Un piccolo saggio sulla pretesa di essere depositari della verità
Chiara Saraceno è intervenuta sulle ‘unioni civili’ con un articolo pubblicato su ‘Repubblica’ il 15 gennaio che merita un commento non frettoloso. Sorvoliamo, per non essere ingenerosi, sulla retorica (per adoperare un eufemismo) chiusa del pezzo in cui la Gr. Uff. della Repubblica Italiana (fu Ciampi a insignirla dell’onorificenza) denuncia la “difficile laicità di questo nostro Paese, dove le grida contro il fondamentalismo religioso altrui nascondono quello autoctono di casa nostra”. Un esempio tale di cattivo gusto – tipica espressione del furore ideologico – è difficile trovarlo nella stampa italiana, pur così lontana dalla sobrietà, in un periodo drammatico, come quello che stiamo vivendo, in cui ogni giorno qualcuno salta in aria nei vari attentati, organizzati nei quattro angoli della terra, dal terrorismo islamico.
Ma tant’è, ciascuno a suo modo. Resta il fatto che una sociologa che non distingue tra potere – quello detenuto da governi e movimenti politici e religiosi che contro i dissidenti possono far uso della violenza – e influenza – l’autorità morale esercitata da agenzie spirituali, anche qui politiche o religiose, sui loro seguaci – e che, davanti ai paventati (chissà poi perché) family day si richiama ai diritti universali dell’uomo e del cittadino è qualcosa che avrebbe fatto inorridire antenati e padri fondatori della disciplina, da David Hume -filosofo della ‘grande divisione’ tra ‘fatti’ e valori’ a Max Weber – il teorico dell’avalutatività delle scienze sociali. Non vorrei mancare di rispetto agli amici cattolici – molti dei quali conosco da una vita come autentici liberali – ma, forse, le ideologiche ‘metastasi della mente’ che non sembrano aver risparmiato la Saraceno (un cognome che nella storia dei cattolici italiani ha pur rappresentato qualcosa) vanno imputate anche a una certa cultura, quella del ‘Sillabo’ e di ‘Civiltà cattolica’ che, indipendentemente dai suoi contenuti teologici e politici e dal suo stile pedagogico (variabili nel tempo, da Luigi Taparelli d’Azeglio a Franco Rodano), è rimasta ancorata a un giusnaturalismo dogmatico per il quale l’arena politica non è un luogo in cui si affrontano opinioni (doxa) in conflitto ma il battlefield in cui i ‘buoni’ si battono e prevalgono sulle forze del Male. “La ribadita pretesa di essere depositari del potere di definire il lecito e l’illecito, l’umano e il disumano” è sicuramente inaccettabile per un (vero) laico, ma il punto è: perché non dovrebbe valere per tutti, laici e non laici, credenti e atei, illuministi e tradizionalisti? Se ci sono ‘diritti’ e ‘libertà’ che per alcuni sono indisponibili mentre per altri sono discutibilissimi – ad esempio la facoltà di abortire -perché i primi dovrebbero sentirsi funzionari dell’Umanità contro i secondi degradati a tirapiedi della Santa Inquisizione?
Non solo in campo bioetico ma in tutti i settori della vita civile ogni nuova legge pone problemi più o meno gravi giacché non c’è cambiamento nel modo di vivere e nei rapporti sociali che non abbia i suoi vantaggi (sottolineati da chi è a favore) e i suoi inconvenienti (sottolineati da chi è contro): gli uomini pensosi e responsabili sanno che le loro tesi “vincono ai punti”, ovvero non si nascondono che i loro avversari non rappresentano il Torto ma un minor numero di buone ragioni. La Chiesa, autorevole all’interno della comunità dei credenti, come qualsiasi altro partito, dovrebbe rinunciare alla pretesa d’imporre la visione del magistero cattolico a parlamentari e governanti: a decidere una misura legislativa, infatti, sono unicamente i rappresentanti del popolo sovrano.
