IL CASO MATTEI E LA CRISI DI CUBA: L’OCCIDENTE AL TRAMONTO: Jfk e Mattei non erano compatibili con la tenuta dell’ordine mondiale

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“… Erano scoppiate le ostilità, nell’autunno del 1973, fra Israele e gli arabi, e i produttori di petrolio del Medio Oriente avevano deciso di dare scacco agli Stati Uniti e all’Europa, prima sospendendo le esportazioni, poi quadruplicando il prezzo del greggio. Lo choc fu terribile. La vulnerabilità dei paesi occidentali fu rivelata all’improvviso, lo sviluppo economico imperniato sull’energia a buon mercato rischiò di crollare. Per un paio di secoli, gli europei avevano vissuto bene, sfruttando le colonie sparse nel mondo; negli ultimi anni avevano liberato le colonie, ma credevano di continuare a vivere bene, come prima, ricevendo a buon mercato le materie prime; a un tratto, alcuni paesi ex coloniali li richiamavano alla realtà. Yamani, abile negoziatore arabo, pronunciò frasi di tenore biblico contro le città dell’Occidente scintillanti di luci (accese col petrolio a buon mercato), immerse nel lusso e peccaminose. Proveniente dal deserto, la voce degli arabi annunciava, come quella del profeta, che era tempo di cambiar vita. Mattei lo aveva previsto. Egli intuiva che un giorno sarebbe scoppiata la crisi del petrolio, e cercava di scongiurarla, istituendo rapporti diversi coi produttori. Cefis aveva disfatto l’opera di Mattei, si era schierato con coloro che sfruttavano il petrolio, aveva abbandonato il disegno di una relazione speciale con gli arabi e con i nordafricani. Ma adesso era tardi per tornare a quei dibattiti. La guerra del Kippur aveva conseguenze immediate in Occidente, bisognava riesaminare le proprie strategie…”
Piero Ottone, “Il gioco dei potenti”

La guerra all’Ucraina e la crisi missilistica di Cuba a un passo dall’Olocausto nucleare sono due facce della stessa medaglia. Ci sono gli echi di Oswald Spengler nell’analisi di Andrea Purgatori su Atlantide “1962, il caso Mattei, missili e petrolio”, che mi ricorda Corrado Augias con Telefono Giallo: due cronisti di razza protetti dal trucco dell’icona che maschera la persona, e pieni di difetti visti da vicino; mi chiedo anzi se non siano personaggi da American Tabloid di James Ellroy. Diffidare delle icone, è sempre una buona regola: “Buonasera, comincia una nuova stagione di Atlantide e comincia con due gialli di sessant’anni fa che sono incredibilmente attuali: la morte di Enrico Mattei, padre padrone fondatore dell’Eni e la crisi dei missili a Cuba che stava portando il mondo verso la catastrofe nucleare. Sono due storie incredibilmente del presente, attuali che c’aiutano a capire quello che sta succedendo sul piano dell’energia e sul piano della guerra. Petrolio e missili, con il magistrato Vincenzo Calia, con l’analista geopolitico Dario Fabbri e con lo storico Luciano Canfora…”.

Chiariamo il contesto. Non senza riportare un passaggio cruciale del discorso in Parlamento della premier Giorgia Meloni, che si è identificata con la retorica mussoliniana di Mattei: l’indipendenza energetica dell’Italia, il nostro “posto al sole” contro la “demoplutocrazia reazionaria di Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia” (peccato che l’Eni era in rosso per 600 miliardi, non 1000 miliardi al contrario di quello che diceva, con la consueta esagerazione da contaballe di classe, Montanelli!): “Il prossimo 27 ottobre ricorrerà il sessantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, un grande italiano tra gli artefici della ricostruzione postbellica; capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo; ecco, io credo che l’Italia debba farsi promotrice di un piano Mattei per l’Africa tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista soprattutto nell’area sub-sahariana. E ci piacerebbe così recuperare, finalmente, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il ruolo strategico dell’Italia nel Mediterraneo.” Devo dire che, contrariamente a quanto scritto poco prima, la Meloni ha detto delle cose in parte vere e importanti (e le critiche della Stefania Limiti sul Fatto Quotidiano lasciano il tempo che trovano): la proposta della “Fitfty-fifty” dell’ingegner Mattei era rivoluzionaria, e fu un grave errore che si deve alla miopia dei rappresentanti delle Sette Sorelle se non fu realizzata, con il risultato di aver concorso a determinare la crisi del Kippur del ’73; la decadenza del capitalismo americano era nell’idiosincrasia alla genialità visionaria di Mattei e nell’occupazione di Charles Poletti in Sicilia con lo sbarco degli angloamericani nel settembre del 1943.
