Mobilità sostenibile, green economy, politiche energetiche: temi ogni giorno più attuali, al centro del dibattito politico nazionale ed internazionale. Argomenti, però, spesso ritenuti lontani dal comune cittadino, che vede in queste discussioni qualcosa di astratto rispetto alla propria quotidianità. E invece sarebbe un grave errore sottovalutare, ad esempio, l’impatto che ogni giorno tutti noi abbiamo con il nostro modo di vivere la città, sia esso a livello di consumi energetici oppure di scelte in fatto di trasporti. Ebbene, siamo andati a parlarne nel salotto di Edoardo Croci, candidato in Regione con la lista “Energie per la Lombardia” in supporto della coalizione di centro-destra che fa capo, in Lombardia, ad Attilio Fontana. Un bel giro di parole: di fatto, un politico esperto in materie ambientali. Docente all’Università Bocconi, dove è direttore di ricerca allo IEFE, il centro di economia e politica dell’energia e dell’ambiente e coordinatore dell’Osservatorio Green Economy, già assessore alla mobilità e ai trasporti con la giunta Moratti.
Edoardo Croci, lei è candidato in Regione con la lista “Energie per la Lombardia”. Se venisse eletto oggi, e avesse la possibilità di prendere un solo provvedimento: quale sceglierebbe?
Se si vogliono attrarre business, istituzioni europee, turismo e garantire la qualità della vita a tutti i cittadini il tema ambientale è strategico, è un fatto di competitività. L’area di Milano sta diventando una capitale della “green economy”: oggi l’ambiente è un’opportunità di business in tantissimi settori. In modo non ideologico ma con una logica liberale, attenta al mercato e alla salute, il tema della qualità ambientale è quello che più mi interessa. Proporrei quindi una revisione del piano regionale sull’inquinamento atmosferico, in modo da garantire in un numero ragionevole di anni, diciamo 10 per darci un orizzonte, che la Lombardia rispetti pienamente gli standard ambientali europei. In questo contesto, lavorerei per far si che in 5 anni venga eliminato, almeno dalle aree urbane abitate, il gasolio, venendo sostituito da altri fonti di energia. Ovviamente questo va fatto anticipando il provvedimento di qualche anno: dando delle alternative. Pensiamo al tema gasolio per il riscaldamento: gli impianti a gasolio sono meno del 5% del totale ma rappresentano quasi 90% delle emissioni di polveri sottili. È una situazione “fantastica” per il policy maker: so che se intervengo in modo mirato ottengo risultati ottimali. In più abbiamo incentivi fiscali che ammontano al 65% per il cambio di caldaia: quindi, il costo è anche in gran parte coperto da fondi statali. Bisogna essere chiari e fare informazione: fare, di conseguenza, degli accordi con istituti bancari per l’anticipazione dei fondi che poi vengono utilizzati, così come con i produttori di caldaie e altri impianti. Fattibile? Assolutamente.
Significa che centinaia di migliaia di veicoli nei prossimi 5 anni dovrebbero essere sostituiti con altro solo a Milano, se ben capisco. È possibile?
Per gli autoveicoli la cosa è più complessa. L’idea è questa: si anticipa in 5 anni nelle aree urbane e si dice che non potranno più circolare. Ovviamente si migliora il trasporto pubblico, e qui la regione può fare molto: la situazione dei treni è intollerabile, vanno promossi i veicoli elettrici agevolandone la circolazione, il parcheggio, pensare alla riduzione delle tasse come il bollo auto, e naturalmente agevolarli anche fiscalmente. Questo permette che la transizione avvenga in modo spontaneo. Come nel caso del “road pricing” a Milano: all’inizio c’era molto scetticismo, oggi nessun candidato propone di eliminarlo. Siccome sappiamo che il diesel è il grande responsabile, allora dobbiamo eliminarlo. Ed è una tendenza internazionale: lo stanno facendo tante altre città del mondo. Lo ha annunciato il sindaco di Parigi, il sindaco di Barcellona, ne stanno ragionando su livello nazionale Olanda e Gran Bretagna, addirittura l’ha annunciato la Cina dal 2030. Sala, volente o nolente, due mesi fa nell’ambito del C40 ha firmato un protocollo che prevede di eliminare i veicoli diesel entro il 2025. Quello che io già dicevo prima e sembrava rivoluzionario non lo è più. Succederà comunque: il problema è accompagnare il provvedimento. Mettere in campo una politica che permetta che, mentre diciamo “no” al diesel, venga favorito il trasporto pubblico e lo sharing. Una grande sfida di Milano è quella di portare lo “sharing” alla provincia.
