IL LATO OSCURO DI FRANCIS SCOTT FITZGERALD: CONQUISTARE ZELDA A OGNI COSTO

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“Dietro ad ogni grande fortuna c’è un crimine”
Balzac

“Non sono un grand’uomo, ma penso che nella qualità del mio talento, e nel sacrificarlo, vi sia
una specie di grandezza epica”
Francis Scott Fitzgerald a sua figlia Scottie

 

Chi scrive è pronto ad accettare scommesse che il più famoso scrittore americano del Novecento, Francis Scott Fitzgerald, copiò il suo esordio “The side of Paradise” per conquistare la viziata e fragile Zelda Sayre (era schizofrenica nascosta), figlia di un giudice dell’Alabama; la futura icona della Gilded Age del Jazz e dei Robber barons che disse la famosa frase: “una ragazza ricca non sposa uno povero” allo stesso Scott, a dir poco traumatizzato da questo commento e già danneggiato da un insuperato complesso d’inferiorità verso la borghesia a causa delle sue vicissitudini familiari. Ai tempi della pandemia del COVID-19 è forse il caso di menzionare un episodio personale, pur senza essere Indro Montanelli… Era il dicembre del 2017, quando lessi in quattro giorni quello che si rivelerà il libro più importante della mia vita: Il Grande Gatsby, divorato solitariamente nella villetta di Piero Ottone diroccata sul mare otto mesi dopo la sua dipartita. Tra una nuotata e l’altra di 40 minuti al giorno nella stupenda piscina comunale di Camogli – gustai fino alla fine il capolavoro di Scott (in vita vendette solo 15 copie, ma Francis era già famosissimo e ormai consunto dall’alcol mentre Zelda passava da un ricovero mentale all’altro prima di essere istituzionalizzata in manicomio per dementia precox). Con leggera sindrome di hybris – delirio di onnipotenza – lessi ad alta voce il romanzo sottolineando le frasi da thrilling cinematografico dell’opera che è passata allo schermo prima con Robert Redford e Mia Farrow e poi con Leonardo Di Caprio: bravissimi entrambi. Tutta la storia ruota intorno a questi fatti: un soldato americano di ritorno dal fronte della Grande Guerra, il self made a man finito quasi in rovina James Gatsby, incontra ad una festa presso un’abitazione dell’alta borghesia la bellissima Daisy Fay, con la quale intreccia subito una relazione che costituisce il grande amore della sua vita. C’è un problema, però, come spesso capita nelle love story di tal fatta: Daisy è il prototipo della “donna mantide”, una ragazza ricca, viziatissima in un melange di ingenuità e furbizia che è facile riscontrare anche nella social climber Diana Williamson, madre di David Bush, e non ha nessuna intenzione di sposare un nullafacente che si chiama James Gatsby: “Una ragazza ricca non sposa uno povero”. Per quest’uomo che veniva da una famiglia di contadini del Dakota, ambizioso fino al punto da ammazzare pur di scalare in fretta le pareti della social community nella quale tutti siamo immersi ma nello stesso tempo di infinito romanticismo, il diniego fu un’amara delusione che riservava una sola exit strategy da percorrere: delinquere, e riconquistare Daisy, nel frattempo sposata al miliardario Tom Buchanan. Un ereditiere dell’alta società che può tranquillamente essere paragonato a Peter Lawford, cognato di Jfk. Stessa stupefacente mediocrità cafonal, nel declino della società americana tra gli Anni Venti e la Camelot “sesso, sangue e droga” della Nuova Frontiera di cui James Ell Roy ci ha rivelato l’essenza con American Tabloid.
Nella fantastica Wikipedia è scritto: “Meyer Wolfsheim – a Jewish man Gatsby describes as a gambler who “fixed the World Series”. Wolfsheim is a clear allusion to Arnold Rothstein, a New York crime kingpin who was notoriously blamed for the Black Sox Scandal which tainted the 1919 World Series”.
Ma non perdiamoci in particolari ancorchè interessanti…
Come andò a finire questa storia? Alla fine James diventò il Grande Gatsby riciclando i soldi sporchi dell’alcol e acquistando un castello dove dava delle grandi feste, e per poco tempo – ma “è subito sera” – si illuse di avere sottratto Daisy all’aura mediocritas Buchanan… Ma al prezzo della vita.
