IL BUCO NERO DELL’EDILIZIA POPOLARE: GIORGIA MELONI CONTRO JOHN MAYNARD KEYNES. La lucidità di Filippo Santelli

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“La storia ha sempre una carta di riserva.”
Federico Caffè, “Dimmi cosa vedi tu da lì. Un romanzo keynesiano”

“Cerco un fantasma nel tramonto di Roma, mentre il secondo inverno dell’era del contagio volge al termine. Lo cerco tra gli spettri della città, eterna perché già morta, nel limbo della stazione Termini. Cerco un fantasma e intanto vedo uomini e donne gravitare come falene intorno alla stazione. Corpi curvi su marciapiedi consumati. Un popolo di senza-casa, senza-rispetto, senza- niente. Ai margini della città, nel cuore della città-morta, vivi…”
“Dimmi cosa vedi tu da lì. Un romanzo keynesiano”

Ci sarà il più grande crac dal venerdì nero del 1929, come ormai sostengo da due mesi su Libertates, e vorrei acquistare dei futures o titoli di Cds sulla scommessa che l’America crollerà. Esattamente tra due settimane, mentre l’Europa è ostaggio di Giorgia Meloni un pò Greta Thunberg che non vuole ratificare il Mes perché ha la sindrome di hybris. Già, ma a quale prezzo… Quindi la speculazione si abbatte sulla Germania, che cerca di salvare la Deutsche Bank e ci saranno rivoluzioni in giro per l’Europa. Vi ricordate Maria Antonietta? “Non hanno pane? Date loro brioches!”. Su “Affari e Finanza” esce un articolo di Maurizio Ricci “Perché i titoli americani possono diventare l’Armaggedon della finanza”; come ho imparato da George Soros che ha reinventato la teoria della riflessività di Karl Popper, la previsione è semplice e fa parte della realtà. L’ostruzionismo dello Speaker della Camera Kevin Mc Carthy al Congresso sull’aumento al tetto del debito per conto di The Donald non è il “primum movens” della destabilizzazione dell’economia americana, ma è compatibile con essa nella stessa misura in cui Hitler era compatibile con la Shoah. In entrambi i casi manca la consapevolezza come spinta all’azione.
E’ lo Zeitgeist a fare l’individuo, o è l’individuo a fare lo Zeitgeist? “L’opera è data dai miracoli del caso”, per dirla alla Honorè de Balzac. Scrive Maurizio Ricci: “La grande crisi prossima ventura è dietro l’angolo. Abbiamo anche la data, è fra due settimane: il 1 giugno, se il Congresso non autorizzerà nuovi debiti, il Tesoro americano avrà finito i soldi e i trucchi contabili per pagare i suoi impegni, dagli stipendi ai dipendenti agli interessi e ai rimborsi sui titoli pubblici. Forse solo un miracolo, pensano già in molti, può evitare l’implosione. Anche un accordo rappezzato all’ultim’ora fra Biden e i repubblicani solo per guadagnare un po’ di tempo, infatti, non impedirebbe a 24.300 miliardi di dollari di titoli pubblici americani in circolazione – l’equivalente di un quarto di tutta l’economia mondiale – di cominciare subito a traballare, evocando l’Armageddon della finanza globale, com’è già stata definita con una immagine forse un po’ consunta, ma stavolta probabilmente giustificata: l’enorme bacino dei titoli emessi dal Tesoro Usa per finanziarsi è, insieme, il lago su cui galleggia la finanza mondiale e l’insostituibile benzina che la fa girare…”.

