Ma il nesso tra malattia mentale e leadership politica c’è
Era il segretario Dc l’Antelope Cobbler
La superiorità di Liliana Dell’Osso su Giovanni Battista Cassano è un fatto
Il 16 marzo 1978 Aldo Moro venne rapito dalle Brigate Rosse: la primavera è pericolosa per i
ciclotimici
La sindrome di Stoccolma di Moro con i terroristi: ne parlarono Franco Ferracuti e Steve Pieczenick
“Privare la magia del suo mistero sarebbe assurdo come togliere il suono alla musica”
Orson Welles
“… Ma se Moro fosse tornato in politica dopo aver costretto lo Stato a prostituirsi, a inginocchiarsi di fronte ai terroristi, avrebbe potuto restarci? Vabbè, siamo in Italia. I terroristi avrebbero vinto. Cosa diventava? Il braccio politico del terrorismo?”
Indro Montanelli ad Alain Elkann, La storia d’Italia
“Quel che è certo è che Steve Pieczenik condusse in porto la più grande operazione di guerra
psicologica dal 1945 ad oggi”
Luigi Ciampoli, procuratore generale di Roma
A conclusione del Romanzo Quirinale dei mesi scorsi che ha visto la contrapposizione muscolare tra Mr. Wolf e il Caimano risoltasi nel tertium datur di Sergio Mattarella, non si può prescindere dall’affaire Moro che di quella maledizione è stato l’inizio nel 44esimo anniversario di uno dei più gravi delitti politici del xx secolo: il 16 marzo 1978 venne rapito, in un raffinato sequestro di persona da parte delle Brigate Rosse – con la strage della scorta in Via Fani colpita con diabolica precisione – il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro, che si stava recando alla Camera dei Deputati per chiedere e ottenere l’assenso dei Comunisti Italiani alla formazione del primo governo di solidarietà nazionale; Moro, uomo complicatissimo, era stato lo stratega con l’appoggio di Andreotti e Cossiga tra gli altri di un abilissimo disegno che portava il Partito Comunista Italiano a rinunciare – in cambio del suo concorso esterno ad un governo democristiano che ne prevedeva l’ingresso – all’”opzione violenta” della conquista del potere in chiave leninista: Lenin rimaneva pur sempre nel ’78 il punto di riferimento ambiguamente ideologico del Pci, che ora si emancipava per la prima volta nella sua storia da questo imbarazzante condizionamento. Ma non in maniera incruenta. Fu un capolavoro di Moro, che infatti era il candidato in pectore alla Presidenza della Repubblica: le Br, partito rivoluzionario della lotta armata, lo sequestrano con un’azione spettacolare che neutralizza sul posto i cinque agenti della scorta a Roma, proprio mentre egli si sta recando in Parlamento a realizzare – con successo – un “coup de théàtre” di questo livello.
Il successo è l’altra faccia del fallimento.
La richiesta delle Br era di liberare 13 detenuti brigatisti reclusi nelle patrie galere contro 1, e fu respinta dalla cosiddetta “linea della fermezza”.
Mario Moretti, Prospero Gallinari, Mara Chagol e gli altri membri dell’entourage brigatista che sequestrarono il Presidente Dc a un passo dall’elezione al Quirinale – “Il mio sangue ricadrà su di voi” – erano individui mediocri e culturalmente sbagliati al netto della diabolica precisione con cui hanno catturato l’ostaggio, al punto da guadagnarsi l’ammirazione dello psichiatra ungaro-americano Steve Pieczenick: durante l’interrogatorio nella “prigione del popolo” al segretario nazionale del Partito Democratico Cristiano, Moretti e compagni gli chiedono conto del Sim: acronimo che sta per Stato Imperialista delle Multinazionali, cioè la sempiterna “demoplutocrazia reazionaria dell’Occidente” da Mussolini fino alla strategia della tensione degli Anni di Piombo.
C’è una parte degli italiani che si nutre ancora oggi di una visione così provinciale e intrinsecamente catto-comunista che ne impedisce l’adesione ai principi del deprecato capitalismo anglosassone: se si legittima la falsa credenza che ci sia un vertice demo-pluto-giudaico che soverchia il mondo per schiavizzare la classe operaia (a dichiararlo prima di Moretti fu Benito Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940), si violenta l’“autos nomos”: il principio dell’autonomia.
Gli individui non sono autonomi portatori di idee, ma subordinati al sistema e vengono eliminati qualora si ritengano “liberi giocatori”: è esattamente quello che è successo con le Brigate Rosse, i “fascisti rossi” per antonomasia.
Perché estrema destra e estrema sinistra s’incontrano sempre: è il famigerato “punto di equilibrio” dell’ideologia.
Nel suo elegante saggio pubblicato su Affari e Finanza del quotidiano “la Repubblica” che è stata un’intuizione geniale del suo fondatore Eugenio Scalfari “La pandemia si supera grazie agli spiriti animali del capitalismo”, il liberale cosmopolita Alessandro De Nicola – che tra l’altro ha fondato e dirige Adam Smith Society – scrive: “La definizione più azzeccata e ironica coniata rispetto all’atteggiamento di molti nel corso di questa pandemia è stata quella della “legge dell’immunità ideologica”, “per cui le persone con forti credenze sbagliate e fondate su false percezioni di alcuni fatti reagiscono ai tentativi altrui di correggere tali inganni accentuando tali false credenze”. Ogni riferimento ai No Vax è voluto…”.
