ITALIAN TABLOID: MIRELLA GREGORI ED EMANUELA ORLANDI DEVONO SPARIRE. PAUL MARCINKUS E KAROL WOJTYLA NON CONTAVANO NIENTE. IL MALE ERA AGOSTINO CASAROLI Analisi di un cold case: “l’autopsia psicologica”

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“Qual è la vera gioia dell’uomo?
Lui – futuro dominatore – dalla nascita piglia quell’avvio, appena la sua mente si matura, verso quella meta che subito emana luci, verso quella meta che poi raggiunta sarà la paranoia, il delirio i grandezza. Più diventa forte più arricchisce il suo tema, intesse con maggior precisione la tela della sua personalità. Ogni giorno su se stesso lavora ed ha momenti di orgoglio, ventate di superiorità, godimento come per un accrescimento di possessi, avaro che stringe tra le mani altre monete d’oro.
Eccolo ormai, il paranoico, nella sua completezza… splende la sua nuova persona, da sé costruita, è luminoso di felicità, ebbro di trionfo. E’ diventato proprio lui, quello che voleva.”
Mario Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano, 1982 – Adolf Hitler. Analisi di una mente criminale a cura di Riccardo Dalle Luche

“Sono stato accusato di aver assassinato il Papa e di essere coinvolto nello scandalo del Banco Ambrosiano, entrambe le cose sono completamente infondate. Dico a me stesso che questo potrebbe essere il modo con il quale Dio si assicura che ho messo il dito nella porta del Paradiso.
Perché se io l’ho fatto Egli non può più sbatterla”
Difesa di Paul Marcinkus

Siamo alla fine del mondo annunciata da Mehmet Ali Agca? Per Carlo Palermo si.
E’ il 19 luglio 2022 mentre decido di scrivere terrorizzato che la mia sindrome ipomaniacale possa rovesciarsi in depressione: ci sono 42 gradi di temperatura, si rischia forse di arrivare alla soglia di 50 gradi ed è morto mio padre David Bush a Londra, ex supervisore degli effetti speciali, a 64 anni di infarto con una condizione di schizofrenia paranoide più morbo di Parkinson: aveva fatto il passo più lungo della gamba con il “fiato corto” di Icaro, pur essendo stato un ottimo genitore: egli nel suo infantilismo patologico non era mai andato “al di là del principio di piacere”, con sofferenze inenarrabili. E una disarticolazione progressiva del suo talento sacrificato sull’altare della “monomania rocciosa”: da Frances Farmer, la “figlia della furia” a David, è un errore che talvolta si paga con la vita.
Vengo dunque al cold case di Emanuela Orlandi, quarantadue anni dopo: suo fratello Pietro, un samurai nel deserto, ha ragione: siamo arrivati ad una svolta.
Si sa tutto, ormai.
E io, che ho a mia volta commesso l’errore rovinoso di rimanere schiacciato sul godimento infantile del principio di piacere, non ho dubbi: nessuno nel “cold case” – indagine aperta da “autopsia psicologica” – di Emanuela Orlandi si salva, tutti psicopatici da manuale accumunati – veramente tutti – da un tratto di infantilismo idiotico, da Agostino Casaroli a Paul Casimir Marcinkus (molto più buono di Casaroli, però) fino allo stesso Karol Wojtyla, alla fine anch’egli triturato dalle porte girevoli, rovinato per sempre dalla scomparsa della ragazzina Emanuela perché aveva le mani legate e chiese perdono a Dio: non proprio un santo; neanche l’agente segreto in pensione Francesco Pazienza, “un’intelligenza sprecata” come una volta mi disse Giorgio Galli.
Non si salva purtroppo neanche la povera Emanuela, di anni 15, rientrante nello spettro dell’ADHD: disturbo dell’iperattività, incapace di autodisciplina e amante settorialmente della musica senza nessuna organizzazione poliedrica delle attività scolastiche tutte comodamente imperniate sul pallino della musica (fino al sequestro di persona fuori dalla Basilica di Sant’Apollinare).
Comodo frequentare la Basilica dove poi è stato tumulato Enrico De Pedis, senza accettare la “volgarità” della routine nel noioso liceo scientifico!
Infatti l’attore Sean Connery, uomo disciplinato, aveva detto parlando di se stesso con umiltà: “For me, playing James Bond is like playing Macbeth in the theatre…
if I hadn’t acted Shakespeare, Pirandello, Euripides… I should never have managed to play James Bond.”
Aveva detto bene Donatella Raffai: i rapitori di Emanuela l’avevano trovata vulnerabilmente attraente.
Quando nella vita si fa monomaniacalmente solo quello che piace, si viene triturati dalle
circostanze.
Mirella Gregori prima di lei ed Emanuela tra il maggio e il giugno 1983 sono state rapite dai famigerati “Lupi Grigi” di Ankara, organizzazione anti-cristiana nota come Fronte Turkesh della Turchia, per ottenere la liberazione del loro compagno Mehmet Ali Agca detenuto nelle patrie galere: una banda di estremisti, pedofili, rapinatori, terroristi, un po’ di tutto che avevano la copertura del segretario di Stato della città del Vaticano Agostino Casaroli, il vicario più in alto nelle gerarchie ecclesiali dopo il Papa.
Casaroli aveva liaisons dangereuses con i ragazzini nel carcere di Regina Coeli e l’ossessione della Ostpolitik, il dialogo con i paesi dell’Est europeo al punto da appoggiare gli attentatori di papa Giovanni Paolo II e distruggere il Banco Ambrosiano, con l’aiuto di Nino Andreatta; al contrario, Karol Wojtyla che impazziva appena vedeva Emanuela che era la figlia del suo messo pontificio voleva distruggere l’Unione Sovietica finanziando a man bassa Solidarnosc: con 200 milioni di dollari che provenivano dall’“affectio societatis”.
Esisteva una guerra per bande all’interno del Vaticano, tra la fazione di Wojtyla – che con la Chiesa di Roma non c’entrava niente – e quella casaroliniana: è storicamente accertato che Mehmet Ali Agca, disgregato come “schizofrenico paranoide” tra le sliding door’s, ricevette da Casaroli l’ordine insieme ad altri complici di attentare alla vita di Karol Wojtyla che era il nemico pubblico n.1 dell’Urss – l’Impero del Male – non di ucciderlo, per obbligarlo a dialogare con l’Est europeo.

