Può una filosofia di vita come il Tao essere liberista?
Il liberismo non è un’ideologia congegnata a tavolino da alcuni illuminati in un dato periodo storico. E’ una dottrina economico-politica che affonda le sue radici in uno degli elementi fondamentali ed eterni della personalità umana: la libertà. E se è vero che la sua formulazione più perfetta si trova nel jeffersoniano “Stato minimo” e la sua applicazione più coerente nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, è anche vero che spunti liberisti si trovano in ogni civiltà sana, che rispetta i corpi intermedi e le articolazioni naturali degli organismi sociali. Così si può ben parlare di un liberismo medioevale nel caso del feudalesimo, in cui ogni realtà locale aveva le sue leggi, regolamenti e costumi, pur nell’ambito di un coordinamento generale dato dal centro imperiale, autorità suprema ad un tempo spirituale e politica, ma non certo accentratrice o tirannica. Il virus statalista si infiltra in Europa già con Filippo il Bello (1268-1314) ed è soprattutto con le monarchie assolute e nella modernità che darà i suoi frutti più velenosi, fino a culminare nel mostro bolscevico e nello Stato Sociale in cui viviamo, dove una tassazione da rapina e un controllo capillare delle coscienze tramite i mezzi di comunicazione di massa ha realizzato un comunismo di fatto ben più pernicioso (perché più subdolo e apparentemente meno dittatoriale) del suo cugino marxista.
Anche l’estremo oriente ha conosciuto l’opposizione fra dottrine liberticide e dottrine liberiste. In quell’area del mondo hanno prevalso di gran lunga le prime, che hanno la loro radice nel confucianesimo. A Confucio si rifanno tutti quei governanti (fino agli attuali dirigenti cinesi) che impongono un capillare controllo su tutte le attività dei loro cittadini, o meglio sarebbe dire sottoposti. Lo Stato, sostengono, deve essere retto da un’élite di illuminati che ieri erano i mandarini e oggi sono i tecnocrati al timone del colosso cinese. Nulla sfugge al vigile occhio della burocrazia statale. Persino la sfera religiosa deve sottostare ai suoi diktat. Tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato, direbbe Mussolini. A questa scuola si contrappone la dottrina taoista, famosa non solo perché ispira la filosofia che sta dietro alle arti marziali, ma anche in quanto postula la necessità che il governante agisca il meno possibile, come una presenza quasi invisibile, una garanzia dell’ordine naturale della società, che si sviluppa secondo i suoi criteri, senza regole rigide che cadono dall’alto. Il governo migliore è quello che governa di meno, direbbe Jefferson. Il fondatore di questa scuola è un personaggio leggendario, Lao-tze, vissuto in Cina con tutta probabilità fra il 570 e il 490 a.C. E’ merito di Julius Evola nella magistrale introduzione al Libro del Principio e della sua azione l’aver sottolineato che “un superiore ordine si realizza nel mondo in modo invisibile e spontaneo, modo in un certo senso magico detto dal taoismo non agente”. Gli uomini del Tao, che poi sono i saggi governanti, esercitano la loro influenza efficace col solo esserci, impersonalmente, fuori da ogni fare. Dirigono senza toccare, dominano senza costringere, portano a termine il minimo necessario per garantire il buon governo (essenzialmente nei campi della sovranità monetaria, dell’ordine pubblico e della difesa dei confini) senza intromettersi nei settori che devono essere delegati ai corpi intermedi come la famiglia e le corporazioni (lavoro, sanità, educazione). Tale è la Virtù (intesa come forza) del Grande Principio. Il precetto è quello di escludere nel governo la coercizione (ad eccezione dei casi di repressione di eventi delittuosi), di non intervenire nel meccanismo complesso e delicato delle forze sociali. Lao-tze era convinto, e a ragione, che il pianificare, il superorganizzare, l’imbrigliare nei meccanismi kafkiani di una burocrazia invadente e di una malagiustizia prevaricatrice, il legiferare in continuazione (la nostra selva legislativa, e non solo in materia fiscale, è lì a dimostrarlo) conducono a effetti opposti di quelli desiderati e cioè al caos sociale, al si salvi chi può, all’evasione fiscale come forma di legittima difesa del piccolo imprenditore vessato. L’optimum politico taoista è lo Stato in cui i “diecimila esseri” quasi non sanno di essere governati. L’azione dello Stato “celeste” pur essendo sottile, invisibile e immateriale non è meno reale, ma anzi molto più efficace dell’uso ottuso della forza e degli interventi attivistici dello statalismo onnipresente. Il sovrano taoista esercita “l’azione del Cielo” con la sua semplice presenza, “senza movimento”, come l’aristotelico motore immobile. L’influenza benefica del sovrano risolve tensioni, modera, compone invisibilmente il gioco delle forze nell’equilibrio totale, vince senza combattere, proprio come nelle arti marziali viene detto che non l’attaccare, ma lo schivare l’avversario fino a renderlo inoffensivo è la chiave per la vittoria. Echi di questo insegnamento si sono avuti fino all’ultimo periodo imperiale cinese, in cui il sovrano godeva di una certa “invisibilità” e solo rarissimamente si mostrava in pubblico: “Si influenza mantenendosi distanti”. Nella filosofia della storia taoista a questa forma originaria del sovrano invisibile subentra il re visibile e popolare, amato dal popolo. E’ già una forma declinante di potere che oggi chiameremo populismo. In un terzo momento subentra il principe che governa perché temuto: è il dittatore. Si giunge infine all’era ultima in cui i governanti sono allo stesso tempo temuti e disprezzati: è il momento che viviamo oggi anche in Italia. Ogni rapporto di lealismo e fedeltà è spezzato: il re è nudo, spogliato da ogni autorità legittima, il suo potere è puro sopruso. E’ anche lo stadio in cui lo Stato raggiunge il massimo dell’instabilità e il minimo della credibilità. Per questo deve usare la forza spesso in modo del tutto irragionevole, ad esempio colpendo i propri cittadini con ogni tipo di mortificazione, multa, divieto, sottrazione indebita di beni, favorendo l’invasione di genti straniere del tutto estranee alla sua civiltà, stipulando patti sottobanco con la malavita organizzata, arrivando perfino a legittimare l’uccisione degli innocenti nei grembi delle loro madri (l’aborto).
Il taoismo non predica l’anarchia, ma l’armonia. La sua dottrina è anzi avversa ad ogni individualismo in quanto condanna l’agitazione per fini innaturali, l’avidità, lo squilibrio e l’eccesso. Al centro di tutto la consapevolezza che “si governa con la drittura”:
“Seguire il non-agire
E il popolo si svilupperà secondo la sua natura
Non agitarsi
E il popolo troverà la giusta via
Non darsi da fare
E il popolo prospererà da sé
Escludere piani e programmi
E il popolo tornerà alla spontaneità naturale”.
di Andrea Colombo