C’è poi un altro piano che colora di dark inside l’affaire Moro, 16 marzo-9 maggio 1978 – il cadavere di Aldo Moro venne ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa a metà strada tra Piazza delle Botteghe Oscure e Piazza delle Cinque Lune (dove cinque più tardi sparirà la cittadina dello Stato del Vaticano Emanuela Orlandi): la malattia mentale.
Ogni cold case – “caso aperto” – è caratterizzato dall’ombra del disturbo mentale: anche se la gente spesso ignora un simile approccio, poiché fa a pugni con la credenza eccessivamente ottimistica che siamo totalmente padroni del nostro destino in punto di autodeterminazione.
Non è così. Anche se il principio è genericamente valido, purchè non sia portato in maniera fanatica al “punto di equilibrio”: com’è vero di tutte le idee, del resto.
E tra l’altro in Italia, come ha ricordato recentemente la psichiatra accademica Liliana Dell’Osso, la pratica dell’“autopsia psicologica” non è diffusa.
E’ uscito negli Stati Uniti, e giustamente, non è stato tradotto in Italia, il libro “A first-rate madness” a cura di Nassir Ghaemi, “Una follia di prima qualità” dove l’autore – considerato uno dei maggiori esperti di disturbo bipolare a livello mondiale – sostiene la tesi dell’apparentamento tra genio e malattia bipolare – e arriva ad affermare che John Fitzgerald Kennedy fosse bipolare, paragonandolo addirittura a Adolf Hitler (sic!) per la tossicomania, poi Abraham Lincoln, ecc…
Orbene, se Nassir Ghaemi che è direttore del dipartimento per la cura della tossicomania a Boston, parte da ottime premesse commette successivamente l’errore di cedere sul “punto di equilibrio”: si innamora della tesi precostituita del bipolarismo.
L’errore che molti psichiatri commettono è quello di non resistere alle sirene dell’ideologia, senza vedere la realtà.
E’ intervenuta sul tema la psichiatra Liliana Dell’Osso, direttrice della Clinica Psichiatrica di Pisa, sul Corriere Fiorentino sparando un colpo di bazooka a Nassir Ghaemi e Kay Redfield Jamison, svalutandone completamente il lavoro – e le sue conclusioni si connettono indirettamente anche al caso Moro che qui è trattato: “Contro l’uso improprio delle diagnosi… Il nostro approccio si distingue nettamente da tutti quei tentativi di proporre liste di personaggi celebri affetti da una determinata, quanto spesso presunta malattia, come fanno, ad esempio, Ghaemi nel tracciare il nesso tra leader e disturbo bipolare, oppure James, quando propone un’analoga lista di personaggi eccentrici rubricati come affetti da disturbo di Asperger; oppure, ancora, si distingue da articoli lanciati come scoop giornalistici nei quali si riporta la scoperta della “vera” malattia di questo o quel personaggio celebre (com’è accaduto recentemente per Syd Barrett, per cui l’intero grave quadro psicopatologico è stato ridotto al solo disturbo di Asperger. Queste pubblicazioni, che spesso cavalcano l’onda della moda di determinate diagnosi, talora con semplicistiche forzature, denotano una totale incomprensione del senso della diagnosi in psichiatria; ignorano cioè: 1) che buona parte delle diagnosi non sono affatto mutuamente escludentisi nel corso del tempo; 2) che le diagnosi categoriali inquadrano soltanto la punta emergente dei disturbi che hanno le loro radici in un disfunzionamento neurobiologico più complesso, che si esprime in polimorfe manifestazioni cliniche; che il disturbo, ad esempio il disturbo bipolare, quando raggiunge un’intensità clinicamente rilevante, difficilmente è compatibile con un funzionamento sociale adeguato, tantomeno con ruoli di primo piano; 4) che la condizione morbosa può in effetti essere associata, in ogni caso in modo non deterministico, ad alcuni vantaggi in termini di ambizione, volitività, perseveranza, originalità, capacità di intuizione, scaltrezza e mancanza di scrupoli e di limiti. Questo è vero soprattutto prima che la malattia si manifesti compiutamente compromettendo, per definizione, in ampia misura la capacità di adattamento e le prestazioni cognitive…”.
Questo è un punto cruciale, e si connette in maniera diretta al caso di Aldo Moro.
Dicevamo prima che è un errore vedere il disturbo bipolare nella leadership politica laddove non c’è, ma il nesso tra la malattia e leadership esiste: venendo a Moro, la personalità della Democrazia Cristiana era un ciclotimico – come è emerso anche (e non solo) dal lungo interrogatorio delle Br al prigioniero nei 55 giorni del sequestro terroristico (guai a confondere la ciclotimia con il disturbo bipolare che pure lo precede (sic!), tant’è che viene definita da Wikipedia disturbo bipolare III!): la ciclotimia è compatibile con una carriera politica ad alto funzionamento, come nel caso di Sir Winston Churchill e che come Moro funzionava per l’emergenza; ma anche
una persona con “inside” bipolare può avere un’eccellente carriera, se non si manifesta lo stress maniaco-depressivo in seguito ad eventi particolarmente stressanti come è stato il caso di Francesco Cossiga, Ministro degli Interni nel governo di cui Presidente del Consiglio era Giulio Andreotti (almeno fino al 1978, l’anno della morte di Moro che fu un trauma grave per Cossiga scatenandone il disturbo al netto delle sindromi ipomaniacali di cui aveva sofferto in precedenza!);
come i lettori possono comprendere, è sbagliato negare arbitrariamente la “liaison” tra disturbo bipolare e potere politico, ma è altresì sbagliato affermarla come verità assoluta.