Più Vito Genovese che Adam Smith, per intendersi. Non laissez-faire, ma crisi del laissez-faire.
Ma è stato un azzardo irresponsabile finanziare il terrorismo dell’Algeria contro la Francia, provocando la nascita dell’Isis: il commissario liquidatore dell’Agip viveva tutto come se fosse un gioco calandosi nel ruolo di James Bond, e si compiaceva che la stampa americana lo definiva “l’uomo più potente d’Italia dopo Giulio Cesare”. Inoltre, nella pianura padana non venne scoperto petrolio ma il metano, scambiato per petrolio: un imbroglio in piena regola per aggiudicarsi i lavori di trivellazione, con gravi distorsioni al giuoco della libera iniziativa che era così falsato in partenza. Ma c’è un altro passaggio dell’analisi di Purgatori meritevole di nota: Mattei muore il 27 ottobre 1962, precipitando con l’aereo Morane-Saulnier a Bascapè. La sua eliminazione fisica – provata dal monumentale lavoro investigativo dell’attuale sostituto procuratore generale del Tribunale di Milano Vincenzo Calia (che aprì l’indagine nel 1994 e la chiuse nel 2003) – era compatibile con la fine della crisi di Cuba. Tredici giorni per il mondo intero con il fiato sospeso. In altri termini, la “covert action” contro Mattei sui cieli di Pavia in aereo con Irnerio Bertuzzi e il giornalista William Mc Hale non era il “primum movens” del superamento della crisi di Cuba, ma era compatibile con la risoluzione della stessa. Verità amara da digerire per l’intellighencia del Belpaese. Probabilmente l’ordine di uccidere Mattei fu dato da Robert Mac Namara con il consenso tacito di John Fitzgerald Kennedy a Thomas Karamessines, capo stazione della Cia a Roma, che a sua volta contattò la manovalanza di Stefano Bontate in Sicilia: “Dobbiamo contemplare la possibilità di usare metodi non ortodossi nei confronti di Enrico Mattei”.
Non dobbiamo scandalizzarci “kantianamente”, e gridare alla cospirazione demoplutocratica contro l’Italia; la riflessione dello storico Luciano Canfora (più colto che intelligente) è logicamente inattaccabile: “… La crisi (di Cuba, ndr) raggiunse il vertice il 22 ottobre del 1962, cioè quattro-cinque giorni dopo la rivelazione al mondo; in quel giorno, il 22 di ottobre, il presidente Kennedy pronunciò un discorso alla radio e alla televisione che fu trasmesso in tutto il mondo, in cui poneva un ultimatum sostanzialmente al leader sovietico dell’epoca, Nikita Krusciov, e cioè ritirare i missili o passaggio a una fase direttamente bellica; questo era un ultimatum senza via d’uscita. Sembrava, parve a tutti i commentatori internazionali, che non ci fosse altra possibilità che lo scoppio di un conflitto nucleare. Un conflitto nucleare che sarebbe stato in realtà catastrofico, non soltanto nell’area dove più direttamente le due potenze si scontravano, ma anche – tutti lo capivano rapidamente – in Europa, perché la ragione per la quale i missili erano stati collocati dai sovietici nell’isola di Cuba era la seguente: che cioè, qualche tempo prima la Nato aveva piazzato dei missili a lunga gittata non solo in Italia, Sicilia e Puglia, ma in Turchia, cioè a due passi dal territorio dell’Unione Sovietica; quindi la risposta diciamo della parte sovietica era stata: anche noi piazziamo dei missili a breve distanza dal vostro territorio. Ma proprio la presenza, in Turchia, e in Italia meridionale, di queste basi missilistiche americane implicava che – ovviamente – un conflitto avrebbe coinvolto anche i nostri paesi europei, l’Italia in prima fila…”.
