Un’analisi della situazione europea dopo la Brexit
Un gatto nero ha attraversato la strada all’Europa. La Brexit è diventata una realtà. I risultati del referendum sono inequivocabili: il Regno Unito esce dall’Unione Europea.
La prima reazione è di stupore, perché gli ultimi sondaggi davano per vincente il Sì. La seconda reazione è: e adesso che succederà?
Uno sconquasso finanziario: il crollo delle borse europee, la sterlina ai minimi del 1983, la corsa al rialzo dell’oro, i mercati asiatici in picchiata. Ma questo era già prevedibile nel caso di un voto favorevole all’uscita. Sta di fatto che molti ci hanno già guadagnato. La speculazione è salva. S’infittiscono i commenti, ma il futuro appare molto incerto.
Se fossi stato inglese, avrei votato per “leave”. Troppa nostalgia del british rule, dell’Impero britannico, dello splendido isolamento, del Commonwealth, di un’isola che non è stata mai sconfitta ed ha dominato il mondo, d’una dinastia amata da secoli, simbolo del Paese. Una grandezza, oggi forse un po’ desueta, ma la cui memoria è forte, soprattutto fra gli over cinquanta. Avrei corso il rischio di perdere l’Irlanda del nord e la Scozia, filo comunitari. Quanto alle implicazioni economiche, sarebbe stato un trauma ma, poi, di certo, Londra si sarebbe risollevata.
Ma sono un europeo. E’ un monito per l’avvenire od una minaccia di morte?
ll Regno Unito non è mai stato parte dell’Europa così come noi l’abbiamo creduta. Fatta la prima Comunità europea, Londra organizzò l’EFTA, con i Paesi europei del nord. Ciò che loro interessava era il commercio, non i grandi ideali. Entrato tardivamente nell’Unione europea, il Regno Unito ha chiesto ed ottenuto condizioni speciali, sempre, a partire dalla sua economia agricola. Un partner mezzo partner, un po’ defilato dai grandi temi della politica comune. A Londra si è sempre fatto business e politica solo per fare ancor più business.
L’Italia, che a suo tempo fu un’accesa fautrice dell’adesione britannica, in cuor suo sperava in un asse anglo-italiano per contrastare l’egemonia franco-tedesca. Ovviamente, non è stato così: un’altra delle illusioni della diplomazia nostrana. Forse, l’esempio più probante del non interesse britannico all’Europa ci è stato offerto dal suo rappresentante per la politica estera comunitaria, lady Ashton, un nulla nel nulla (non che le cose siano cambiate con la nuova rappresentante italiana, la Mogherini!).
Ora, sempre parlando da europeo, si tratta di rimettere assieme i cocci. Perché il Regno Unito se ne andato? Perché non vuole pagare lo scotto degli altri, ad esempio, in materia d’immigrazione. Perché ha fiducia nel proprio Parlamento e nella propria giustizia e non in quelli europei, perché vuole essere libero dalle pastoie burocratiche di Bruxelles, perché è legato alla sterlina e rifiuta l’euro e le sue conseguenze, perché confida nei rapporti privilegiati con gli Stati Uniti ma, soprattutto, perché non crede negli ideali che furono al fondamento della Comunità europea. Loro sono un’altra cosa.
Per il resto degli Europei questi ideali sono stati delusi. Si auspicavano la libertà, la pace, la sicurezza, la cooperazione. Abbiamo tutt’altro: un’Unione che stenta ad essere sovranazionale, un direttorio tedesco con un partner dimezzato politicamente ed economicamente, come la Francia, una strada perversa imboccata sulla via del rigore che ha portato al dissesto le economie nazionali più deboli, nessuna politica, molte ripulse, una profonda incapacità d’essere un gigante politico ed economico. Diceva de Gaulle dell’Europa: un gigante economico ed un nano politico.
L’affrettata e sciagurata adesione, in un momento di euforia, dei Paesi dell’Est, dopo la fine del muro, che credevano di trovare la manna ed invece hanno trovato le spine, apre l’ipotesi di un “effetto domino” per il futuro. Polonia, Ungheria, Austria, Slovacchia ed i Paesi baltici mordono il freno. Non hanno trovato quello che speravano. Ma dove vanno? Con gli Stati Uniti?