In ogni caso resta fondamentale il contributo di Eugenio Scalfari a inquadrare nei suoi ritratti la malattia bipolare di Cossiga, identificato come il “Picconatore”, e come essa ne avesse danneggiato la carriera politica anzichè favorirla.
Dobbiamo tenere conto della riflessività dei fenomeni umani, come spiegato da George Soros nell’esposizione della teoria della riflessività.
Esistono due Moro, all’interno di quella che è una divisione della sua stessa personalità e che ne prepara in termini di “eziologia” la morte con l’eliminazione fisica da parte del “partito della lotta armata”; cerco di spiegarmi nella maniera più chiara possibile.
C’è il Moro 1, orgoglioso, in piena “sindrome di hybris” – la sindrome della visione, nell’identificazione narcisistica da parte del soggetto con la salvezza dello Stato, come se lo stesso dipendesse da lui per citare lo psichiatra politico inglese David Owen sulla rivista “Brain”, anche se è un’“entità sub-clinica” –, e che guida la “solidarietà nazionale”, è papabile per il Quirinale, ed è considerato il più autorevole interlocutore del Partito Comunista Italiano e della Democrazia Cristiana contemporaneamente; e poi c’è il Moro 2, che viene catturato dalle Brigate Rosse mentre si sta recando alla Camera dei Deputati e vive il rovesciamento della eccitante per definizione sindrome di hybris nella depressione del prigioniero, del “detenuto” in senso tecnico.
Chi scrive non può non osservare – con un certo stupore – che molto spesso la hybris sfocia nella tragedia, cioè il senso di onnipotenza: ma non è chiaro perché; non si può fondare la cosiddetta “eziologia” tanto cara al medico viennese Sigmund Freud tra l’una e l’altra dimensione, non c’è una risposta: si può solo contemplare il mistero nella scabrosa grandiosità che lo caratterizza.
Orbene, il Moro 2 sconfessa platealmente il Moro 1 crollando tout court alla fine della quarta settimana di detenzione, e rivelando ai suoi carcerieri – che in apparenza non c’entravano nulla con le qualità del loro “prigioniero eccellente” – segreti di Stato come la tangente Lockheed, e non solo: ma pure Stay-behind Gladio, sputtanando anche i suoi colleghi di partito, tra cui Benigno Zaccagnini e Giulio Andreotti per via del loro coinvolgimento nella pratica delle tangenti.
Il cosiddetto “memoriale Moro” ne è la prova.
Infatti resta memorabile che cosa scrisse Eugenio Scalfari il 7 maggio 2013, all’indomani della morte di Giulio Andreotti: “(Moro e Andreotti, ndr) in alcune cose importanti si somigliavano. Per esempio, nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori d’affari”.
E il primo era l’Antelope Kobbler, nome in codice affibbiatogli dal Dipartimento di Stato Usa: cioè l’intestatario della tangente Lockheed, che travolgerà l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone: prendere tangenti è un reato, e per quanto Henry Kissinger – che era l’uomo di punta degli apparati di sicurezza americani – non fosse un santo, è comprensibile perché non morisse di simpatia per Moro.
Il Presidente degli Stati Uniti in carica, democratico Jimmy Carter poi travolto da un complotto orchestrato da George Bush senior e Francesco Pazienza per il ritardo nella liberazione degli ostaggi americani in Iran allo scopo di favorire l’elezione di Reagan, inviò il giorno stesso del rapimento lo psichiatra ungaro-americano Steve Pieczenick in Italia, a consigliare Francesco Cossiga – che era tra l’altro l’enfant prodige di Aldo Moro – e il Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti.
Pieczenick insieme agli altri psichiatri presenti nelle riunioni riservate del Ministero degli Interni come il criminologo Franco Ferracuti (iscritto alla P2), giunse presto alla conclusione che Moro era caduto vittima della sindrome di Stoccolma con i suoi carcerieri: cioè dipendeva dalla loro volontà.
Non dimentichiamoci cosa disse, nella sua lucidità, Indro Montanelli al giornalista Alain Elkann che lo intervistava per la Storia d’Italia con Mario Cervi: “… Ne emerge male, caro Elkann (Aldo Moro, ndr). Ne emerge male. Spadolini cercava di difenderlo, dicendo che (le lettere, ndr) gli erano state imposte. A Moro non fu imposto assolutamente nulla, non gli fu torto un capello. Questo ormai è accertato. Quelle lettere erano tutte farina del sacco di Moro. E questa farina non è molto encomiabile. Perché, vede, tutti gli uomini hanno diritto ad avere paura, tutti. Però quando un uomo sceglie la politica, e nella politica emerge a uomo di Stato, a uomo rappresentativo dello Stato, non perde il diritto ad avere paura, ma perde il diritto a mostrarla.