Ma quindi, venendo al concreto: la sua idea sarebbe quella di estendere il divieto per la circolazione di tutti i mezzi diesel nell’Area C? O anche oltre?
No no, io intendo proprio a tutta la città. Poi sui riferimenti geografici specifici dipenderà da problemi tecnici rispetto ad una via o un’altra, ma io parlo di tutta la città. Sono benefici che riguardano la salute: per questo la proposta è quella di togliere il gasolio per il riscaldamento e il trasporto per tutta la città. Chiaramente, parlando di un tempo così breve, gli altri veicoli possono circolare. Non sto pensando ad una riduzione di tutta la mobilità privata in un tempo cosi breve. Milano oggi ha un tasso di motorizzazione tra il 57 e il 55% (su 100 abitanti), quando le altre grandi capitali sono più vicine ai 30 punti percentuali. Vuol dire che esistono condizioni di trasporto pubblico in città anche più grandi dove si può arrivare a diminuire questo fattore. “Ecopass” e “Area C” possono essere migliorate, ma la logica è giusta: con dei provvedimenti graduali ottieni i risultati. Dal mezzo provato a quello pubblico gradualmente: meno auto vuol dire meno smog, meno congestione e benefici di recupero spazio. Un concetto di sviluppo urbano che deve essere portato avanti con indirizzi chiari.
Rinnovabili e “green economy”: le grandi compagnie energetiche del mondo, dopo Parigi, stanno facendo la corsa alla lotta al cambiamento climatico, promuovendo un futuro low carbon e investendo sia sulle rinnovabili sia su combustibili meno inquinanti come ad esempio il gas. Che futuro prevede per la regione Lombardia in questo senso? In che modo pensa che la regione possa supportare investimenti “green”? O meglio: in che modo questi investimenti possono diventare convenienti economicamente per tutti?
La “green economy” e la conseguente trasformazione dei comportamenti, che è anche un cambio culturale, funziona solo se offre opportunità economiche oltre che un miglioramento ambientale. Oggi paradossalmente c’è una situazione per cui, quando Trump ha detto che usciva dall’accordo di Parigi, la maggior parte delle imprese energetiche americane si sono messe contro di lui: hanno sottoscritto una lettera dicendo che loro non sono d’accordo con quella decisione. Dicendo che invece bisogna andare avanti nella decarbonizzazione dell’economia americana: qualcosa di apparentemente contraddittorio e sorprendente. Allora: o mentono, o non hanno capito niente, ma mi sembra difficile…oppure è Trump che non ha capito. Loro hanno capito perfettamente che il loro business si deve evolvere: questa credo sia la risposta giusta. Da noi Enel sta dismettendo le sue centrali a carbone: certo, per l’ambiente, ma anche perché il suo business viene sostenuto molto di meglio con rinnovabili e gas. C’è anche in parte responsabilità politica: il sistema europeo di “emission trading” mette un prezzo sulle emissioni di CO2. Allora la politica ha accompagnato e contribuito ad indicare la direzione: e ha dato dei segnali tutto sommato modesti, visto che il prezzo della CO2 ammonta a 5 euro a tonnellata (in Svezia, ad esempio, quel prezzo arriva a 100 euro per tonnellata). È un segnale. La regione può fare moltissimo: ad esempio nel campo dei trasporti, dell’energia in particolare, ha una serie di competenze rilevanti. Fin troppe: i piani energetici adesso li fanno le regioni. La politica energetica dovrebbe essere nazionale o europea: teniamo conto che promuovere la decarbonizzazione e l’eliminazione combustibili fossili ha vantaggi enormi anche sulla bolletta. Semplicemente perchè tutta la politica di efficienza energetica è una politica di riduzione dei consumi: se io taglio del 50% i consumi, vuol dire che dimezzo la bolletta.
