Il fascismo eterno degli intellettuali italiani. A proposito di Rodotà, di Urbinati e di Asor Rosa

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“Per la rubrica di approfondimento “L’Albatros” un intervento di Dino Cofrancesco sul fascismo eterno di certi intellettuali italiani.
Per questi il proprio programma politico non è una via più praticabile di altre per raggiungere la meta di un effettivo progresso sociale e civile, ma l’unica e vera via: un pensiero genuinamente totalitario”.

 

Ogni volta che mi capita di leggere, su ‘Repubblica’, ‘Pubblico’, ‘Il fatto quotidiano’, le riflessioni che alla democrazia liberale dedicano gli ‘intellettuali militanti’ che collaborano a quelle testate—o vi vengono intervistati più di frequente—mi vengono in mente le riflessioni di Alexis de Tocqueville sulle diverse concezioni della democrazia maturate in Europa e negli Stati Uniti. Nella prima Democrazia in America, l’aristocratico normanno faceva rilevare che, oltre oceano:«La maggioranza, dopo che  ha avuto il tempo di riconoscersi e di constatare la propria esistenza, diviene la fonte comune dei poteri. Ma la maggioranza, di per sé stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si   trovano l’umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i   diritti acquisiti ».In Europa, invece, si sono fatte «strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che   si fanno garanti e interpreti della maggioranza. Non è il popolo che  dirige in questa specie di  governi, ma coloro che conoscono quale  sia il vero bene del popolo felice distinzione che permette di agire in  nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole».

La ragione per cui, nel vecchio continente, la legittimazione politica non alberga nelle «regole»—nel principio di maggioranza, posto a fondamento della democrazia—ma nei risultati ovvero non sta nella correttezza delle procedure con le quali vengono designati i rappresentanti del popolo sovrano e i governanti ma nella bontà di ciò che poi viene deciso e diventa legge vincolante per tutti, rinvia a una concezione sostantiva dell’interesse pubblico (della ‘volontà generale’) che riconosce come valido solo ciò che riceve l’approvazione di quanti « conoscono quale  sia il vero bene del popolo». Si tratta di una concezione giacobina e terroristica anche quando indossa una maschera libertaria e impugna la bandiera dei ‘diritti’.A ispirarla, infatti, è una filosofia premoderna che apprezza le ‘forme’solo quando fanno raggiungere gli obiettivi politici e sociali che stanno a cuore ma, in caso contrario, non pretende certo di cancellarle—come fecero in passato i partiti comunisti al governo—ma le dichiara aggirate e corrotte dalla demagogia. In altre parole, se una maggioranza di elettori manda al governo un partito o una coalizione di centro-destra, il governo che ne risulta è’legale’ ma non è legittimo, almeno sotto il profilo etico-politico, giacché quella vittoria si deve ai raggiri demagogici di una classe politica corrotta e spregiudicata e all’ignoranza e alla credulità di quelli che l’hanno votata. E siccome la ‘protesta’, anche di piazza, è una delle modalità della ‘partecipazione politica’, è dovere civico dei buoni cittadini far sentire la loro voce, contestare le scelte legislative della ‘casta’, isolarla moralmente nel paese e nei consessi internazionali.

