e fuoco.
Che cosa dunque rappresenta oggi il 25 aprile 1945? Non si “celebra” la “macelleria messicana”, come Ferruccio Parri bollò l’oscena esibizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci, gerarchi e “comparse” di minimo conto, appesi testa all’ingiù a Piazzale Loreto in Milano, aspirante “capitale morale” d’Italia.
Il 25 aprile semmai vien bene per documentare, riflettere e capire. Anzitutto va ricordato che è una data del tutto convenzionale. Berlino cadde prima che la 34^ divisione germanica, in assetto di guerra, si ritirasse dal confine liguro-cuneese verso il campo di raccolta concordato tra tedeschi e anglo-americani con la resa di Caserta, efficace dal 2 maggio; mentre dal 5 nell’Italia settentrionale si insediarono i comandi militari alleati avvertendo che non volevano più cadaveri per le strade. La guerra civile doveva fermarsi quel giorno. Continuò invece alla spicciolata, in modi anche efferati; ma almeno cessarono le esecuzioni arbitrarie e le fucilazioni ordinate da improvvisati “tribunali di guerra”. Due anni dopo una tra le menti più vivide dell’epoca, Dante Livio Bianco, comandante militare delle formazioni “Giustizia e Libertà”, archiviò la guerra partigiana come “grande vacanza”: formula amarissima, elusa dai suoi compagni d’armi.
Quei giorni di fine aprile 1945 segnarono la sconfitta dei “moderati”: l’immensa “area grigia” (formula di Renzo De Felice) che dal settembre 1943 nell’Italia centro-settentrionale era rimasta stretta nella tenaglia della guerra tre anni prima decisa dal governo, come già avevano fatto Salandra e Sonnino nel 1915. Il dramma dei venti mesi successivi, quando l’Italia “era divisa in due” (scrisse Benedetto Croce) non è mai entrato appieno nella coscienza nazionale. Dall’autunno 1944 al maggio 1945 l’“Alta Italia”, cioè le regioni più popolose, produttive e ricche del Paese, fu deliberatamente lasciata dagli anglo-americani al dominio germanico e del suo alleato interno. Che cosa potevano fare i suoi abitanti, chi vi aveva industrie, terre, bestiame, una casa, una famiglia, uno stipendio? Portare tutto all’estero? Dove? Insorgere? Con quali armi? Con quali aiuti? L’Italia settentrionale divenne un immenso “ghetto” sotto regime di occupazione tedesco, velato dalla RSI, e bombardamenti dei “liberatori” che vi fecero almeno 150.000 vittime civili. Effetti collaterali… L’Italia, del resto, era già stata ingannata nel settembre 1943. Certo era necessario abbattere il nazismo, la cui ideologia portante era un miscuglio di miti arcaici, pregiudizi antisemiti (ne erano partecipi tutte le chiese cristiane, cattolica compresa) e ribellione contro la pace cartaginese imposta dai vincitori alla Germania col trattato di Versailles nel giugno 1919. Come si stia male in guerra oggi lo vediamo in televisione. All’epoca gli italiani lo vissero in diretta. C’è poco da festeggiare, dunque. Molto, invece, da studiare per risalire la china, senza complessi d’inferiorità.
Ora l’immensa “area grigia” vuol dire la sua, lontana dagli estremisti che inneggiano alla liberazione dei “palestinesi” per annientare lo Stato di Israele, unica democrazia parlamentare e laica dell’immenso spazio afro-asiatico, e contro quanti pensano di ripopolare l’Italia con turbe di clandestini raccattati in mare e lucrosamente spacciati quali profughi. Ma perché mai ne avremmo davvero bisogno? Se siamo meno numerosi, stiamo più larghi e meglio (poca brigata, vita beata); semmai bisogna “disciplinare” senza tanti complimenti i nativi, italioti dalla condotta spesso pessima ma impuniti per il combinato disposto di norme e incapienza delle carceri.
Dopo decenni di perplessità, quasi di rassegnazione, i “moderati” forse si stanno risollevando da un lungo incubo. Risparmiatori, spolpati da governi inconcludenti e dalla ragnatela della burocrazia parassitica, scendono in campo. Con il voto: l’arma più semplice, limpida e decisiva. è l’ora. L’appuntamento delle votazioni amministrative di giugno è importante per dire se gli italiani vogliono governarsi, se vogliono o no avere finalmente il voto politico.

di Aldo A. Mola

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Aldo Mola
Aldo Alessandro Mola (Cuneo, 1943) dal 1967 ha pubblicato saggi e volumi sulla storia del Partito d'Azione e di Giustizia e Libertà, della massoneria e della monarchia in Italia. Direttore del Centro Giovanni Giolitti (Dronero- Cavour) ha coordinato Il Parlamento italiano, 1861-1994 ( Nuova Cei, 24 voll.). Il suo Giolitti, lo statista della Nuova Italia è nei “Classici della Storia Mondadori”. Tra le opere recenti, Italia, un paese speciale (4 voll.)

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