Giustissimo, ma perché, poi, impedire a chicchessia di battersi, appellandosi all’opinione pubblica, perché quella misura venga approvata o respinta? Leggendo gli articoli e ascoltando gli interventi dei laicisti sembra che tutte le persone ragionevoli debbano essere d’accordo sul diritto dei gay all’utero in affitto, all’adozione eccetera. E come regolarsi se, indipendentemente dal catechismo e dal prete, ci fosse chi resta legato al matrimonio tradizionale e a una concezione della ‘normalità’ che sarà pur considerata ripugnante dalle filosofe Michela Marzano e Nicla Vassallo, ma si rifà a valori tradizionali che non sono più veri o più falsi dei valori ‘moderni’e per la semplice ragione che ‘vero’ e ‘falso’ riguardano i giudizi di fatto non i ‘giudizi di valore’? Le etiche sociali possono evolvere, sicché quanto in un‘epoca’ veniva definito come aberrante e ‘anormale’ può diventare il ‘senso comune’ di quella successiva. Ma, nel corso, dei secoli si è assistito, altresì, a qualche ‘marcia indietro’ (per parlare come Saraceno & C.) sicché, ad esempio, i romani che, come Tacito, disapprovavano l’omosessualità (una minoranza, stando ad Eva Cantarella) si videro, per così dire, ‘vendicati’ nei secoli successivi. Si è tenuti ad accettare il ‘verdetto della storia’ – rispettando, ad es., la decisione della maggioranza degli irlandesi di assimilare le coppie di fatto ai coniugi del vecchio codice civile – ma perché questo dovrebbe comportare la santificazione morale del principio vincente e la squalifica di quello perdente? Ancora oggi leggiamo Edmund Burke e René de Chateaubriand, Honoré de Balzac (Marx lo preferiva al progressista Eugène Sue) e Th. S. Eliot e, anzi, il grande Isaiah Berlin leggeva più volentieri i reazionari che i liberal: sicuramente non sono i livres de chevet delle femministe su ricordate ma ne faremo (almeno idealmente) un rogo, sulle orme del Dr. Goebbels?
“La disponibilità al dialogo, ove i valori ‘non negoziabili’ non sono più gridati, ma dati per scontati, con ‘misericordia’ e ‘compassione”, |lo stile che la Saraceno attribuisce a Papa Bergoglio| certo, ma sempre immodificabili, è solo una beffa. Sottoscrivo toto corde giacché, nella mia ottica scettica ed empiristica, parlare di valori ‘non negoziabili’ e immodificabili non ha molto senso ma, una volta fatta questa non costosa concessione, chiedo pure che mi si dimostri perché il riconoscimento del matrimonio gay, con tutti gli effetti di legge che ne derivano, dovrebbe venir riconosciuto come un diritto individuale assoluto, sottratto ad ogni discussione critica e perché, come italiani, dovremmo vergognarci di quanti lo contestano.
Ho l’impressione che pur discorrendosene tanto, da noi è sempre più lontano il “pluralismo preso sul serio”. Quando i nostri intellettuali militanti esaltano il pluralismo (termine, lo confesso, di cui ho sempre diffidato), in realtà, hanno in mente a) il pluralismo ‘negativo’, inteso come testa d’ariete indispensabile per abbattere le mura della Tradizione; b) il pluralismo ‘positivo’, quello interno a un’area politico-ideologica ben determinata. Il primo, alle soglie dell’evo moderno, mandava in visibilio quanti venivano a conoscere nuovi popoli e nuove religioni che smentivano la Rivelazione; il secondo, nel corso della rivoluzione sovietica, veniva rivendicato dai rivoluzionari come Rosa Luxemburg che esigevano un dibattito libero e aperto dentro il movimento comunista sui metodi e gli obiettivi della conquista del potere borghese (la libertà è soprattutto la libertà di chi dissente… da Lenin..).
Nel nostro paese, la pianta del pluralismo senza aggettivi, come la pianta del liberalismo senza aggettivi, non trova un terreno culturalmente predisposto. Per i cattolici (soprattutto quelli dentro il Pd) che hanno redatto il “documento collettivo contro, non solo l’adozione del figlio del partner, ma ogni sospetto di somiglianza tra unioni civili e matrimonio”, Chiara Saraceno nutre solo un sentimento di profonda indignazione. Ne L’era delle tirannie, Elie Halévy, uno dei maestri di Raymond Aron, aveva scritto: “Quando applicando su noi stessi i metodi della ricerca storica, siamo condotti a scoprire le ragioni delle nostre convinzioni, spesso constatiamo che esse sono accidentali, che derivano da circostanze di cui non siamo responsabili. E forse, vi è implicita una lezione di tolleranza. Se si è ben compreso ciò, si è indotti a chiedersi se vale la pena di massacrarsi gli uni con gli altri per convinzioni la cui origine è così fragile”.
Se la Saraceno avesse meditato su queste parole, forse le sarebbe sorto il sospetto che “i diritti civili, bene fondativo della stessa cittadinanza in un Paese democratico” non sono “a disposizione di una o un’altra ideologia o concezione valoriale”, ma solo perché “ogni ideologia o concezione valoriale” li interpreta a suo modo e, nel conflitto delle interpretazioni, prevale non quella più ‘vera’ (che non c’è) ma quella che avrà convinto i più…
Dino Cofrancesco