Ci si chiede come questa concezione della democrazia possa farci uscire da quella guerra civile che da 150 anni, con qualche felice interruzione, caratterizza il nostro paese e come possano diventare semplici e rispettabili ‘avversari’ quei ‘nemici’politici, ai quali non si riconosce neppure la ‘buona fede’. In Italia, purtroppo, si sono saldate ‘culture politiche’ di diverso orientamento ideologico ma tutte convergenti in un punto: l’incapacità di un reciproco riconoscimento fondato sulla consapevolezza che ci sono vari modi di perseguire l’interesse collettivo e che tali modi fanno capo  a istituzioni politiche ed economiche (di destra e di sinistra), che possono divergere anche radicalmente ma che non  pertanto, giustificano la contestazione  del buon diritto a governare dei partiti risultati vincitori nelle competizione elettorale, anche se non solo quelli ai quali vanno le preferenze delle (presunte) ‘persone oneste’. Per i cattolici del ‘Sillabo’, nessun compromesso era possibile coi miscredenti che avevano abbattuto il potere temporale dei papi, eliminato il foro ecclesiastico, istituito il matrimonio civile; per gli azionisti dell’Ottocento e del Novecento, ai quali si devono la mistica repubblicana e poi quella antifascista, non ci può essere alcun contatto con i ‘reazionari’appartenenti a famiglie politiche che in passato sono state complici di regimi liberticidi e, nel presente, ne difendono determinati istituti e leggi; per i comunisti, è inevitabile la convivenza con i ‘borghesi’, almeno finché non saranno mature le condizioni per la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma le ‘due città’restano separate da frontiere spirituali più insormontabili della muraglia cinese. In Italia, non si sentirà mai il leader del partito sconfitto alle elezioni rivolgersi al proprio seguito con le parole che John McCain pronunciò il 5 novembre 2008, dopo la prima vittoria di Obama:«Esorto tutti gli americani che mi hanno sostenuto a unirsi a me non soltanto per fargli le congratulazioni per la sua vittoria, ma per offrire al nostro presidente la nostra disponibilità e i nostri sforzi più convinti per trovare dei modi per marciare uniti, per trovare i necessari compromessi, per superare le nostre divergenze e per contribuire a riportare la prosperità, a difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e a lasciare ai nostri figli e nipoti un paese più forte, un paese migliore di quello che noi abbiamo ricevuto».

Nell’intervista rilasciata, qualche giorno fa, su ‘Pubblico’, a Luca Telese e  a Marco Berlinguer, Stefano Rodotà, che assieme a Gustavo Zagrebelsky, può considerarsi il teorico più coerente della ‘democrazia all’europea’(oggetto, come s’è visto, dell’ironia tocquevilliana) ha sostenuto—giustamente dal suo punto di vista—che «i diritti sono lo spazio dove si costruisce la nuova sinistra». E’ un’impostazione politico-culturale, la sua, distante molte miglia da quella della nuova sinistra espressa  nei saggi recenti di Enrico Morando, Giorgio Tonini, Pietro Reichlin, Aldo Rustichini ma questo è altro discorso. All’interno del pianeta postcomunista  possono convivere gli uomini e i programmi più diversi e, del resto, nel ‘Labour Party’ s’incontrano teorici e militanti collocati alla destra della socialdemocrazia accanto ad altri collocati  alla sinistra del comunismo un tempo filosovietico.