Se il Congresso autorizzasse nuovi debiti, il Tesoro americano inaugurerebbe il deficit spending. Spesa in disavanzo: un grande successo per l’economia americana. Il successo è l’altra faccia del fallimento. Tuttavia sono davvero pessimista, perché Trump è ostile “diabolicamente” alla spesa in disavanzo che rappresenterebbe il coronamento dell’accordo tra Biden e i repubblicani sul tetto al debito, scommettendo sulla più grande crisi dal ’29 nella cui destabilizzazione avrebbe la strada spianata alla Casa Bianca: a costo della guerra civile? E dell’implosione dell’Europa? Com’era già stato osservato da Ian Buruma in “Psycho Trump”, The Donald è privo di “inside” razionale in senso positivo e negativo. Continua Ricci: “Ecco perché, anche fra i nemici degli Usa, pochi possono rallegrarsi della crisi. Certo non la Cina, seduta su una montagna di 855 miliardi di dollari di titoli americani, custoditi nei registri della sua banca centrale. Ma riguarda quasi tutti i Paesi: più o meno un terzo dello stock di debito americano, ovvero 7.400 miliardi di dollari, sta nei forzieri delle banche centrali, a garantire la solidità delle rispettive monete. Ed è questa funzione di garanzia il punto chiave delle angosce che circondano lo scontro politico sul debito a Washington, non solo fra le autorità monetarie, ma in tutti gli angoli della finanza. Quelli americani sono, infatti, i titoli senza rischio per antonomasia. Ma che succede se il rischio, invece, si materializza, se non come vero e proprio default, anche solo con un declassamento del rating o un semplice prolungarsi dell’incertezza su quotazioni e rimborsi? Quei titoli del Tesoro Usa rappresentano il 50% del collaterale utilizzato dalle banche americane per garantire le loro transazioni. Affari per almeno 1.600 miliardi di dollari, solo nel mondo bancario, si reggono sul pegno a garanzia di titoli Usa che il 1 giugno si potrebbe non sapere più né quanto valgono, né se, come e quando saranno rimborsati.
Non c’è bisogno che la Yellen dichiari davvero bancarotta, basta l’incertezza a impiombare i meccanismi della finanza. Il grande rischio è che i mercati mondiali vadano in panne.
A un anno dalle elezioni, fra un presidente che non può rinunciare ai soldi che finanziano i progetti e le riforme che sostanziano la sua presidenza e una leadership repubblicana ostaggio dell’oltranzismo trumpiano, i margini di compromesso sono, al momento, invisibili…”.