Ecco perché Mattei deve morire. “In guerra non si fanno prigionieri”. Ma la sua morte lo ha salvato dalla probabile rovina successiva: i debiti, la corruzione di Tangentopoli e anche i rapporti con la mafia; così come gli attentati alla Standa consegneranno Raul Gardini nelle mani di Totò Riina, gli attentati all’Eni portano il marchigiano Mattei nelle “liaison dangereuses” di Graziano Verzotto fino ad un probabile incontro con il boss Giuseppe Di Cristina. Mattei inghiottito dai buchi neri di Catania, tra gli uomini d’onore.
Scrive Giuseppe Carlo Marino nel libro I padrini – Da Vito Cascio Ferro a Lucky Luciano, da Calogero Vizzini a Stefano Bontate fatti, segreti, e testimonianze di Cosa Nostra attraverso le sconcertanti biografie dei suoi protagonisti”, all’interno del capitolo “La bontà dei Bontate”: “… Va anche rilevato, a proposito dei probabili “servizi” resi specificamente alla Cia, che il “principe di Villagrazia” dovette avere un qualche ruolo nell’eliminazione del presidente dell’Eni Enrico Mattei che – stando alle rivelazioni dei “collaboratori di giustizia” – si era disintegrato, il 27 ottobre 1962, con il suo jet personale, nel cielo di Bescapè, nelle vicinanze di Milano, per un “incidente” accuratamente preparato nell’aeroporto di Catania dal capomafia Giuseppe Di Cristina, amico fraterno e seguace del Bontate, su un mandato dei Servizi segreti americani, in funzione delle grandi compagnie (le “sette sorelle”). E’ probabile che, in continuità con quella vicenda, un analogo ruolo fosse poi spettato, direttamente o indirettamente, allo stesso Bontate in occasione della misteriosa sparizione (16 settembre 1970), e successiva eliminazione, del coraggioso giornalista de “L’ora” di Palermo Mauro De Mauro, impegnato in un’inchiesta sul “caso Mattei”.
Sui fatti, sono da ricordare le numerose e circostanziate informazioni fornite dai “pentiti” e, in particolare da Tommaso Buscetta.
“Il primo delitto eccellente di carattere politico ordinato dalla commissione di Cosa Nostra fu quello del presidente dell’ENI Enrico Mattei, ucciso nell’ottobre 1962. L’incarico di organizzare materialmente l’attentato fu dato a Salvatore Greco “cicchitedu”, il quale si avvalse della collaborazione di uomini d’onore di spicco tra i quali figura Stefano Bontate, il quale successivamente mi riferì che Verzotto Graziano (allora rappresentante dell’Agip in Sicilia) stabilì un contatto tra Cosa Nostra e Mattei, pur senza conoscere il reale motivo per cui gli era stato richiesto quel favore. Mattei fu invitato a partecipare ad una battuta di caccia, sport che egli amava molto, e durante la battuta di caccia il suo aereo fu manomesso o vi fu occultato un qualche ordigno esplosivo a tempo (non ho mai saputo nulla di preciso a riguardo) da parte di persone la cui identità non ho mai conosciuto, che operarono sfuggendo alla vigilanza esistente nell’aeroporto di Catania. Penso di poter dire, anzi, che sulle modalità operative dell’attentato nessun uomo d’onore – ad eccezione degli ignoti esecutori materiali – abbia mai saputo la verità (Buscetta, interrogatorio, Verb. Int., 1994).”

Rimane un po’ dubbia la retorica antiamericana di cui è intrisa la versione di Purgatori, nel suo “storytelling purgatoriano” indubbiamente efficace: la ricostruzione postbellica sfociata nel “miracolo economico” sarebbe stata tutta sbilanciata – nelle concessioni senza gara – a favore degli americani; quando invece è più corretto osservare che le forze alleate erano disarmate dalle lungaggini di una burocrazia così simile all’Urss, che ostruivano le procedure del “free trade” in un’Italia da rifare, come succede oggi con il Pnrr.