Ma Wojtyla, colpito il 13 maggio 1981 in Piazza San Pietro, rafforzò la linea dura contro l’Unione Sovietica dando carta bianca a Paul Marcinkus (che contava meno di Giovanni Paolo II: era soltanto un banchiere travestito da prete): Marcinkus, il sigaro della sbruffoneria davanti alle Biblioteche del Vaticano con il “falso verosimile”: sembrare colto, senza esserlo; non è forse vero che Bettino Craxi si interessava di Garibaldi nella stessa misura in cui Marcinkus si occupava del Rinascimento?
Uomini da “Casinò” di Martin Scorsese: persone che si reinventavano con il trucco del narcisismo, per citare il colto Francesco Merlo.
Però Marcinkus è stato il “buono” nella vicenda di Emanuela.
Ha ragione Giuliano Ferrara, che è più colto che intelligente: Wojtyla è stato un condottiero, e – aggiungo io – di poco superiore alla media, determinatissimo ad ottenere quello che voleva, da Oscar Arnulfo Romero al Muro di Berlino e senza un vero talento – ma certo versatissimo in molte attività: com’era vero di Ronald Reagan, un cowboy texano che valeva poco intellettualmente ma tantissimo praticisticamente; nella loro mediocrità essi davano il massimo.
“Evangelium Vitae” però è stata citata da Paolo Flores d’Arcais, altro uomo d’azione travestito da intellettuale che è un genio della manipolazione della realtà.
L’uomo d’azione non pensa alle conseguenze delle sue azioni: non gli resta che il giuoco d’azzardo in alternativa alla razionalità del Cogito ergo sum. Si punta in alto e si rischia di finire in rovina.
Riporta la giornalista grintosissima Raffaella Fanelli nel suo libro un po’ inutile un po’ originale “Il Freddo. La storia. I delitti. I retroscena. L’ultima testimonianza del capo della Banda della Magliana” (Casaroli odiava Wojtyla perché era uno straniero tra Montechi e Capuleti in casa nostra)

“Il bandito e il cardinale
Non è la prima domenica che trascorro a Roma dal Freddo. Scrivo questo nome e mi viene da sorridere ripensando alla giornata torrida, di quelle in cui il calore risale a ondate dall’asfalto e rende appiccicoso ogni passo. “Il Tempo” ha pubblicato un articolo sull’evasione di Giuseppe Mastini, dal titolo Johnny lo Zingaro sta venendo a Roma. Un bandito pericoloso, Mastini, diventato ergastolano nel 1989 dopo una lunga serie di rapine, sequestri di persona e omicidi, detenuto in regime di semilibertà nel carcere di Fossano ed evaso pochi giorni prima del mio appuntamento col
Freddo.
“L’ho conosciuto. Sono stato io a farlo evadere dal carcere di Casal del Marmo”.
Arriva così, per caso, la prima verità di Maurizio Abbatino.