In realtà, con le tasse…
Vero, al netto di componente fiscale, ma per capirsi questo vuol dire che c’è un beneficio economico rilevante anche per le tasche dei cittadini. Ci guadagnano tutti: questo costo immediato si traduce in risparmi che in pochi anni ti ripagano l’investimento. Qui il vero nodo è finanziario: bisogna permettere che l’investimento, anziché farlo il cittadino, venga anticipato da una banca. Quindi sin dal primo giorno io comune cittadino comincio a risparmiare. Questo è fattibile? Si, sembra un miracolo ma è così. Se io ti faccio cambiare caldaia e finestre, e senza fare niente, dal primo giorno paghi meno in consumi: beh, detta così ha senso, vero? La buona politica è quella che fa capire. Facciamo un altro esempio: la regione ha Finlombarda: può creare un fondo a rotazione che anticipi questo tipi di investimenti. Si ripagano in 10-15 anni, e Finlombarda li può anticipare. La regione non ci perde perché sono investimenti sicurissimi, e i cittadini non devono anticipare i soldi. Banale, e alimenta anche un business.
Passiamo al capitolo “occupazione giovanile”. Tra le sue proposte, lei suggerisce di promuovere le opportunità di formazione e lavoro per i giovani e per gli over 50 disoccupati, attraverso sistemi a voucher e connessioni tra sistema formativo e del lavoro. Di che sistemi a voucher si tratta?
Quando parlo del “voucher” io parlo di formazione. Regione Lombardia si è inventata un modello che poi ha esportato. Parliamo di alcune fasce specifiche, giovani e disoccupati: noi vi diamo un voucher che voi decidete dove spendere tra gli enti di formazione accreditati dalla Regione. Questo crea concorrenza: gli enti cercano di avere una buona reputazione, e alla fine il disoccupato anziché essere trattato da un apparato statale burocratico, che molte volte è inefficace e pensa più allo stipendio dei dipendenti pubblici che al risultato, viene formato da enti di formazione competenti. Oggi uno dei grandi problemi su alcune fasce è avere una formazione troppo astratta e teorica: poi entri nel mondo del lavoro e ti accorgi che sei bravissimo in letteratura ma poi professionalmente non sai fare nulla. Secondo me questo modello porta ad una naturale competizione per soggetti che operano sul mercato della formazione.
In che modo l’integrazione fra formazione e impresa può portare miglioramenti sul mercato del lavoro?
L’altro aspetto centrale in questo discorso è quello del rapporto con il mondo del lavoro sin dalla fase di studio: lo stage è un’esperienza straordinaria e da promuovere. Semmai è la regolamentazione che deve far si che gli stage siano davvero formativi e non “finti”. Attenzione a non uccidere bambino con acqua sporca: le varie iniziative della CIGL contro lo stage portano a togliere oggi il canale per trovare lavoro migliore che esiste per neodiplomati o laureati. Meno male che c’è: permette di entrare in azienda, capire come funziona l’ambiente del lavoro, tutte cose che quasi tutti quelli che vengono dal mondo della scuola non conoscono. Sul tema della formazione professionale, competenza della regione, c’è ancora molto da fare: c’è ancora l’idea che la formazione professionale sia una specie di canale di “serie B”. Interi settori dove c’è lavoro, come l’artigianato, fanno fatica a trovare personale formato. Quindi la regione deve dare dei messaggi giusti: bisogna che anche questo canale venga valorizzato, vengano codificati meglio i percorsi formativi. E i rapporti formativi qui devono venire prima di finire i percorsi di studi.