Quello che induce a pessimistiche considerazioni sulla nostra political culture non è il ‘radicalismo’ di Rodotà ma quel ‘buio nella mente’—che tanto ricorda l’animus  fascista—che gli fa dire che «senza l’eguaglianza, senza quel capolavoro che nella Costituzione è rappresentato dall’articolo 3 i diritti non ci sono» ovvero: se uno Stato non riesce a « rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» non è più uno Stato di diritto (in senso lato) ma, de facto, diventa una quasi-dittatura di classe. Questo comporta, senza inutili giri di parole, che, per lui, ogni programma politico fondato sul principio «meno Stato, più mercato» rischia di farci «tornare a una forma di cittadinanza censitaria come nell’ottocento» ovvero alla fine  tout court della democrazia di massa che i nostri padri hanno conquistato col sangue versato nelle trincee della prima guerra mondiale e nelle cruente battaglie della seconda contro le dittature totalitarie. Per Benedetto Croce, di cui quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla morte, dirigismo e liberismo erano due diverse—e fallibili come tutte le cose umane– strategie per far stare meglio i cittadini: scegliere l’una o l’altra era un compito affidato all’arte politica, che, come il diritto e l’economia, ricadeva sotto la categoria dell’utile. Il filosofo, nel famoso confronto critico con Luigi Einaudi, in sostanza, poteva dire (e a torto,va ribadito), alla luce dei suoi ‘distinti’ : «questo o quello per me pari sono»; Rodotà, scilicet magnis componere parva , solo «all’idea di quel metallo», cade in profonda depressione e  vede imminente il tramonto della civiltà del diritto:«sono morte tutte le ideologie, è rimasta in piedi solo quella del mercato». Sembra di capire che, nella logica del suo argomentare, nell’ipotesi–peraltro improbabile–che raccolga la maggioranza dei voti un leader seguace della filosofia politica ed economica dell’Istituto Bruno Leoni, una rivoluzione di popolo in difesa della Costituzione sarebbe ampiamente giustificata, alla stessa stregua di una rivoluzione volta a rovesciare il risultato delle urne qualora risultasse vittorioso un partito totalitario. Insomma, nella democrazia rodotesca, non c’è spazio né per la destra illiberale né per il conservatorismo liberale e, semmai, possono divergere i modi di opposizione all’uno o all’altro. L’unica dialettica possibile è quella all’interno della sinistra, tra i «partiti rinchiusi nelle loro fortezze» e i sindacati che «hanno mantenuto, in alcuni casi bene, come la FIOM, in altri casi meno bene, un contatto» con i movimenti». Il suo ideale di leader è Maurizio Landini la cui richiesta di una legge per la rappresentanza sindacale» è una battaglia sui diritti, intesa a «mantenere una rappresentanza forte anche in un momento di   scontro durissimo. In un momento di crisi di legittimità di tutte le rappresentanze». Se ho ben capito soviet in fabbrica—dove gli indici di produttività, il rapporto col mercato globale, il potere dei manager devono venire azzerati– e massima libertà nei rapporti sociali, specie di coppia, che ricadono quasi del tutto al di fuori dell’economia. Così i lavoratori di Pomigliano si ritrovano sullo stesso piano delle «donne del Kenya che si fanno frustare per difendere la loro scelta di vestirsi come vogliono» e di Peppino Englaro «che rinuncia a una via di fatto, alla possibilità di una soluzione silenziosa, e dice:io voglio agire nel rispetto del diritto. E affronta un calvario per difendere il diritto di sua figlia Eluana a morire nella legalità». E’ l’immarcescibile cavallo di Troia dell’ideologia azionista: si rivendicano insieme sia i liberali ‘diritti di libertà’—quelli delle donne del Kenya—sia i ‘diritti sociali’—quelli che portavano persino l’ala moderata del Partito d’Azione a sostenere la nazionalizzazione di imprese con più di cento addetti..—e li si lega in un fascio indissolubile sicché non è più possibile accettare i primi senza tirarsi dietro anche gli altri. Che poi tra i primi manchino la libertà d’impresa e il principio che i salari debbono essere rapportati agli utili aziendali è qualcosa che non potrebbe preoccupare meno il giurista che, col proto-giacobino Cesare Beccaria, aveva definito la proprietà un ‘terribile diritto’.

Ripeto: l’animus totalitario non sta nel collocarsi a sinistra, molto a sinistra, ma nel ritenere che il proprio programma politico vada ritenuto non una via più praticabile di altre per giungere alla meta di un effettivo progresso sociale e civile del paese bensì l’unica strada maestra giusta e sicura e che gli  avversari (di destra)  non siano incamminati su sentieri disagevoli e tortuosi, che non li condurranno mai al fine prefisso, ma si trovino sulla loro stessa arteria autostradale che, però, percorrono in senso opposto, giacché non vogliono (come loro) il bene del popolo ma la sua rovina, il suo degrado morale, la sua miseria economica.