La presidenza Obama è in ritirata ed i candidati a succedergli, la Clinton e Trump, non saranno proprio i padrini di un altro esodo dall’Unione. Se vince la Clinton, sarà la copia sbiadita di Obama, se vince Trump, è più facile un conflitto nucleare con la Corea del Nord che l’invio di missili balistici o di truppe in Polonia od in Ungheria.
Quindi, la minaccia di un effetto domino è molto relativa. Quel che è più grave, invece, è il vento dell’antieuropeismo, in Francia, in Spagna, in Italia, in Svezia. Francamente, se questi Paesi dovessero fare un referendum se restare od uscire dall’Unione, credo che ne verrebbero fuori risultati sconcertanti. Il paradosso è che tutti vorrebbero essere indipendenti e sovrani, ma tutti hanno bisogno di spazi commerciali e di libera circolazione. Se, uscendo dall’Unione, il Regno Unito diventa il 4% dell’economia mondiale, cosa sarebbero la Polonia o la Spagna o la Slovacchia? Meno di zero.
Inoltre, tutti questi Paesi, a cominciare dalla Francia, sono scontenti dei loro regimi nazionali. In sostanza, c’è un dissenso di fondo, talvolta clamoroso, che serpeggia in Europa. Bruxelles è lontana, impotente, spocchiosa ed incapace dei grandi slanci di cui avremmo tutti bisogno. A dir la verità, l’incapacità comunitaria di questi ultimi anni si è accoppiata con l’incapacità dei vari Governi nazionali di definire le loro strategie a medio termine.
Bruxelles non fa politica perche le capitali dei Paesi membri non vogliono, ma queste si lamentano, poi, perché non esiste una politica comunitaria diversa dal miglioramento degli scambi commerciali. Discutiamo dello spessore delle cozze o delle dimensioni delle uova, ma non abbiamo né una politica estera né una politica della difesa né una politica fiscale comune. Le differenze permangono e si acuiscono: il grande sforzo egualitario di una moneta comune è osteggiato e subìto. Così non va bene, e l’antieuropeismo ha molti motivi per essere ascoltato.
Ora, consumato il trauma inglese, occorre raccogliere i cocci e decidere se continuare così, verso lo sfacelo, con mezzi uomini e mezze politiche, oppure se la soluzione è il IV Reich. Potrebbe anche andar bene, se non si ha il coraggio di cambiare quasi tutto e di procedere sulla strada degli Schuman e dei De Gasperi. Le intuizioni di allora ci hanno dato quasi un secolo di pace. Non erano, poi, così idealistiche ed astratte. L’egemonia tedesca ci darà certamente più ordine, ma manterrà la pace? L’Ucraina è là, a mettere alla prova la diplomazia europea. Se questa non si muove, Putin se la mangerà, pezzo per pezzo.
Se, invece, si fa finta di nulla, continueremo a fare grossi favori solo agli speculatori. L’Europa è una cosa troppo seria per continuare a gestirla con i diplomatici ed i Primi Ministri, tutti tesi, i primi, a seguire direttive inconcludenti e, i secondi, a sondare l’umore degli elettori in vista della varie scadenze politiche nazionali. Non parliamo, poi, degli eurocrati ad alto livello: molta presunzione, nessuna idea, filo diretto con i Governi complici che li hanno nominati.
Fra qualche giorno voterà la Spagna: a Madrid Podemos ha fatto faville. Che ne verrà fuori? Fra secessioni regionali ed antieuropeismo, anche nella penisola iberica soffia un vento contrario a tutto quanto è stato fatto fino ad ora.
E nei Paesi Bassi? Esiste una situazione d’insofferenza molto forte, per non parlare poi della Danimarca.
Molti sostengono che i veri problemi saranno quelli finanziari. Certamente ce ne saranno, sarà una buona occasione per affrontare l’enorme bolla speculativa che incombe sul sistema mondiale. I nodi verranno tutti al pettine, nonostante le illusioni di Draghi e la strumentazione d’emergenza della BCE. Ma non sarà certo la politica della Banca europea a risolvere i problemi politici dell’Unione e neppure a salvare un sistema bancario asfittico.
La questione è, soprattutto politica. O l’Europa cambia o è del tutto inutile perdere tempo a sei o ad otto o a ventisette.
Diplomatiche