Agli Usa, forse, non si perdona di aver guidato la Liberazione dell’Italia.
Scrisse Piero Ottone nel libro Il gioco dei potenti. Grandezze e debolezze, stile e mancanza di stile di quelli che contano:… Gli americani, a parte il non trascurabile fatto che avevano vinto la guerra, si trovavano in posizione di forza, perché le loro convinzioni ideologiche, sincere e profonde, coincidevano con i loro interessi. La coincidenza di interessi e di idee forma di solito una combinazione irresistibile. Le autorità di occupazione erano risolute a restituire l’economia italiana al libero giuoco dell’iniziativa privata, spazzando via ogni eredità del dirigismo fascista; e questa era l’ideologia. I petrolieri della Esso e della Gulf ritenevano, da parte loro, che l’Italia potesse diventare nel giro di qualche anno un florido mercato; e questo era l’interesse. Poi c’era anche una naturale tendenza a un comportamento sbrigativo, un poco sprezzante di fronte alle esitazioni e all’inettitudine del potere pubblico; l’Italia non ha mai brillato per la snellezza delle procedure nel settore statale, si può immaginare come funzionasse in quei primi mesi dopo la guerra. Gli americani ci trattavano in modo sommario. Agli italiani sembrava di essere declassati, in certi momenti, allo stato di colonia. Ogni tendenza verso l’orrenda strada della nazionalizzazione doveva essere combattuta. Gli americani avevano la sensazione che certi gruppi politici avessero tentazioni del genere: specie nei settori così detti strategici, quindi anche nel settore dell’energia. Quella piccola cosa che era l’AGIP, quello sconosciuto signore che era Mattei potevano fare parte dei sintomi molesti della generale tendenza verso le ingerenze statali. Conveniva tenerli d’occhio. Mattei, visto dalla prospettiva americana, apparteneva alla categoria di uomini pericolosi, soprattutto pericolosi per il loro stesso paese, ed era giusto ostacolarlo, come sarebbe poi stato ostacolato Mossadeq, perché nazionalizzava il petrolio in Persia, o Nasser, perché nazionalizzava il canale di Suez, o Castro, perchè nazionalizzava lo zucchero. Già allora, con la sua politica, con le sue azioni, Mattei collocava l’Italia, senza rendersene conto, fra le nazioni del Terzo Mondo, fra le nazioni nullatenenti; di fronte agli haves, ci trovavamo fra gli havenots…”.

Infine, è interessante chiarire come nasce la crisi dei missili di Cuba, cioè la III guerra sfiorata.
E qui, ci viene di nuovo in aiuto Giuseppe Carlo Marino: John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente statunitense, era figlio di Joseph Patrick Kennedy; il destino di Jfk era segnato. Un uomo che non poteva dire di no a suo padre, ed entrò in politica solo perché il fratello Joe era caduto in guerra. E c’erano le impronte di Cosa Nostra nella fortuna immensa – 250 milioni di dollari – del “figlio di puttana” della Sec, come lo chiamava Roosevelt: “L’operazione “Vespri siciliani” – Nel quadro di eventi segnato dalla grande crisi che dal 1929 sconvolse l’economia e la società degli Stati Uniti facendo dubitare, nel mondo, delle stesse sorti del capitalismo, Lucky Luciano conobbe il meglio e il peggio della sua vita: il successo negli “affari”, la perfetta realizzazione di un suo originale progetto… (la fondazione dell’assetto gerarchico di Cosa Nostra, ndr) per dominare sulla malavita con l’indiretto concorso della “legalità”, il prestigio di boss incontestato e geniale, la “persecuzione” di un intransigente magistrato e gli infortuni con la polizia e con la giustizia che decisero di una sua lunga detenzione a Sing Sing, ma anche la ininterrotta capacità di imporsi, persino da carcerato, in un sistema di relazioni di alto livello che avrebbero reso tanto rilevante quanto misteriosa la sua influenza sulla grande politica e persino sui destini militari degli States.”.