E’ la stessa forma mentis che si ritrova nell’altra squadrista del concetto, Nadia Urbinati, con Barbara Spinelli, una delle ninfe Egerie di ‘Repubblica’. Nell’articolo recente, I nemici della democrazia, la filosofa politica indica nei mercati finanziari «che condizionano i bilanci degli Stati costringendo i governi a falcidiare i servizi sociali e ad alzare le tasse», nei «’pochi potenti’ che non hanno più intenzione di condividere lo stesso destino di chi è sempre meno uguale perché più bisognoso e vogliono cancellare gli obblighi della solidarietà nazionale», nei «movimenti populisti che hanno tutto l’interesse a far esplodere le contraddizioni per lucrarne posizioni politiche», nei «leader demagogici che cercano il consenso meditativo e si fanno rappresentanti della causa della rivolta«, nei «movimenti violenti che generano la paurosa illazione che lo stato democratico sia il nemico principale dei cittadini», i segni inquietanti di un attentato alla sovranità popolare al quale non rimediano i governi tecnici capaci solo di«tagliare risorse alle spese sociali, colpire la già umiliata scuola, falciare la sanità>. A questi governi «venuti a promettere buona amministrazione e decisioni giuste benché amare», Urbinati ricorda quella che lei pensa essere la natura della democrazia, nata dopo la guerra non come «corredo di politiche liberiste integrato con lo stato repressivo». Il nesso tra ‘politiche liberiste’ e ‘stato repressivo’, si badi bene, è, fino a un certo punto, il  prodotto di un’immaginazione fertile giacché ha una sua logica volta a contrapporre al perverso binomio “liberismo in economia/intolleranza politica” il binomio virtuoso “welfarismo in economia/ libertà politica”–dove è sempre il primo termine che consente di penetrare a fondo le caratteristiche del secondo: il liberismo è darwinismo sociale e violenza, il welfarismo è garanzia di libertà individuale e di equità sociale. La ‘democrazia in Italia’—grazie all’antifascismo, alla Resistenza, al vento del Nord–«per reagire allo statalismo corporativo e fascista non ha promesso uno Stato minimo ma uno Stato sociale giusto. Non ha promesso una società votata all’impoverimento progressivo, ma una società capace di elevare le condizioni dei molti». E’ lo stesso copione di Rodotà: se si è d’accordo con lo «stato minimo» di Nozick—e, a scanso di equivoci, lo scrivente non è d’accordo, riconoscendosi, nel confronto a distanza tra Friedrich Hayek e Raymond Aron, più nelle tesi del secondo che in quelle del primo, forse per un residuo di crocianesimo—non si può far parte della stessa comunità politica di Rodotà e di Urbinati: non si è avversari politici ma ‘alieni’ che, se hanno ancora un diritto politico a partecipare alle elezioni, non possono certo rivendicare un corrispondente diritto morale e culturale.

Di qui, dal momento che le ‘forme’non valgono indipendentemente dai contenuti, la relativa irrilevanza dei risultati elettorali: se la democrazia è ascesa, è promozione sociale, allargamento di diritti, ‘inclusione’ progressiva, dei suoi obiettivi possono e debbono farsi carico non solo i parlamenti ma, altresì, tutte quelle altre istanze sociali capaci di «portare avanti un certo discorso», come si diceva nell’ever green  ’68. Perciò dove il potere legislativo è timido, incerto, arrendevole intervengono le forze dal basso, i movimenti, le associazioni dei cittadini ‘consapevoli e responsabili’, le proteste degli indignados e quant’altro. Ne derivano la ‘strategia dell’attenzione’ e la simpatetica comprensione anche verso quanti eccedono, vanno ‘al di là’, senza rendersi conto di fare il gioco dei loro nemici.«Le violenze che feriscono le nostre città, scrive Urbinati, sono un grido d’allarme disperato: dobbiamo condannare la violenza ma noi possiamo dimenticare per questo l’ingiustizia nella quale la democrazia è intrappolata in Italia come in Europa. Quelle manifestazioni sono una denuncia della spirale di decisioni che sembrano seguire solo una direzione: punitive con i molti e deboli e indulgenti con i pochi e potenti». Il basso continuo ideologico di fondo è lo stesso dei gruppi antagonisti, identiche le diagnosi  sui mercati finanziari, sullo strozzamento dello stato sociale, sul mancato riconoscimento dei diritti sociali : da un lato, i «pochi e potenti», dall’altro, «un popolo oppresso che nome non ha». A differenza degli studenti e dei lavoratori in rivolta che rischiano in proprio (quando non sono figli di papà), però, gli ‘intellettuali militanti’ conducono le loro guerre con ‘altri mezzi’: le loro risorse sono simboliche, mirano a rifare i cervelli, a produrre un ‘senso comune’ che renderà superflua la violenza politica. Quando, nella buona società borghese, affermare che «il mercato realizza un principio fondamentale dell’egualitarismo liberale, la libertà di contrattazione, di impresa e di scelta» e che non ha nessun valore «l’affermazione secondo cui bisogna limitare la libertà di scambio e di impresa per garantire un’equa distribuzione delle risorse»–lo dicono Reichlin e Rustichini nel loro saggio Pensare la sinistra—  sarà come sostenere l’inferiorità razziale dei ‘negri’e la subordinazione naturale della donna all’uomo, non ci sarà più bisogno di  scendere nelle piazze o di affermarne «la rilevanza costituzionale» ,giusta un pensiero profondo di Pietro Ingrao sulle masse e la democrazia.