Questo è uno dei principi che dovrebbe essere affermato. L’incidente tipo quello di Moro fa parte del mestiere. Chi affronta quel mestiere deve sapere che può incorrere in quell’incidente.
Deve avere i nervi e, diciamo, gli altri attributi per resistere. Moro era lo Stato…”.
Lo psichiatra Steve Pieczenick inviato in Italia il 16 marzo 1978 come consulente esterno del Ministero degli Interni, racconta nel libro censurato in Italia “Nous avons tué Aldo Moro” che è stato l’autore della messinscena del falso comunicato n. 7 da parte delle Brigate Rosse meglio noto come “operazione lago della Duchessa” per provocare una reazione violenta nei confronti dell’ostaggio: Moro ad un certo punto dava fastidio tanto ai terroristi quanto ai massimi livelli dello Stato Italiano nello stesso tempo; se Moro dava fastidio a tutti come “anello debole della catena” sacrificabile per la sopravvivenza del sistema, un motivo c’era: si chiama familiarità con il disturbo.
Come scrive Andrea Tornaco in “Omicidio Moro, la procura di Roma riscrive tutta la storia e i mandanti”, “In Italia Pieczenik – scrive il procuratore generale di Roma – arriva dopo la pubblicazione del comunicato n.3 delle Br, il 29 marzo ’78. In quel documento i brigatisti annunciano che l’interrogatorio di Moro procede “con la completa collaborazione del prigioniero e che le informazioni “verranno rese note al movimento rivoluzionario”. E allegano una lettera di Moro al ministro Cossiga – che in un primo momento sarebbe dovuta rimanere riservata – in cui il presidente della Dc cerca di indicare al governo una via d’uscita. Invoca una “ragion di Stato” per cui si sarebbe dovuta intavolare una trattativa, precisando di essere “sotto un dominio pieno e incontrollato” e di correre “il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole o pericolosa”.
E’ dunque corretto quello che disse Corrado Guerzoni, e cioè che nelle riunioni very secret del Viminale si parlò fin da subito – quasi screditando l’alfiere del “compromesso storico” – della “sindrome di Stoccolma” come valutazione sospetta dello staff del Ministro Cossiga: ma perché Moro incominciò a crollare dall’inizio del sequestro!
Siamo nelle matrioske russe del “cold case”: bisogna eliminare strato dopo strato, senza però cedere all’illusione kantiana dell’accesso alla verità ultima che non esiste.
La confessione di Steve Pieczenik, l’eminenza grigia di Henry Kissinger al Dipartimento di Stato Usa come ricorda il giornalista francese Emmanuel Amara che lo intervistò a lungo, fonda la richiesta d’arresto della Procura di Roma nel 2014: reo confesso di concorso in omicidio.
Ma in guerra non si fanno prigionieri da Mussolini a Moro, e Moro non poteva oggettivamente essere salvato dal momento che era diventato il braccio politico del terrorismo sconfessando tout court il lavoro fatto precedentemente al sequestro: per questo fu ucciso.
La parola verrà data a Pieczenik nel corso di questa trattazione, non senza aver prima specificato che il contenuto del falso comunicato n. 7 recitava:
“Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo “dittatoriale” della Dc che per ben trent’anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l’avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante “suicidio”.
Consentiamo il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giace.
La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. Mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio.
E’ soltanto l’inizio di una lunga serie di “suicidi”: il “suicidio” non deve essere soltanto una “prerogativa” del gruppo Baader Meinhof. Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime. P. S – Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà “vigilata”. 18/4/1978 Per il Comunismo Brigate Rosse”.
L’autore di questo documento apocrifo per conto del magistrato romano Claudio Vitalone, sostituto procuratore generale del Tribunale di Roma che a sua volta agiva su indicazione di Pieczenik – che dopo aver sviluppato l’idea agli esponenti del Comitato di crisi lasciò l’Italia alla volta degli Stati Uniti, dove ad attenderlo c’era Jimmy Carter – è stato il falsario romano Antonio Cichiarelli, legato alla Banda della Magliana, autore dei quadri attribuiti a De Chirico e poi assassinato nel 1984, dopo aver realizzato una rapina alla Brink’s Securmark: un bottino da 35 miliardi di lire.
“In ogni falso c’è un autentico”: come si dice nel film di Giuseppe Tornatore “La migliore offerta”:
l’omicidio è l’altra faccia del suicidio.
La fragilità ciclotimica di Aldo Moro, padre politico di Francesco Cossiga, è stata ben illuminata da un episodio – un incontro scontro con Henry Kissinger – che Sergio Flamigni ha raccontato nel suo libro “La tela del ragno – Il delitto Moro”:
“… L’arrivo della delegazione italiana a Washington (il Presidente della Repubblica Giovanni Leone accompagnato dall’allora ministro degli Esteri Moro, ndr), in quel settembre 1974, aveva coinciso con una situazione molto particolare ai vertici del potere negli Usa. Da poco il presidente Richard Nixon era stato travolto dallo scandalo del Watergate (sostituito alla Casa Bianca dal suo vice, il massone Gerald Ford), il segretario di Stato Kissinger aveva assunto – fatto del tutto eccezionale per la democrazia americana – anche le cariche di consigliere per la Sicurezza nazionale, e di capo del National Security Council (l’organo di direzione e raccordo dell’attività di tutti i servizi segreti americani). Nel corso di una riunione del Congresso dedicata alle attività della Cia, Kissinger aveva sostenuto la necessità di un’azione segreta in Italia da parte del controspionaggio americano, “perché se l’Italia diventasse comunista, si direbbe che gli Stati Uniti non hanno fatto abbastanza per salvarla”. Il potentissimo segretario di Stato americano era preoccupato per la situazione politica italiana, specie dopo la “rivoluzione dei garofani” del 25 aprile 1974 in Portogallo (dove era caduta la dittatura fascista, e si era instaurato un governo democratico in rapporti col Partito comunista portoghese), e dopo la dura sconfitta subita in Italia dalla Dc nel referendum sul divorzio del 12 maggio 1974. Il 18 luglio, durante il Consiglio nazionale della Dc, Moro aveva cautamente ma chiaramente avanzato l’ipotesi di “avvicinare” l’opposizione comunista.
