Italia e UE, la farsa triste del boicottaggio a Israele

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Presto scopriremo su alcune bottiglie di vino, sull’uva e sui pompelmi del supermercato una etichetta nuova fiammante con la scritta: “proveniente da insediamento israeliano”.Nonsarà vietato comperarli, perché in Italia e nella Ue, che diamine, il mercato è libero; soltanto si farà notare che si tratta di prodotti moralmente riprovevoli, perché coltivati nel Golan o in Cisgiordania, cioè territori occupati e amministrati da Israele a partire dalla guerra dei Sei Giorni, quella vinta da Moshe Dayan contro i vicini arabi nel 1967.
La decisione è apparentemente ineccepibile, almeno dal punto di vista tecnico-giuridico. Esiste una normativa che prescrive l’indicazione su ogni prodotto del Paese di provenienza; indubbiamente i Territori Occupati non possono essere considerati parte integrante dello Stato di Israele (teoria mai sostenuta da alcun governo o politico israeliano, salvo gli ambienti estremisti che parlano di “Giudea e Samaria”). Sembra quindi normale che venga usata un’etichetta che indica una provenienza diversa.
Qui però casca l’asino e sorgono inquietanti dubbi corredati da domande.
Le etichette della Ue riguardano solo i prodotti degli insediamenti dei coloni, o anche quelli delle imprese israeliane che agiscono nei Territori con personale palestinese?
E i prodotti provenienti dalla Cisgiordania governata (si fa per dire) dall’Autorità palestinese? In una realtà così intrecciata e complessa è difficilissimo, se non impossibile, stabilire la reale provenienza di un pompelmo o di una banana. E se venisse adottata una definizione diversa per i prodotti palestinesi, non avverrebbe una discriminazione d’altro tipo? Non passerebbe forse il concetto che certi prodotti, per quanto etichettati, sarebbero comunque acquistabili perché garantiti dallo Stato israeliano, mentre vanno considerati con sospetto quelli prodotti da uno Stato di dubbia legittimità, come quello palestinese?
E ancora: la stessa normativa non andrebbe attuata per tutti i prodotti provenienti da regioni attualmente sotto occupazione? Fino ad ora non risultano etichette Ue con l’indicazione “prodotto in Tibet”. Come mai non esistono etichette speciali per i prodotti del Sahara Occidentale occupato dalla Spagna; di Cipro Nord occupato dalla Turchia; del Kashmir spartito fra India e Pakistan; del Tibet schiacciato sotto lo stivale cinese? Una norma simile deve valere per tutti, o per nessuno, altrimenti non si tratta di tutela del consumatore ma di velata e indiretta discriminazione. E ancora una domanda: perché poi se ne parla solo adesso? Questa è una normativa che esiste da anni, evidentemente inapplicata sinora e attivata adesso su richiesta di alcuni governi (tra cui quello italiano). Esistono ragioni politiche e propagandistiche inconfessabili, oppure economiche (limitare la concorrenza di alcuni prodotti)?
Applicare una norma a orologeria non è mai una garanzia di tutela o di imparzialità, ma una manovra politico-elettorale. O forse peggio? Siamo davvero di fronte a una “decisione tecnica”, come si è affettato a rassicurare il vicepresidente dell’Unione Valdis Dombrovskis, avvolgendola nella definizione ufficiale di “nota interpretativa alle linee guida pubblicate ad aprile 2013″?
L’etichettatura è un finto provvedimento tecnico, in realtà politico, e potrebbe preludere a un vero embargo contro Israele, che farebbe la gioia dei suoi tanti nemici dentro e fuori dalla Ue.
Quanto alle sanzioni commerciali europee, esse sono già in vigore sui prodotti della Crimea occupata dalla Russia: vero. Ma Renzi e Berlusconi premono affinché vengano abolite. Dunque, due pesi e due misure?
Infine, se la Ue davvero avesse una politica estera amica della libertà, dovrebbe denunciare la Russia di Putin alla Corte internazionale di Giustizia (vedi in questo sito l’appello di Libertates per il ripristino del diritto e della libertà in Crimea). E comunque: perché non si impone alla Russia di specificare sulle etichette dei suoi prodotti quali provengono dalle varie zone da essa occupate o soggiogate (oltre alla Crimea, Transnistria, Abkhazia e Ossezia del Sud, per non parlare della pulizia etnica in Cecenia)?

Gaston Beuk

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Gaston Beuk
Gaston Beuk è lo pseudonimo di un noto giornalista e scrittore dalmata. Si definisce liberale in economia, conservatore nei valori, riformista nel metodo, democratico nei rapporti fra cittadino e politica, federalista nella concezione dello Stato e libertario dal punto di vista dei diritti individuali.

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