Il caso di un intervista sulla morte di Williams: per alcuni sociopatologi l’avere successo è sintomo di una malattia da curare..
apre uno spiraglio tra socio psichiatria Intervistato dall’Huffington Post sul suicidio del grande attore Robin Williams, il telepsichiatra basagliano Paolo Crepet rivela quasi dichiaratamente la sua ostilità reconditamente cattolica al successo, la “negazione delirante” della psicopatologia bipolare per sostituirla con la socio-patologia da quattro soldi, e il compiacimento sadico per il fatto che-in fin dei conti-l’artista poliedrico e istrionico di Hollywod si sia tolto la vita, perché stritolato dallo star system. Sì, forse Crepet ne è contento.
Vediamo perché in un’attenta analisi delle sue parole:“In quella villetta californiana alla fine c’era un uomo terribilmente solo, angosciato dal futuro, che non è riuscito a inventarsi un secondo tempo, una nuova carriera nella regia, o nella politica. Era troppo genuino per farlo, e invece in quel mondo sopravvivono solo le persone meno sensibili. Insisto, nell’Attimo Fuggente c’è quasi una profezia sulla vita stessa del suo protagonista”:psicoballe sesquipedali. Come se Williams fosse stato un perdente, un uomo fragile. Detto da uno psichiatra, oltretutto, è davvero sconcertante. E poi, nel ragionamento di Crepet c’è la sempiterna “patologizzazione” del successo equiparato al “falso io”-un errore di valutazione esiziale-come se la istrionicità e il protagonismo, che sono invece elementi propulsori del progresso sociale, coprissero una sottostante fragilità della personalità:“Mi ha colpito vedere in queste ore alcuni spezzoni di sue vecchie interviste tv, talk show in cui appariva sempre su di giri, come se lui per appagare il pubblico dovesse sempre essere “iper”, far ridere, fare imitazioni.
E invece, evidentemente, Williams aveva bisogno di essere accettato per quello che era davvero, un uomo con le sue debolezze, le sue grandi fragilità”. Al fondo ci sarebbe stato “il travestimento come via d’uscita”, cioè l’elaborazione con i collaudati trucchi diabolici della fiction di una “falsa persona” di successo per celarne la vera natura psicofragile.
E’ vero il contrario, santo cielo: dato che l’istrionicità, la talentuosità narrativa e la grande persuasione oratoria di un uomo della tensione etica e artistica di Robin Williams rappresentavano valori intrinsechi della sua personalità, bastava semplicemente-semplicemente si fa per dire (sic!)-che si curasse, nel senso tecnicamente farmaceutico del termine. Come hanno fatto, ad esempio, grandi talenti della penna come Indro Montanelli coltivatore di una sterminata lista di ideazioni suicide. Tuttavia anche su questo punto Crepet sbaglia, e lancia purtroppo messaggi vagamente criminogeni (cioè quasi d’istigazione al suicidio):
“Il suicidio rientra tra le libertà dell’uomo. Non condivido l’idea di una psichiatria chiamata a fare da terapia coatta…”. Vergogna, Crepet, due volte.
Se dipendesse da lui, ci sarebbero altri dieci, cento, mille suicidi alla Van Gogh 1) e 2), il successo verrebbe quasi sempre etichettato come una patologia psichica nei momenti di crisi bipolare e ciclotimia che richiedono medicalità farmacologica e non analisi sociopersonologiche 3) Chi nega il bipolarismo non è un buon medico, perché vola alla cieca.
Ricordiamolo:è l’ideologia gesuitico-cattolica a condannare il successo come se fosse lo schermo di chissà quali “arcana segreti”. Meno sociopsichiatria per favore, più psicopatologia a impronta medicinale vorrebbe dire avere una cultura liberale e un profilo deontologico.
Alexander Bush