E un presidente che non può rinunciare ai soldi che finanziano i progetti e le riforme che sostanziano la sua presidenza è un presidente che fa deficit spending.
Ma non solo: dicevamo prima che il successo è l’altra faccia del fallimento, ed è un principio cardine delle società anglosassoni: la fantasia di Peter Pan si trasferisce alla realtà. L’ostruzionismo di Trump sul DEFICIT SPENDING è oggettivamente criminogeno: anni fa uscì un testo titolato “The dangereuse case of Donald Trump” a firma di 27 psichiatri americani, ma il freudismo non è valido intrinsecamente; lo aveva già osservato Massimo Riva nella sua biografia su Milosevic.
Da Ricci apprendo, e mi viene in mente l’immortale Henry Kissinger: “L’illegale lo facciamo immediatamente. L’incostituzionale ci mettiamo un po’ di più.”: “E in mancanza di sbocchi politici, sono partiti i tentativi di aggirare l’ostacolo. Il più semplice è dichiarare incostituzionale – come probabilmente è – un tetto al debito. Il difetto – lo sanno anche alla Casa Bianca – è il trasferimento della controversia ai Tribunali e, dunque, il prolungarsi della malefica incertezza sul destino dei prossimi titoli del Tesoro in scadenza e da rimborsare. E, allora è partita, anche fra economisti serissimi, la caccia alle ricette di fantasia, magari a costo di far passare gli Usa per un Paese da operetta. Due su tutte: la moneta miracolosa e il titolo-meraviglia. Se sembrano robe da Peter Pan è perché, in effetti, starebbero bene sull’Isola che non c’è (mi viene in mente lo psicanalista lacaniano Marco Boreani: il desiderio viene dalla mancanza, non dal possesso, ndr).
Il soldino miracoloso è stato chiamato “la moneta di platino”: il platino non c’entra, ma il trucco è che la legge consente al Tesoro di emettere monete di platino. Questa moneta dal valore facciale da mille miliardi di dollari viene depositata sul conto del Tesoro presso la banca centrale.
Poi, lo stesso Tesoro comincia a ritirare via via quei mille miliardi per pagare le sue spese.
Il brusco aumento di liquidità può alimentare l’inflazione, ma la Fed è in grado di sterilizzarne gli effetti, con una tradizionale manovra di vendita di titoli (ne ha in cassa per 5 mila miliardi) che rastrellino la liquidità in eccesso…”. Qui siamo nella Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith “etsi Deus daretur”, che sospende in quanto tale la metafisica kantiana. Houston, abbiamo un problema: la “moneta di platino” permetterebbe si al Tesoro di ritirare via via quei mille miliardi per pagare le sue spese, ma poi si dovrebbe fare la spesa in disavanzo. Ma per poter fare la spesa in disavanzo devono crollare tutti i mercati; distruzione creatrice+spesa in disavanzo: ecco la soluzione…
Perché vanno pagati gli stipendi ai dipendenti pubblici, ai medici, agli insegnanti, ecc. e la gente non può rimanere senza soldi. Il deficit spending è nelle “realtà oggettive”. Sapete come andrà a finire? Ci sarà la guerra civile. Perché la scommessa di Trump è che la gente rimarrà senza soldi, identificando “proiettivamente” le sue vicissitudini con il destino di 200 milioni di americani.
Mai come in questo momento la Mano Invisibile e Belzebù si stanno fronteggiando senza esclusione di colpi; ma l’egoismo è un’istanza superiore alla Ragione, e l’Illuminismo sta finendo.
Comunque, la fantasia al potere è una necessità – non una bizzarria per visionari isolati – perché lo status quo non è più un’opzione, e infatti Maurizio Ricci osserva: “… A nessun politico piace passare per Peter Pan, ma, fra un paio di settimane, i miracoli potrebbero diventare indispensabili.”
Questione di Zeitgeist. Su “Affari e Finanza” de “la Repubblica” del 15 maggio, è uscita una riflessione formidabile di Marco Panara “La riforma possibile della Pubblica amministrazione: “Dopo la Seconda Guerra Mondiale lo Stato, cui erano affidate essenzialmente la garanzia della legalità e la sicurezza pubblica, assume nuovi compiti e il suo ruolo da “regolatore” diventa “funzionale”. Le amministrazioni si devono adeguare e in tutti i Paesi avanzati parte un ciclo di riforme che le trasformerà profondamente. In molti casi con successo, in Italia no.”
In Inghilterra c’era Clement Attle, in Italia i “cavalli di razza”.
E’ singolare come questa riflessione sia stata fatta da Piero Ottone già nel 1980 nel suo master piece “Potere economico – La scienza della miseria spiegata al popolo”:
“L’Italia ha “saltato” Keynes…”; Mussolini preferì le Corporazioni alla spesa in disavanzo temendo “feedback” di tipo liberista che non erano compatibili con il Fascismo; Aldo Moro, l’Antelope Kobbler, preferì incassare la tangente dalla Lockheed Corporation alla realizzazione di un grande piano di investimenti pubblici.
Continuava Panara: “I tentativi si sono susseguiti ma i risultati non sono stati soddisfacenti. Le ragioni degli insuccessi sono che si è cercato di curare i sintomi senza affrontare il problema strutturale e che la cultura amministrativa che ha dettato le riforme è proprio quella che si dovrebbe drasticamente riformare. Ci sono alcuni punti chiave, uno dei quali è l’organizzazione gerarchica e non per procedure, che frammenta i processi e non consente una efficace digitalizzazione; un terzo è il reclutamento e la formazione. La lista è lunga. Consapevoli o dei problemi da affrontare e delle soluzioni opportune, forse una svolta sarebbe possibile. Se davvero lo volessimo.”
Ma non lo vogliono, caro Panara.
E adesso ne fornisco la “smoking gun”. Nel suo bellissimo articolo “Il buco nero dell’edilizia popolare – I diritti negati”, il giornalista di talento Filippo Santelli scrive: “Si chiama “primo accesso”, ma per Giancarlo Fabrizi e sua madre Sabina significa l’opposto. Vuol dire che martedì 20 giugno, alle 08.00, l’ufficiale giudiziario suonerà alla porta del loro appartamento di Ponte di Nona, estrema periferia di Roma, per notificare lo sfratto. “Gli spiegherò che non possiamo andare da nessuna parte”, dice Fabrizi, 69 anni. Vivono lì dal 2015, grazie ai 540 euro di affitto pagati per loro dal fondo casa del Comune. Ma da dicembre, dopo che il proprietario ha deciso di non rinnovare, il municipio ha smesso di versare e sono diventati morosi. Ma è bruttissimo per la lentezza con cui scorre e la prospettiva di finire per strada: quando l’ufficiale suonerà la seconda volta potrebbe essere accompagnato dagli agenti. L’emergenza abitativa dell’Italia si misura in questa differenza: tra il numero crescente di persone che non possono permettersi una casa e la capacità sempre minore dello Stato di garantirgliela”. Lo Stato ha sempre minore capacità di garantire una casa perché non fa deficit spending.
Apprendo da “la Repubblica”: “Un’analisi del 2020 di Nomisma e Federcasa stimava un milione e mezzo di famiglie in disagio abitativo “grave” o “acuto”: anziani, mamme sole con figli, disoccupati, disabili, famiglie con un solo reddito, tanti stranieri, soprattutto in affitto ai margini delle città, con il canone che mangia buona parte delle entrate. Quando ci sono. Ma la situazione sta peggiorando, ora che gli aiuti Covid finiscono, gli sfratti sospesi ripartono e il governo Meloni, alla ricerca di risorse per le sue promesse elettorali, ha deciso di non rifinanziare il fondo affitti che sosteneva migliaia di persone in difficoltà. “Molti dovranno decidere se andare in morosità o mangiare”, sintetizza il segretario del Sunia Stefano Chiappelli. A fronte di questo bisogno le case popolari sono appena 800 mila, tre quarti di proprietà delle Regioni e il resto dei Comuni: circa il 3% delle abitazioni italiane, uno dei dati più bassi in Europa. E anche qui la tendenza peggiora: sempre di più restano vuote, oltre una su dieci, vista la cronica assenza di risorse per manutenzione e ristrutturazioni. Di quelle che restano, una manciata – il 2% – viene riassegnata ogni anno a nuovi inquilini. Il risultato, stima un addetto ai lavori, è che almeno 400 mila restano in lista d’attesa, senza contare chi neppure presenta domanda, scoraggiato o invisibile. ”
Mentre Gianni Barbacetto auspica una “rivolta francese” a Milano: pensa di guidarla nella sua antica fedeltà al Patto Atlantico?