Così Kissinger aveva ribadito con durezza al ministro degli Esteri Moro, nel corso di un tesissimo colloquio, la assoluta contrarietà della Amministrazione americana a qualsiasi apertura al Pci da parte della Dc, e era arrivato a minacciare la revoca di ogni aiuto americano all’economia italiana nel caso la Dc fosse venuta meno alla tradizionale chiusura “anticomunista”: in pratica, il segretario di Stato aveva minacciato anche per l’Italia uno sbocco di tipo cileno.
Secondo il collaboratore moroteo Corrado Guerzoni, quel tempestoso colloquio Moro-Kissinger
era avvenuto alla Blaire House, cioè la casa degli ospiti del presidente:
“Nel corso del pomeriggio vi fu una riunione alla quale intervenne il segretario di Stato Kissinger e si verificò lo scontro proprio perché egli affermò che l’Italia non sarebbe stata aiutata dagli americani a risolvere i propri problemi economici permanendo quella situazione politica e quell’equivoco circa il futuro della posizione italiana.
Lo scontro fu talmente forte, aspro e minaccioso (Guerzoni imita un po’ Dante Alighieri, ndr) dal punto di vista politico, che l’onorevole Moro (che anticipò il suo rientro, come è ben noto, a causa del malore che lo colpì nella chiesa di Saint Patrick a New York, e anche perché aveva avuto informazione di questo infittirsi dell’atteggiamento polemico degli americani rispetto al quale, a suo giudizio, il resto della delegazione italiana non mostrava chiara comprensione delle difficoltà enormi in cui l’Italia si trovava) mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere quando in Italia si era alla vigilia, come poi avvenne, di una certa evoluzione politica all’interno della Dc che avrebbe portato alla nomina dell’onorevole Moro a presidente del Consiglio.
Egli comunque insisteva nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell’esigenza di informarne i giornalisti”.
L’intenzione di Moro di abbandonare per qualche tempo la vita politica, manifestata al suo collaboratore in un momento di sconforto, era stata una forma di protesta “contro il condizionamento cui Moro veniva sottoposto, che gli impediva di svolgere la sua azione politica che mirava alla normalizzazione democratica, che passava attraverso il riconoscimento del Partito comunista come partito democratico”.
Tornato dalla visita di Stato negli Usa, Moro per una decina di giorni si era chiuso in casa “ufficialmente ammalato”, e per alcune settimane era rimasto in disparte…”.
Stiamo parlando di ciclotimia: il soggetto crolla per alcuni giorni e poi si riprende.
Nella chiesa di Saint Patrick dove Moro fu colpito da un malore si sposarono Zelda e Scott Fitzgerald il 3 aprile 1920.
Infine, nella debellatio delle “matrioske russe” del delitto Moro, il comportamento dello psichiatra statunitense Pieczenik che ebbe un ruolo chiave nell’eliminazione fisica dello stesso Moro non appare completamente in buona fede: il consulente psichiatrico di Cossiga era condizionato da un pregiudizio anticomunista verso Moro, che lo spingeva a usare la teoria per rifondare la realtà: ma la sindrome di Stoccolma del prigioniero con le Br è un dato di realtà, ed è risultato accertato dalle lettere scritte dallo stesso Moro e poi dal cosiddetto “memoriale” ritrovato in via Montenevoso a Milano nel 1990 (con degli omissis).
Scriveva Flamigni a pag. 148 del libro “Il delitto Moro”, “… Perché tanta insistenza, da parte del ministro Cossiga, per avere al Viminale “esperti” dei servizi segreti americani, e perché, dopo tanta tenacia nel mantenere occulto il ruolo e il contributo di quelle presenze? Una domanda inquietante, nel momento in cui la politica morotea di collaborazione con gli eurocomunisti italiani affermava una forma di “autonomia” e indipendenza dagli Usa invisa e contrariata dalla Casa Bianca (e anche dal Cremlino); e ancora più inquietante se si considera che mai i servizi segreti americani avevano fattivamente contribuito alla lotta contro il terrorismo in Italia.”
Non è completamente veridico quello che scrive Flamigni, condizionato nella sua interpretazione
dall’estrema sinistra:
“Il ministro Cossiga sapeva bene che “vi è sempre stata ingerenza americana nei Servizi”, e che le ingerenze Usa erano all’origine delle cosiddette “deviazioni” da parte dei Servizi “paralleli” che avevano come compito “istituzionale” quello di strumentalizzare il terrorismo al fine di combattere il Pci e le forze di sinistra, e di sostenere il “partito americano” nemico della politica morotea”.