Orbene, riepilogando: Daisy Fay nella realtà era Zelda Sayre; Francis nella realtà aveva passato un anno in caserma nel 1918 in attesa di ordini mai arrivati, ritirandosi a scrivere il suo primo romanzo (un fallimento): tra l’altro nei mesi e anni precedenti aveva commesso l’errore madornale di lasciare gli studi all’Università di Oxford a causa di una spiccata tendenza all’autoreferenzialità protagonistica nell’elaborazione di monologhi e pieces teatrali, a discapito della disciplina di seguire le lezioni degli insegnanti: con il disappunto dei genitori, perse l’opportunità di avere una cattedra nella medesima Università e scelse di andare a combattere al fronte; proprio come il personaggio leggendario di Gatsby, riuscì ad avere una sorta di laurea “ad personam” riservata ai soldati di rientro dal fronte contrabbandata per laurea tout court da Games Gatsby che appare davvero il suo eteronimo; come Gatsby, incontrò alla fine della Grande Guerra 1914-1918 Zelda a casa sua durante un cocktail party. Fu piantato in asso dalla sua bellissima fidanzata poco tempo dopo, perché il proposito comunicatole di diventare milionario scrivendo libri di successo fu tragicamente sconfessato dalla realtà: l’editore Maxwell Perkins, suo futuro amico, boccerà il manoscritto The side of Paradise: Di qua dal Paradiso. A quel punto, Francis rischiava la povertà, era stato piantato in asso dalla corteggiatissima figlia del giudice dell’Alabama e in meno di tre settimane riaggiustò completamente Di qua dal Paradiso, che venne questa volta accettato perché aveva i lineamenti e i contenuti di un lavoro perfetto!
Ma com’era stato possibile? Nel bellissimo “Amore e morte di Zelda e il suo Gatsby”, a cura di Stefano Giani su il Giornale.it, si osserva: “… Francis Scott Fitzgerald non era ancora il Grande Gatsby ma stava studiando per diventarlo. Guardava la ricchezza dei nonni materni e la paragonava all’indolenza di papà; studiava a Princeton e si ritrovò in Florida, sottotenente a Fort Leavenworth da dove poi “emigrò” per l’Alabama. La divisa e il fascino ne fecero l’icona agli occhi di una ragazza che non era come tante altre. Lei, Zelda Sayre, era la figlia del Giudice, non la figlia di un giudice. Lei, Zelda Sayre, amava gli uomini con tanti soldi in tasca e l’aria intellettuale e altolocata. Lui Francis Scott sembrava cucito su misura. Eppure non tutte le favole hanno un lieto fine. E quell’ufficiale con un romanzo in tasca pronto per le stampe perse l’ok dell’editore e un sacco di quattrini. Un bingo al contrario che lo fece precipitare nella gerarchia di apprezzamento della bella Zelda. Il fidanzamento andò in frantumi e Scott affogò i dispiaceri nell’alcol. Zelda naturalmente non se ne diede peso eccessivo, ma siccome il sottotenente le era rimasto nel cuore, rispolverò l’affetto in fretta e furia appena Francis toccò il successo con un dito e se lo mise in tasca con tutta la mano. Era il marzo del ’20 quando uscì “Di qua dal paradiso”, un paio di centinaia di pagine dal sapore autobiografico, nelle quali dietro Amory si nascondeva Scott e tra le pieghe di Rosalind c’era il volto mite di Zelda. Tutti e due al di qua dal paradiso ma ancora per poco. L’amore trionfò e la cattedrale di San Patrick, a New York, suggellò, tra la bella e l’ufficiale, quel legame che, d’ora in avanti, avrebbe vissuto un po’ come i Twenties, roaring sì, ma anche sincopato, come il jazz di quegli anni, e le note che uscivano dal piano di Duke Ellington, dalla cornetta di Satchmo Armstrong e dal clarinetto del talento d’oro di Benny Goodman. Scott e Zelda vissero a 300 all’ora, l’America poi l’Europa, Francia e Italia. Traguardi di una generazione ancora poco perduta che divennero improvvisa realtà. Costa azzurra, Roma e Parigi: lustrini e paillettes, sogni e incubi. E la vita dei coniugi Fitzgerald divenne un incubo. Un tunnel senza fine. E fu lost generation per davvero. Il crollo di Wall Street che nel ’29 siglò per sempre la fine dei ruggenti anni Venti e dell’età del jazz fu anche l’inizio della fine dei Fitzgerald. Scott precipitò nel vortice dell’alcol, nell’obnubilata consapevolezza di dover scrivere, e scrivere bene, per mantenere una moglie che a trent’anni aveva perso la testa. Nel vero senso della parola. La diagnosi di schizofrenia arrivò nell’aprile del ’30 e lasciò a Zelda oasi di lucidità…”.
