Un libro sui rapporti tra mafia e nomenklatura comunista
“Il viaggio di Falcone a Mosca”, firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov (Mondadori, euro 20, pagine 156) è destinato a restare fra i saggi capitali sul comunismo, non solo sovietico. Perché riscrive una celebre definizione di Marx, “l’ideologia è la falsa coscienza della classe al potere” nel seguente modo: “l’ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere”.
L’immagine degli ultimi giorni dell’Unione Sovietica e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale “Oro da Mosca”, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie dominato dal crimine.
Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: la criminalità organizzata, prima sotto le insegne della falce e martello, si strappa dopo il crollo dell’Urss delle insegne di partito e si allea con i malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York.
I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all’estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli – primo fra tutti il Pci – e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l’ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri – di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello – e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali.
E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all’estero. E’ Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un’affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l’altro il compito di accertare se, nell’ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa». A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'”oro da Mosca”, volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.
Tutto, o quasi, oggi si conosce sull’identità degli esecutori. Ma l’attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito sospetta la sua matrice. Effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Gli attentatori hanno raggiunto «l’obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».
L’«oro del Pcus» svanirà poi nel nulla, in un vorticoso valzer d’investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie.
E l’insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell’Urss rimasti all’estero – il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici – diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.
Dario Fertilio