Su Wikipedia è scritto infatti, diversamente da come Flamigni riporta:
“… Il Ministro dell’interno del tempo, Francesco Cossiga, allestì un comitato di crisi al quale fu aggregato Pieczenik, immediatamente messo a disposizione del governo italiano da Jimmy Carter lo stesso giorno del rapimento.
L’importanza dell’invio di un consulente si apprezza appieno, secondo alcune ricostruzioni, considerando che solo un paio di mesi prima il medesimo presidente statunitense aveva decretato (seguendo analogo precedente indirizzo di Gerald Ford) che i servizi di informazione statunitensi non potessero collaborare con governi stranieri in casi di terrorismo, salvo che non fossero in gioco interessi di sicurezza e pericolo per gli Usa. Cossiga, informando l’alleato Carter, aveva escluso pericoli per la NATO, ma precisava tuttavia che Moro era a conoscenza di segreti di stato come la struttura di stay-behind (in Italia Gladio), e il consulente fu inviato. Giunto dopo pochi giorni a Roma, sarebbe stato subito informato da Cossiga della assoluta mancanza di idee su come gestire una crisi quale quella in essere, di una strategia o di un “sistema operativo”…”.
Non è da escludere la partecipazione dei Servizi all’agguato tecnicamente “leninista” di via Fani.
Infatti il colonnello Camillo Guglielmi del Sismi, interrogato dalla Commissione Stragi presieduta da Gianluigi Pellegrino sul perché si trovava in via Fani alle 9:00 del mattino il 16 marzo del 1978, dichiarò che doveva andare a colazione da un amico. Alle 9:00 del mattino?
Continuava Flamigni, che aveva in parte ragione ma trascurando il fatto più importante: Moro era crollato:
“Nello staff degli esperti nominati dal ministro Cossiga, il piduista Ferracuti si distingueva per il fatto che i suoi contributi erano sempre sintonizzati con gli orientamenti di Pieczenik. Quando ad esempio l’esperto americano sostenne l’opportunità di “dimostrare che Moro non è indispensabile all’attività del governo” e che occorreva “sminuire l’importanza di Moro”, Ferracuti si impegnò a dimostrare che Moro non era più padrone di sé ma era preda della sindrome di Stoccolma, mentre il ministro Cossiga affermava che le lettere di Moro “non sono moralmente a lui ascrivibili”. Fin dalla prima lettera di Moro a Cossiga, i consiglieri del ministro considerano Moro fuori di sé e vittima della sindrome di Stoccolma; lo testimonierà Corrado Guerzoni, presente a una riunione svoltasi al Viminale: “Io ho assistito alla famosa riunione tenutasi al Viminale all’indomani del ricevimento della lettera inviata dal presidente Moro a Cossiga; ebbene, quella fu una riunione degli spiriti.
L’on. Moro infatti era già dato per drogato, con la sindrome di Stoccolma, incapace di intendere e di volere… Si sosteneva già che, se lo si fosse trovato, lo si sarebbe dovuto ricoverare in una clinica per un certo periodo di tempo” (piano Viktor per trattamento sanitario obbligatorio, ndr).
E il 29 marzo Andreotti annotò nel suo diario: “Quale che sia il responso dei periti, la condizione di Moro è tale da togliere validità morale agli scritti”.
Molti anni dopo, il 28 novembre 1993, Cossiga dirà alla televisione tedesca: “Gli esperti psichiatri mi avevano dichiarato che Moro si trovava in uno stato di depressione.
Questo mi aveva incoraggiato nel preferire tutte le interpretazioni che erano favorevoli alla mia posizione di fermezza, e così sotto l’influenza degli psicologi nacque la valutazione che le lettere di Moro fossero moralmente non autentiche. Oggi questo non lo scriverei più”.
Orbene, i consiglieri di Cossiga potevano non essere in buona fede e molti di loro non lo erano essendo condizionati dall’appartenenza all’estrema destra della loggia P2 di Licio Gelli – un vero scandalo nello scandalo –, ma la depressione di Moro non poteva essere inventata: era semmai strumentalizzata – in una realtà che non poteva essere più ambigua, quale quella di un cold case come il caso Moro.
L’estrema sinistra trovava curiosamente un “argine” nell’estrema destra che si nascondeva nel Viminale: una partita a scacchi tra fanatici, che in certi casi erano veri psicopatici.
La Casa Bianca non era contraria al “compromesso storico”, anzi (sic!) e quella di Flamigni appare una inaccettabile forzatura: l’ala “liberal” del Department of State era guidata da cosmopoliti aperti al dialogo con i comunisti come Zbgnew Brzezinsky che stimava Enrico Berlinguer, Richard Gardner e lo stesso Jimmy Carter che vedevano la politica morotea come l’indebolimento del Pci;
l’ambasciatore Usa Richard Gardner non era un estremista, e voleva che il compromesso storico avesse successo: considerava inoltre Pieczenik persona non affidabile e menzognera.