Ancora una volta, ripeto, a costo di essere noioso, che non contesto affatto la diffidenza verso il mercato dei nostri maîtres-à-penser: il capitalismo è, come diceva il grande Joseph A. Schumpeter, una distruzione creatrice: c’è chi vi vede la creazione, c’è chi vi vede la distruzione. I ‘pessimisti’ hanno architettato  il comunismo e la socialdemocrazia per rimediare ai mali di una concorrenza libera e senza freni: in un caso, hanno fallito rovinosamente, nell’altro, sono riusciti a salvaguardare, in una certa misura, protezione sociale e libertà civili. Gli ottimisti hanno visto nel mercato la mitica lancia di Achille capace di guarire le ferite da essa causate: le loro ricette hanno funzionato abbastanza bene nell’Inghilterra di Margaret Thatcher come negli Stati Uniti di Ronald Reagan ma spesso sono state riguardate da altri governi come rimedi non praticabili. Che non ci si fidi del mercato, lo si può capire: ciò che trasforma un’avversione legittima in una inimicizia mortale è la delegittimazione morale, culturale e politica, di quanti invece se ne fidano e per questo assurgono a pretoriani di Satana. Col risultato che una parte della nazione diventa massa damnationis e che le riserve nei confronti del Welfare State—che pure potrebbero contribuirlo a razionalizzarlo e a renderlo meno costoso per l’erario–finiscono per non venir  mai esaminate con cura, in quanto non   dettate da sollecitudine sincera nei confronti della res publica ma da bieca volontà di reazione.

In fondo, cos’altro è il fascismo se non l’ipostasi di un nemico assoluto, la drammatizzazione di un conflitto sociale e politico che assurge a ‘guerra di civiltà’—‘chi non è con me è contro di me’– a lotta pro aris et focis?

Alberto Asor Rosa che, a prescindere dalle diverse storie ideologiche personali, fa parte del mondo dei Rodotà e delle Urbinati, è un interessante case study  a questo proposito. Parlando agli studenti del Liceo Tasso a Piazza del Popolo, secondo quanto riferisce ‘Pubblico’—‘Alberto Asor Rosa «Fate bene a protestare siete i nuovi resistenti’ –ha definito i liceali in ebollizione come i nuovi resistenti.« Esiste un filo della Resistenza che tiene unita l’Italia fin dal dopoguerra» e i ragazzi che si affacciano ora  alle proteste e alla ribellione riprendono quel filo nelle loro mani. I governi espressi dal Parlamento, quindi, non possono rivendicare alcuna autorità politica ed etica: hanno umiliato la scuola e l’Università e, pertanto, meritano di essere contestati se non andando in montagna a organizzarvi la lotta armata per lo meno mettendoli alla gogna nei luoghi pubblici. Il ministro che taglia  i fondi alle scuole perde ogni credibilità e diritto al rispetto e all’obbedienza: per insegnanti e discenti, non è più il loro ministro ma un nemico pubblico che va costretto alle dimissioni. Non è neppure concepibile che si possa essere in disaccordo con un provvedimento o con una legge dello Stato e tuttavia ritenere legittima sia la legge che l’autorità da cui emana. In una democrazia a norma se qualche decisione del governo non piace, si punisce il governo dando il voto ai partiti dell’opposizione, alla prossima tornata elettorale :la possibilità che la ‘società civile’, chiedendo al ministro di fare le valigie, si faccia giustizia con le proprie mani, indipendentemente dal verdetto degli elettori, rientra nella suddetta concezione sostantiva della democrazia comune sia alla democrazia fascista sia alla democrazia sociale e illiberale (quella che, per certuni, sarebbe nata dall’antifascismo e dalla Resistenza).

Da tempo, forse dal 1989, assistiamo a un trend che sembra irreversibile: il paradigma obsoleto fascismo (reazione)/antifascismo(progresso civile) ricaccia tra le quinte della storia quello borghesia/proletariato: il misticismo azionista si sostituisce al rude, unilaterale ma realista, materialismo storico, la politica si eticizza—nel senso che divide il mondo in  buoni e  cattivi, dimenticando che un tempo essa definiva il campo in cui si confrontavano interessi e ragioni pressoché equivalenti  —e l’etica si politicizza—nel senso che adopera mezzi politici per disarmare i reprobi, avvalendosi di  strumenti come la retorica e i tranelli tesi agli avversari.

