Un tipico comportamento da magistrato che si preoccupa più della propria immagine che della giustizia
L’anaffettivo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, nella sua cinica saggezza, parla dell’“irrigidimento paranoico-immunologico” con tratti isterici del narcisismo nel soggetto clinicamente delirante, quando esso – pur di non ammettere la sconfitta dei suoi sogni e/o obiettivi – resiste al cambiamento frustrante, dunque allo “straniero interiore che preme alle frontiere”: “Nei momenti di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza, per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento…Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario”.
Un simile atteggiamento di resistenza nevrotica allo “scandalo del reale” lo troviamo senza dubbio nel tormentatissimo ex pubblico ministero Antonio Ingroia di fronte all’assoluzione totale dell’on. Calogero Mannino nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, che costituisce un colpo al 50% della sua res iudicanda (fase centrale del dibattimento).Nota bene il giornalista di razza Attilio Bolzoni su “la Repubblica”, con il consueto equilibrio giornalistico che lo caratterizza, che “Una prima sentenza, implacabile, segna il destino del processo sulla trattativa Stato-mafia. Con l’assoluzione di Calogero “Lillo” Mannino il dibattimento sembra già chiuso…Sono passati più di vent’anni dai massacri siciliani, da Falcone e Borsellino. E a questo punto è necessaria – inevitabile – una profonda riflessione sulle indagini avviate subito dopo quelle stragi del ’92, su un “metodo” giudiziario che non sempre riesce a raggiungere gli obiettivi che insegue…Bisogna prenderne atto, al netto di convinzioni o di suggestioni. E’ l’assoluzione di Mannino nella trattativa Stato-mafia che lo impone”.
E invece che cosa fa Ingroia? Protesta come un narciso ferito che lancia un attacco “berlusconiano” alla magistratura giudicante tale da doverlo portare davanti al Csm, anche per lesione all’organo costituzionale della Presidenza della Repubblica: “Non sono sorpreso da quest’assoluzione perché nessuno, in Italia e soprattutto dentro le Istituzioni politiche e giudiziarie, voleva questo processo che ha creato grattacapi e persino conflitti con il Quirinale”. Tra parentesi, non corrisponde al vero che il pur stigmatizzabile conflitto d’attribuzione Procura di Palermo/Quirinale riguardasse un intento vessatorio di Napolitano sul processo in questione, proprio perché semmai riguardava la distruzione camerale di intercettazioni penalmente irrilevanti che sarebbero state comunque “eliminate” dal suddetto processo nel contraddittorio tra le parti (lasciando inalterata la struttura dell’impianto accusatorio). Affermare dunque che Napolitano avrebbe condizionato persuasivamente, con una sorta di “immoral suasion”, l’assoluzione di Mannino sui rapporti mafia/politica è narcisisticamente delirante.Resta poi la grande anomalia sullo sfondo: la trattativa in sé non è reato, non esiste nel nostro ordinamento perché il codice penale non lo prevede, e la narrazione del “factum probans”, cioè del fatto probatorio, viene sostituita dal “fumus persecutionis” sociologico in atti giudiziari. Si fa sociologia al posto delle notizie di reato in atti giudiziari! Tuttavia la questione si complica, perché la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta processo Borsellino-ter denuncia – come osserva Simone Falanca in “ALFA E BETA”- che “i tre eventi esterni che spiegano la caduta dei tempi nell’eliminare a ogni costo Borsellino, per i giudici di Caltanissetta sono: 1. L’intervista rilasciata nel 1992 al giornalista francese Fabrizio Calvi da Borsellino, in cui il magistrato “Forniva indicazioni sulla conoscenza di Mangano con il Dell’Utri e sulla possibilità che il Mangano operasse come testa di ponte della mafia a Milano in quel medesimo ambiente…2. Borsellino viene a conoscenza della trattativa in corso tra Cosa Nostra e uomini dello Stato e cerca di bloccarla…”.3. L’alta probabilità che, dopo la morte di Falcone, Borsellino diventasse procuratore nazionale antimafia”. Disse Ingroia rettificando le sue iniziali posizioni: “Ma il processo non serve a dimostrare la sussistenza della trattativa, quanto se a causa della stessa magistrati onesti siano morti e per accertare dunque reati nella medesima”. E’ stato lui stesso, insomma, ad ammettere il “peccato politico” dell’architettura probatoria dell’indagine….
Un disastro all’italiana.
Alexander Bush