La Rai fa davvero un servizio pubblico? Assolutamente no e proviamo a spiegarlo in poche parole senza però banalizzare la questione. La Rai è di proprietà dello Stato ed è soggetta a una particolare disciplina di governance. Il Consiglio di Amministrazione non è nominato esclusivamente dagli azionisti: sette consiglieri vengono eletti dalla Commissione parlamentare di vigilanza, due vengono indicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che è il maggiore azionista della RAI.
Tra i consiglieri di sua nomina, il Ministero dell’Economia e delle Finanze indica il Presidente del Consiglio d’Amministrazione. Per insediarsi il Presidente deve ottenere un voto di gradimento da almeno due terzi dei membri della Commissione parlamentare di vigilanza.
Il Consiglio d’Amministrazione vota il Direttore Generale, che ha sempre un mandato di tre anni rinnovabile, ed è anch’esso di nomina del Ministro dell’Economia.
Questo cosa vuol dire? Che il Cda è nominato dalla politica, quindi dai partiti secondo una logica che un tempo si chiamava manuale Cencelli. La cooptazione e la scelta politica sostituiscono il merito. Di conseguenza le scelte e le nomine fatte da un Cda politicizzato saranno a loro volta politicizzate e così a scendere nell’organigramma fino a giungere alle redazioni.
Attenzione però. Proprio per garantire una minore politicizzazione la Rai ha deciso ultimamente di assumere attraverso un concorso. E qui viene il bello. L’ultima selezione prevede l’assunzione di 75 giornalisti a intergare i 40 che lasciano l’azienda in regime di prepensionamento. Quaranta giornalisti saranno scelti attraverso selezione pubblica tra i professionisti che hanno già lavorato o lavorano con contratti atipici in Rai. Quindi i giornalisti che non hanno avuto a che fare nulla con la Rai devono rassegnarsi. Ma il fatto davvero singolare è un altro: la chiamata diretta degli allievi della Scuola di Giornalismo di Perugia. Una scelta che discrimina gli altri colleghi e soprattutto fa dell’istituto umbro una vera e propria scuola aziendale, in cui mamma Rai “cresce” e poi assume i suoi giornalisti. Una pratica non prevista dall’Ordine dei giornalisti (di cui si auspica comunque presto l’abolizione) che proibisce questo modo di agire. Insomma, chi ha studiato in altre Scuole di Giornalismo è figlio di un Dio minore. Pazzesco!
La Rai inoltre è un’azienda che sta sul mercato, ma a differenza delle concorrenti gode di una risorsa in più oltre alla pubblicità: il canone. Praticamente ha come Mediaset, La7 e altre emittenti ha la pubblicità e in più ha come ulteriore introito una vera e propria tassa che i cittadini sono obbligati a pagare se possiedono un televisore. E nonostante ciò i conti sono sempre in rosso, senza considerare l’alto numero di dipendenti e i compensi generosi elargiti a diversi dirigenti e consulenti.
A questo punto come si potrebbe fare per avere un vero servizio pubblico? La strada è una e da sempre i Comitati per le Libertà chiedono che venga percorsa: privatizzare l’azienda mantenendo un solo canale pubblico che viva senza pubblicità e con il solo canone pagato dai cittadini. Il modello? La BBC, un’azienda ritenuta, anche fuori dal Regno Unito, uno dei più autorevoli operatori radiotelevisivi del mondo, anche in ragione delle tradizionalmente rigorose modalità di produzione dei dati giornalistici che l’hanno resa un punto di riferimento per la categoria.
La BBC infatti, avendo una governance che le garantisce indipendenza e non le permette di raccogliere pubblicità, resta del tutto libera da influenze politiche e commerciali e può fare veramente quello che in Italia oggi è un sogno: il servizio pubblico.
Renato Cantagalli