In un’epoca di crisi, come quella che stiamo attraversando e che sembra desinata a durare ancora per molto tempo, le configurazioni del potere simbolico o culturale, che caratterizzano il paesaggio italiano, lungi dal farci uscire dal tunnel rischiano di rendere più ardua la guarigione. In un momento in cui c’è bisogno di unità nazionale, se non di union sacrée,e della consapevolezza che, prima di far entrare le squadre in campo, occorre rimboccarsi le maniche e rendere il campo agibile e sicuro per tutti, giocatori e spettatori, c’è chi vuol farci ripiombare nella guerra civile di tristissima memoria, chi chiama a raccolta gli amici del genere umano contro i ‘nemici del popolo’, chi ritiene che la Resistenza non debba mai andare in pensione ma vigilare armata sulle istituzioni e sui rappresentanti del popolo—anche se le armi sono soltanto simboliche e alle barricate si sono sostituiti i grandi raduni di piazza. Si tratti di bioetica o di rapporti sindacali, ogni tentennamento diviene un tradimento, ogni apertura alle ragioni degli altri, un modo di sottrarre le frecce alle faretre dei giusti.

Certo dietro tutto questo possono esserci frustrazioni personali—pensionamenti  ai quali non ci si è rassegnati, nonostante la perdurante visibilità sui mass media, giacché c’è una ‘febbre del palcoscenico’ anche per quanti hanno occupato elevate cariche politiche e amministrative; carriere universitarie, giustamente o ingiustamente, spezzate; persino avvenenze fisiche che, con l’avanzare degli anni, restano un pallido ricordo—ma assai più rilevante di questi fattori ‘privati’ è l’ideologia italiana, lo stile di pensiero, che attribuisce al ‘chierico’ non il compito di conoscere il mondo ma quello di cambiarlo, non il ruolo dello scienziato in laboratorio ma quello del profeta sul pulpito.  Tale stile di pensiero ha un bisogno quasi fisiologico del ‘nemico’, dell’incarnazione del Male. Lo sguardo imparziale dell’osservatore politico e sociale da noi non paga.: cercare di capire le ragioni (non riconducibili a corruzione morale e a cecità intellettuale) di chi vota per ‘gli altri’, significa esporsi a critiche feroci, come quelle che colpirono Renzo De Felice quando pubblicò il volume della sua monumentale biografia di Mussolini sugli «anni del consenso».

Bisogna riconoscere che, almeno sotto questo profilo, non può proprio dirsi che Benedetto Croce  abbia fatto scuola. In una memorabile lectio tenuta agli alunni dell’Istituto per gli Studi storici—raccolta poi in quell’autentico gioiello che è Storiografia e idealità morale (Ed. Laterza 1950)—il filosofo dichiarava di non avere alcuna intenzione di scrivere una storia del fascismo giacché non se la sentiva di mettersi « a contemplare e indagar uomini e fatti a me odiosi e ripugnanti e fastidiosi» ma aggiungeva « pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili».

La produzione intellettuale di Benedetto Croce può venir letta come la filosofia dei valori risorgimentali e postrisorgimentali, simboleggiata, soprattutto, da Camillo di Cavour e  da Giovanni Giolitti, ma nessun pensatore fu di lui più lontano dall’ideologia italiana nel senso detto. I nostri clercs appartengono alla razza dello spirito che partorì un tempo i Giovanni Gentile, i Giuseppe Bottai, gli Ugo Spirito e che oggi si ritrova in Stefano Rodotà, in Nadia Urbinati, in Alberto Asor Rosa: è la razza dello spirito di chi intende la democrazia come ‘riforma morale e intellettuale’ degli italiani non come umile e dimessa registrazione di ciò che vogliono, temono, si aspettano. Non c’è nulla di più egualitario del  principio «un uomo, un voto» ma non c’è nulla che risulti più estraneo a «coloro  che conoscono quale sia il vero bene del popolo».(Forse è superfluo avvertire, alla luce delle riflessioni fin qui svolte, che per me ‘fascista’ non equivale a delinquente o, peggio, a pervertito. Con l’indimenticabile Giacomo Noventa, credo anch’io che il fascismo fu un «errore della cultura», con radici antiche, non l’espressione di una depravazione morale).

Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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