Nell’articolo “L’oblio dei ricordi” – Rubrica a cura di Abate Faria su “Storia” dove sullo sfondo ci sono gli echi della tragedia di Archimede, Fava scrive: “Dall’oblio dei ricordi mi sovviene la figura di Aldo Moro intento a leggere “la Repubblica”: Roma, via Fani quartiere Monte Mario.
Sono quasi le 09,00 e la Fiat 130 con a bordo l’Onorevole Moro si avvicina all’incrocio con Via Stresa, la strada è in discesa, e Moro sfogliava, come suo solito, la fascetta dei giornali acquistati nell’edicola di Monte Mario.
L’onorevole Moro ebbe un sussulto quando vide la terza pagina del quotidiano “La Repubblica”.
Il quotidiano di Eugenio Scalfari intitolava a tutta pagina “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della Dc”.
Aldo Moro era indicato come “L’Antelope Cobbler” il famigerato e misterioso collettore delle tangenti dello scandalo Lockheed.
Lo statista non ebbe modo di finire di leggere l’articolo che la Fiat 130, guidata dall’appuntato Domenico Ricci, frenò di colpo per evitare l’urto con l’Alfetta di scorta, guidata dall’agente Giulio Rivera, che li precedeva e iniziò il crepitio delle armi.
Il commando delle Br usò le armi in maniera molto “professionale” riuscendo a non ferire Aldo Moro…”.
Aggiungeva lo studioso Abate Faria:
“… La terza pagina de “La Repubblica” è un documento, caduto nell’oblio dei ricordi, che fa comprendere quale fosse il clima politico nel nostro paese in quegli anni. La notizia, se confermata, avrebbe decretato la morte politica di Aldo Moro e del suo tentativo di sdoganare i comunisti con il governo di “solidarietà nazionale”.
Dal febbraio 1976 imperversava lo scandalo Lockheed: l’accusa era che politici italiani dietro il pagamento di una tangente di un milione di dollari avevano favorito l’acquisto di 18 aerei Hercules 130 dall’azienda statunitense Lockheed Corporation. L’impeachment travolse le più alte cariche dello Stato, dal presidente della Repubblica Giovanni Leone al presidente del Consiglio, Mariano Rumor, sospettati entrambi di aver ricevuto compensi dalla Lockheed Corporation.
La stampa nazionale e internazionale cercarono invano di identificare in uno dei due uomini politici Leone e Rumor, la famigerata “Antelope Cobbler” cui sarebbero state pagate tangenti dalla Lockheed.
Tanassi, Rumor e Gui furono posti sotto accusa per corruzione dalla Commissione inquirente il 30 novembre; pochi mesi dopo, il 3 marzo 1977, Rumor venne scagionato, mentre Tanassi e Gui furono giudicati colpevoli. Ebbene il quotidiano “La Repubblica” il 16 marzo del 1978 è certa che dietro il nome in codice si cela Aldo Moro.
Nell’articolo si legge: “A fornire questa pista è stato un teste, Luca Dainelli, ascoltato il 10 febbraio scorso dal giudice istruttore Antonio De Stefano. Secondo la deposizione di Dainelli, fra i documenti in busta chiusa del dipartimento di Stato americano inviati all’ambasciatore Volpe, vi era un appunto, o memorandum, nel quale si annotava che l’Antelope Cobbler del caso Lockheed era l’onorevole Moro…”.
Nessuno può dire come sarebbe andata il 16 marzo 1978, se Aldo Moro non fosse stato rapito dalle Brigate Rosse: ma lo scandalo Lockheed resta uno dei fatti più gravi di Tangentopoli.
Ed è curioso che lo stesso Eugenio Scalfari, genio di giornalismo autore insieme a Giuseppe Turani del bestseller “Razza padrona. Storia della borghesia di Stato”, sia tornato sull’argomento all’indomani della morte di Giulio Andreotti.
Si può solo replicare a Scalfari che Andreotti non aveva però l’intelligenza strategica di Moro.
La parola ora a Steve Pieczenik nel suo libro “Nous avons tué Aldo Moro”, scritto a quattro mani con Emmanuel Amara, un documento imprescindibile per inquadrare il cold case del 1978 che è di gravità pari alla vicenda di Benito Mussolini:
“Francesco Cossiga mi aveva dato carta bianca per elaborare una strategia. Il primo punto di questa strategia è consistito nel guadagnare tempo, mantenere in vita Aldo Moro il più a lungo possibile, almeno il tempo necessario affinchè il ministro Cossiga potesse riprendere in mano i suoi servizi segreti e allo stesso tempo prendere il controllo di quelli militari, instaurare un senso di fermezza in seno a una classe politica inquieta e permettere al Paese di riprendere fiato.
Allo stesso tempo occorreva impedire ai comunisti di Enrico Berlinguer di arrivare al potere e bisognava mettere fine alla capacità di nuocere dei fascisti e soprattutto fare il possibile affinchè la famiglia Moro non stabilisse un negoziato parallelo che avrebbe consentito ad Aldo Moro di uscire troppo rapidamente dalla prigione dei rivoluzionari… Sono stato quindi costretto a ribaltare la mia abituale strategia fondata sulla salvaguardia della vita dell’ostaggio, così come avevo fatto negli Stati Uniti, salvando diverse centinaia di persone prese in ostaggio.