Un altro colpo di bazooka a John Maynard Keynes è stato sparato non da Margaret Thatcher che non abolì mai l’assistenza ai poveri (sic!) come emerge dal libro stesso della Iron Lady “I miei anni a Downing Street”, ma dal governo Meloni che non è al livello della signora di ferro:

“L’eccezione italiana.
E così il nodo di un’edilizia pubblica lasciata per decenni a se stessa arriva al pettine.
All’inizio degli anni ’90 il Paese dei tanti proprietari di casa, forse illudendosi non servisse più, abolì il Gescal, il fondo che finanziava le abitazioni popolari con trattenute in buste paga.
Patrimonio e competenze furono trasferiti alle Regioni, le cui Aziende casa avrebbero dovuto sostenersi grazie ai canoni. Un’eccezione rispetto al resto d’Europa, dove si parte valutando i costi di gestione da un lato e stabilendo le tariffe per l’utenza dall’altro, con lo Stato che mette la differenza. Eccezione diventata circolo vizioso: man mano che gli inquilini sono diventati più poveri, il canone medio si è abbassato e le morosità sono salite (oggi al 23%), costringendo gli enti a vendere case per salvare i conti. Ma finendo per esacerbare il problema. “Bisogna realizzare almeno 200 mila unità per rispondere a una domanda sociale drammaticamente cresciuta”, stima Luca Talluri, presidente di Casa Spa Firenze.
“E bisogna farlo anche per la tenuta del sistema pubblico, a meno che non si voglia rischiare la privatizzazione nel giro di qualche anno”.
Infine, l’ottimo Santelli tocca il focus di una questione che resta aperta da cinquant’anni e passa (sic!): “… Oltre che economico, il fallimento è nel modello: nato non per occuparsi di persone, bensì per gestire un’infrastruttura – muri – e ancora di competenza di quel ministero.”