Non è improprio affermare, come è stato notato sia dal docente siciliano di Storia contemporanea che da Oliver Stone, che Lucky Luciano sfiorò Roosevelt senza interloquire alla pari con lui: “Per la biografia del personaggio, si può anticipare il bilancio di quella sua complessa esperienza criminale, avvertendo che sarebbe stata un’esperienza destinata comunque a concludersi in attivo a dispetto di qualche severo colpo ricevuto dalla Legge.
Per cogliere i motivi di un finale così sorprendente occorrerebbe, in via generale, fare riferimento alla particolare dinamica della storia americana in anni nei quali sarebbe diventata essenziale e salvifica per il sistema, a fronte della grande crisi, una radicale ristrutturazione dell’economia e della società su basi di massa sotto la direzione dello Stato (il New Deal del presidente Roosevelt); anni, quelli, dominati dal partito democratico che – oltre ad avvalersi dei finanziamenti di assai spregiudicati business-men (per esempio, i sedici milioni di dollari investiti da Joe Kennedy nella campagna elettorale del 1932) – riceveva una parte importante della sua forza elettorale dalle comunità popolari degli immigrati e soprattutto dai sindacati operai i quali, a loro volta, erano inclini a consegnare l’esercizio del loro potere contrattuale alle capacità organizzative e ai metodi di pressione e di “persuasione” di un personale di chiara marca mafiosa…”. Gli irlandesi pagarono “… i conti di un’acuta inimicizia, risalente ai tempi del proibizionismo, tra Lucky e Joe Kennedy, quest’ultimo nel frattempo inseritosi, fino a un’imponente autorevolezza, nei ranghi dell’alta società e prodigiosamente arricchitosi, ormai da business-man miliardario in perfetta sintonia con la legge, nel settore delle assicurazioni a New York e in quello del cinema a Hollywood…”.
Orbene, se è vero che Joe Kennedy è stato appena più abile di Lucky Luciano – un criminale travestito da persona “perbene” –, a pagarne il prezzo è stato invece Jfk.
Uscito vincente alla nomination per il Partito Democratico contro Humprey nel luglio del 1960, Jack incontrò segretamente il direttore della CIA Allen Dulles, ex legale di Lucky Luciano, a Hyannis Port nella tenuta dei Kennedy proponendogli un’estorsione: il candidato democratico avrebbe dovuto accettare di sottoscrivere uno sbarco clandestino di 1500 esuli cubani anticastristi – i peggiori criminali in circolazione –, altrimenti Dulles avrebbe pubblicato un dossier minuzioso sulle attività del padre. Un ricatto che è alla base dell’elezione di Jack alla Presidenza degli Stati Uniti, con tanto di rivelazione di segreti di Stato – ipotesi confermata dal giurista Ferdinando Cionti –, dello sbarco alla Baia dei Porci il 17 aprile 1961 e della tensione di Cuba: Nikita Krusciov, che non era pazzo, piazzò le testate nucleari all’Avana per legittima difesa nel cosiddetto “principio di Archimede”.
John Kennedy e Enrico Mattei, “ogni uomo ha un solo destino” per citare Vito Andolini: entrambi assassinati dalla mafia, e – visti da vicino – due “praticoni”, due uomini d’azione che avevano fatto il passo più lungo della gamba, il cui bilancio complessivamente mediocre è stato oscurato dal processo di iconizzazione cui sono andati incontro.
Addirittura, dal libro di Gianni Bisiach Il Presidente – La lunga storia di una breve vita emerge che Jfk aveva intrapreso nel novembre del ’63 colloqui con Fidel Castro senza informarlo delle attività che la CIA pianificava contro di lui (sic!), pur essendone a conoscenza: qual era il suo statuto di salute mentale? La sua tossicomania era compatibile con l’isolamento dell’Establishment di cui parla James Ellroy: un presidente unfit lo lead United States.
Resta da capire se gli States siano alla vigilia della comparsa di un cesarismo fascista, lo stadio finale di una civiltà, e se la pericolosità di Trump – un po’ in galera un po’ libero – coincide con la fine della democrazia americana.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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