Questa volta, invece, ho subito capito che, forse, avrei dovuto sacrificare una vita per salvarne migliaia di altre, in un Paese che era preda di un caos indescrivibile. Con Cossiga temevamo una generale destabilizzazione dello Stato italiano con una vittoria delle Brigate rosse e soprattutto l’arrivo dei comunisti al potere che avrebbe potuto avere un effetto domino sul resto d’Europa… Decido così di tendere una trappola alle Brigate rosse. La mia idea era quella di creare l’illusione di eventuali aperture, impostare lunghe discussioni durante le quali c’era una moltitudine di dettagli da sistemare prima di cominciare a metterci d’accordo. Era necessario creare una grande attenzione al loro interno, una grande speranza, lasciando loro credere che sarebbe stato possibile liberare dei prigionieri. Le Brigate rosse hanno morso l’esca e io ho tenuto la canna da pesca ferma. La trappola era pronta. Bisognava attendere il momento buono per farla scattare. Per me l’elemento chiave era quello di sapere quando avrei dovuto fermare ogni apparenza di trattativa.
Quel momento è arrivato alla fine della quarta settimana di detenzione, quando le lettere di Aldo Moro sono diventate disperate. Quando Moro ha fatto capire che era sul punto di rivelare dei segreti di Stato e di fare i nomi di coloro che quei segreti detenevano. In quel momento mi sono girato verso Cossiga, dicendogli che ci trovavamo a un bivio: dovevamo decidere se Aldo Moro potesse continuare a vivere o se invece dovesse morire. Ne abbiamo discusso a lungo con Cossiga e con elementi dei servizi di cui ci fidavamo, e tra loro con un uomo che è scomparso e che si chiamava Ferracuti. Bisognava preparare l’opinione pubblica italiana ed europea all’eventuale morte di Moro. Abbiamo allora messo in campo un’operazione psicologica. Questa operazione è consistita nel far uscire un falso comunicato nel quale la morte di Moro era annunciata in un luogo dove il suo cadavere poteva essere trovato. Di questa operazione non so altro perché io non ho seguito direttamente la sua preparazione che, comunque, era stata decisa all’interno del Comitato di crisi.
La più grande ironia di tutta questa storia, ma anche il dramma più grande, è che le Brigate rosse, che io rispetto, perché erano state brillanti sul piano tattico, sul piano strategico hanno commesso un grande errore. Non si aspettavano di avere a che fare con un altro terrorista come me che li ha usati e li ha manipolati psicologicamente per intrappolarli. Avrebbero potuto facilmente uscire da quella trappola, ma non potevano. Non potevano fare altro che uccidere Aldo Moro. E’ il grande dramma di questa storia. Francesco Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie proposte. Moro in quei momenti era disperato e doveva senza dubbio fare ai suoi carcerieri rivelazioni importanti su uomini politici come Andreotti. E’ stato allora che Cossiga e io ci siamo detti che era arrivato il momento di cominciare a mettere le Brigate rosse con le spalle al muro. Abbandonare Aldo Moro e lasciare che morisse con le sue rivelazioni. Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro allo scopo di stabilizzare la situazione italiana. Le Brigate rosse avrebbero potuto rilasciare Aldo Moro e così avrebbero conquistato un grande successo, aumentando la loro legittimità.
Al contrario, io sono riuscito con la mia strategia a creare un’unanime repulsione contro questo gruppo di terroristi e allo stesso tempo un rifiuto verso i comunisti. Il prezzo da pagare è stato la vita di Moro. E’ stata quella la prima volta nella storia della mia carriera – io ho lavorato contro l’Unione Sovietica, la Cambogia di Pol Pot e il regime di Noriega a Panama – che mi sono trovato
in una situazione nella quale ho dovuto sacrificare la vita di un individuo per la salvezza di uno Stato. Il cuore della mia strategia era in questo caso che nessun individuo è indispensabile allo Stato… Si può dire che il nostro è stato un colpo mortale preparato a sangue freddo.
Loro, i brigatisti, non sapevano che uno dei miei prozii era stato il braccio destro di Trockij. Io ho usato una vecchia trappola: li ho attirati in una trappola nella quale sono caduti senza accorgersene. La trappola era che loro dovevano uccidere Aldo Moro. Loro pensavano che io avrei fatto di tutto per salvare la vita di Moro, mentre ciò che è accaduto è esattamente il contrario…
La decisione di far uccidere Moro non è stata una decisione presa alla leggera, abbiamo avuto molte discussioni anche perché io non amo sacrificare le vite, questo non è nelle mie abitudini.
Ma Cossiga ha saputo reggere questa strategia e assieme abbiamo preso una decisione estremamente difficile, difficile soprattutto per lui. Ma la decisione finale è stata di Cossiga e, presumo, anche di Andreotti”. Poi Cossiga è diventato bipolare.
Nel 2006, Pieczenik dichiarò nelle interviste a Emmanuel Amara a integrazione del suo libro “Noi abbiamo ucciso Aldo Moro”: “L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio. Chiedo il perdono della famiglia Moro”.
Nel ’45 l’uccisione di Mussolini coincise con il “miracolo economico”; entrambi i “perdenti” erano malati di un disturbo ciclotimico.
Ps – Da Mussolini a Moro le colpe dei delitti ricadono su chi li commette: dal balcone di Palazzo Venezia, alla tangente Lockheed.
You can’t have the cake and eat it.
di Alexander Bush