Infatti, recentemente, l’ex collaboratore di giustizia Antonio Mancini in occasione della presentazione del suo libro scritto a quattro mani con Federica Sciarelli “Con il sangue agli occhi”, ha detto a Fasanello rispetto agli anni Settanta, dove Moro non aveva la mentalità di Francois Mitterrand: “… A Roma c’erano le modernità. Quindi spese ancora maggiori, stavamo peggio io e la mia famiglia dopo aver lasciato l’Abruzzo. Però da bambino io notavo che c’era quel che io definisco il blocco di mio padre che si alzavano alla mattina alle 5.00 e che la sera mangiavano il dado star e personaggi vestiti bene, con i soldi in tasca e le macchine di lusso… E io da allora ho iniziato a delinquere. Io non do colpa alla mia società, è la mia scelta; se poi qualcuno ci legge che la società avrebbe potuto darmi una mano, bene. Sennò, la colpa è tutta mia”. E’ un’analisi che fa riflettere; Antonio Mancini e Mario Moretti sono due facce della stessa medaglia.
Il Pnrr è un “case study” ormai per segnare il passaggio del Belpaese da società arretrata a società avanzata, ma continua ad esserci una velocità asimmetrica tra le due realtà, e il divario crea un’emergenza sociale potenzialmente grave. E’ un problema culturale, non economico. Ma poi diventa economico. Sempre dalla cronaca di Santelli: “… Non è un problema di soldi – dice Saporito alla Bocconi – abbiamo 200 miliardi e ne abbiamo dati 3 alla casa, dedicandone di più agli stadi. Senza contare tutti i bonus edilizi. Un’occasione mancata per assenza di visione, perché le politiche abitative sono senza mamma e papà”. Repetita iuvant: non è un problema di soldi. Eh no, è un problema di deficit spending. E non c’è la volontà politica di farlo all’interno di quello che io chiamo l’orticello piccolo-borghese. Attenzione, il tappo sta per saltare: Santelli conclude: “La legge della casa. E’ nelle grandi città che i fronti dell’emergenza casa stanno esplodendo: i più poveri, che rischiano di non avere un tetto, gli studenti in tenda, la classe media che non riesce più a comprare. Non a caso undici assessori alla Casa di altrettante amministrazioni di centrosinistra hanno siglato un manifesto per il rilancio delle politiche abitative… Quanto al diritto all’abitare però, l’unico intervento è stato prosciugare da 300 milioni a zero il fondo per affitti e morosità
incolpevole… “. (Lo ha detto bene Giorgio Gori: la povertà non è una colpa, ndr)
Cioè, il contrario di quello che doveva essere fatto. Una velocità asimmetrica rispetto alla necessità. Un rimedio peggiore del male.
Scrive Gianni Barbacetto, con una mentalità alla Licio Gelli: “Ho fatto un sogno: una rivolta “alla francese” per salvare Milano. Piazze piene come quelle di Parigi, o di Tel Aviv, di ragazzi e ragazze, giovani e adulti, donne e uomini, in centro e nelle periferie, per chiedere di buttare nel Naviglio il “Modello Milano” e ripartire con una politica che restituisca ai cittadini la loro città, ora presa in ostaggio dai padroni dell’immobiliare…”; Barbacetto è libero di sognare, tuttavia la soluzione non è la ghigliottina ma Roosevelt “made in Italy”, proprio allo scopo di prevenire la violenza, non di favorirla (sic!).

Ps – Infine, vorrei fare un’osservazione sul caso del dossieraggio “contra-personam” nei confronti di Giorgia Meloni molto all’americana che in questi giorni “la Repubblica” di Maurizio Molinari e “Domani” di Carlo De Benedetti stanno portando avanti.
E’ un ricatto alla luce del Sole che i due quotidiani perseguono “reo confessi”, con un comportamento tecnicamente piduista (nella migliore tradizione di Mino Pecorelli): andiamo a prelevare gli scheletri nascosti negli armadi di famiglia, se non vuoi ratificare il Mes. Ecco che la “sindrome di hybris” si rovescia in tragedia, ma “in guerra non si fanno prigionieri”: bloccare la ratifica del Fondo Salva-Stati in Europa è una follia (e l’Ingegnere di Ivrea sospende le “regole del gioco” violando il buon costume; il fine giustifica i mezzi). Ah, una piccola curiosità: Raffaele Matano è identico a Lele Mora, socio in affari della madre di Meloni nella Lazio Consulting srl, Mr Partners, Gruppo Immobiliare Romano specializzato in bancarotta fraudolenta.
Ma non siamo appunto arrivati alla fine dell’Illuminismo?

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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