È chiaro. Però, oggi, moltissimi giovani sono alle prese con lavori pagati a ore (ben più tristemente noti tipi di voucher) che non permettono di inserirsi veramente nel mondo del lavoro: non danno stabilità, praticamente non danno contributi…
Attenzione a non creare scorciatoie sul mondo del lavoro come i voucher cui si riferisce lei: dobbiamo fare attenzione se si riduce tutto solo a “ore di lavoro”. È un rapporto circoscritto nel tempo, che corrisponde a personalità messe a servizio dell’azienda. In questo senso il problema è nazionale, il nostro mercato del lavoro è rigido, in entrata e in uscita: il “Job act” ha fatto poco, è un granello di polvere. Positivo, ma ha fatto poco. Il vero problema è liberalizzare il mercato del lavoro, facendo si che in entrata e in uscita ci siano meno vincoli. Oggi un’azienda assume poco perché, se assume, fa molta fatica licenziare uno che non lavora. Questo è tutto il contrario dei concetti di “merito” e di “mercato”: in America è vero che uno cambia tanti lavori e rischia di essere licenziato da un giorno con altro, ma poi lo trova anche. È un sistema che sfavorisce chi deve entrare nel mondo del lavoro: va totalmente a sfavore dei giovani, per di più i più qualificati. L’Italia ha il triste record, in Europa, di avere giovani formati e qualificati che non trovano lavoro o impiegano più tempo.
Capitolo sussidiarietà: lei propone asili nido gratuiti per tutte le mamme che lavorano. In che modo? Oggi, se non erro, ci sono liste d’attesa lunghe (e prezzi salati) in moltissimi asili: abbassando i prezzi, o azzerandoli, la domanda crescerà ulteriormente. Come pensa di far fronte a questo problema?
Noi abbiamo un altro grande problema, il tasso di occupazione femminile. Le donne italiane lavorano di meno: perché non ci sono servizi alla famiglia per le donne che lavorano. È un dovere della società civile: non dico arrivare in due anni ai livelli scandinavi ma abbiamo molto terreno da guadagnare. La Regione deve dare orientamenti e finanziamenti, ricorrendo a fondi europei e altre forme di entrate, qui è importante avere capacità di spesa. Una donna che lavora crea reddito: nuovi posti di lavoro, cresce l’economia, si pagano tasse e il sistema si ricrea. È doveroso creare servizi alle famiglie per consentire di lavorare serenamente: una madre che ha figli e non può essere serena sul fatto che non sa dove siano i figli non va bene. Non è un paese civile quello che dice: «Ti devi arrangiare», bisogna dare un sevizio per consentire a loro di lavorare. Al di là di fasce di reddito molto basse, in gran parte extracomunitari, gli asili nido non vengono usufruiti da cittadini italiani. Nella maggior parte dei casi le donne che lavorano non rientrano nei requisiti di reddito per poter accedere al nido, i servizi dei comuni sono in deficit e non ci sono persone che ne possano godere. Credo la Regione debba mettere a disposizione dei comuni risorse per creare nuovi asili pubblici e assumere personale, e penso che andare avanti con sistemi di convenzione, quindi di asili privati, sia doveroso. Questo da un lato fa spendere soldi, ma crea un business anche nel privato: ha l’obiettivo di far si che le donne, lavorando, facciano girare l’economia lombarda.
Ordine di investimento?
Decine di milioni di euro. Non ho fatto una stima perché bisogna andare ad analizzare la situazione comune per comune, però parliamo, se ben incentivati, di decine di milioni euro, costi sopportabili e gestibili a fronte di vantaggi per l’economia molto maggiori.
[…] Da: https://www.libertates.com […]