Parole emozionanti quelle di Giani, davvero.
Quando Scott descrive formidabilmente bene nel 1925 nel suo libro Il Grande Gatsby l’incontro da hollywoodiano thrilling, in albergo, a New York tra Tom Buchanan, James Gatsby, Daisy Fay e la campionessa di golf Jordan Baker, e Buchanan con l’ingenuità rambesca e rimbambita di cui era capace smaschera il social climber che porta a letto sua moglie, parla di se stesso.
E’ la sua autobiografia. E’ quello il suo capolavoro.
Nel libro “Il grande (fallimento) Gatsby” di Claudia Scavo ci sono delle analisi così erotizzanti e profonde insieme che dovrebbero essere materia di studio nei disastrati licei italiani, ma anche nelle università; ci sono gli echi del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler nella tragedia umana dell’“eroe tragico” Scott: “… sebbene la denuncia del denaro rappresentato come un veleno contro la libertà umana è uno dei temi ricorrenti nella Generazione Perduta, lo stile di vita di quella generazione non ha respinto il denaro, ma si è illusa di metterlo sotto una nuova luce proponendo nuovi moduli di comportamento. Fitzgerald non si limitò ad essere il maggior esponente di questa nuova èra, ma ne creò il costume: la sua vita stessa, nella parabola di miseria-successo-rovina, riflettè la vita economica e sociale degli Stati Uniti nel decennio 1920-30. Il successo economico era ormai il metro di giudizio: poeti, pittori, romanzieri, critici, giornalisti e produttori, valevano soltanto se erano in grado di procurarsi un cospicuo guadagno; non c’era posto per i poveri, i deboli e i falliti. Chi non aveva quattrini non aveva credito, e chi non aveva credito non aveva quattrini; era nato l’isterismo del guadagno.
In un paese dove il tema dominante era la frenesia del guadagnare, non poteva non succedere che la ricchezza venisse identificata col simbolo della libertà e della felicità.
Fitzgerald disprezzava e insieme invidiava i ricchi – come il suo personaggio Nick Carraway in The Great Gatsby – ; li disprezzava per la volgarità e la vacuità dei costumi, ma li invidiava per le possibilità che si spalancavano loro al solo passaggio. Egli stesso afferma: “Non sono mai stato capace di perdonare ai ricchi di essere ricchi e questo ha dato una piega alla mia vita e al mio lavoro”.
Fitzgerald si sentì quindi sempre perseguitato dallo spettro della mediocrità, e ancor più quando incontrò Zelda.
Zelda era la ragazza che “vuole quello che vuole quando lo vuole”, che non vuole “pensare alle pentole, alla cucina e alle scope”, ma preoccuparsi soltanto di avere “gambe lisce e abbronzate per andare a nuotare d’estate”. Poteva permettersi tale atteggiamento perché era ricca, e non c’era uomo che non s’innamorasse di lei; anche Fitzgerald se ne innamorò, ma non potè coronare il suo sogno finché non fu anch’egli abbastanza ricco, perché “un ragazzo povero non può sposare una ragazza ricca”.
Questo tema è appunto affrontato con spirito melanconico e allo stesso tempo disilluso nel The Great Gatsby. Quando il suo This Side of Paradise si rivelò un trionfo e le vendite gli procurarono i quattrini necessari ad essere stimato un grande artista, Zelda potè aprirgli la porta del suo cuore, così come aveva fatto il successo. Si sposarono, e il resto appartiene alla leggenda, erano divenuti il simbolo stesso dell’Età del Jazz: giovani sofisticati e pieni di fascino che cercano di vivere il sogno americano del denaro, del successo e della felicità, e che alla fine si scontrano con la tristezza e perfino la tragedia…”.

Ps – La tragedia del fallimento nella prematura dipartita per arresto cardiaco a 42 anni, certo, perché talvolta l’imbroglio ha questo costo quando dietro c’è un background nevrotico.
Ma non è forse vero che l’imbroglio, il crimine, la truffa – siamo sinceri – non è forse che una manifestazione della sacra follia di Platone?

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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