“In nessuno dei verbali che ha reso in passato c’è questa notizia…
“Mi hanno chiesto della banda della Magliana, non di Johnny lo Zingaro. Era detenuto per l’omicidio di un autista, un tranviere credo. Ma non era lui che volevo far evadere, bensì Franco Mazza, detto il Monchetto. Era uno in gamba, promettente… Lo volevo nella banda. Ne parlai con Franco Giuseppucci, che riuscì a farmi avere un incontro col ragazzo attraverso monsignor Agostino Casaroli.
Fu il monsignore ad aprirmi le porte del carcere minorile di Casal del Marmo.
Pochi giorni dopo, Franco il Monchetto scappò portandosi dietro Johnny lo Zingaro e il suo complice, Marco Giorgio, quello con cui aveva ucciso l’autista. Mi raccontarono di Casaroli. Delle cose che faceva in carcere. Dormirono tutti e tre in un appartamento che avevo trovato alla Magliana. La mattina dopo, lo Zingaro e il suo amico se ne andarono, con la testa rasata a zero per non essere riconosciuti”.
“Eppure risulta che Giuseppe Mastini, all’epoca, evase durante un permesso…
“Non è così: scapparono in tre. Fui io a caricarli in auto e a nasconderli in quell’appartamento di via Pescaglia. Era il 1976, si può verificare. Un controllo confermerebbe anche la presenza di Casaroli. I rapporti fra Vaticano e banda della Magliana risalgono a quegli anni lì. E si devono alle amicizie di Franco (Giuseppucci, ndr). Tutte conoscenze che poi ereditò Renatino De Pedis”.

“Franco Giuseppucci e Agostino Casaroli: perché un bandito avrebbe dovuto conoscere un noto monsignore. Come fa a dirlo?”

“C’era un ragazzo omosessuale che aveva un appartamento a Trastevere, circolava sempre alla Magliana su una Vespa 150. Si chiamava Nando, non ricordo il cognome… Fu lui a portare Franco da Casaroli. Non era uno dell’ambiente, ma faceva furti nei negozi, nonostante sembrasse un ragazzo perbene. Di Casaroli si sapeva. Giuseppucci lo conosceva. E so che poi questa amicizia fu “ereditata” da Renatino.
Tutti i ragazzi della Magliana finiti in carcere per droga o per rapina parlavano di Casaroli. Di quello che faceva con i giovani detenuti.
Di lui parlarono anche Johnny lo Zingaro e Franco il Monchetto.
L’amicizia con Casaroli fu usata anche per trasferire De Pedis a Rebibbia penale.
In quel carcere si stava bene, non era facile andarci”.

“Johnny lo Zingaro ha detto di aver conosciuto Pino Pelosi a Casal del Marmo.
Pelosi è stato l’unico condannato per la morte di Pier Paolo Pasolini, quella notte tra il primo e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, potrebbe esserci stato anche qualcun altro. Furoni ritrovati un anello e un plantare, probabilmente proprio di Giuseppe Mastini. Che però ha sempre negato e smentito ogni accusa.

“Io non so niente dell’omicidio Pasolini.
Hanno cercato di mettermi in mezzo per una foto scattata la mattina del 2 novembre 1975: a qualcuno era sembrato di riconoscere la mia faccia tra la folla di curiosi radunata attorno al cadavere. Una follia. Non sono io quello con la testa riccia e i pantaloni a zampa. Pasolini l’ho incrociato da vivo, davanti a una bisca della Magliana. Non posso essermi sbagliato o averlo confuso con qualcun altro, e non perché fossi un suo fan, semplicemente perché non passava inosservato: vestiva in modo particolare e portava grossi occhiali scuri.
Un volto scavato, riconoscibile. Credo di averlo visto davanti a quella bisca tre o quattro volte.
E poi ricordo bene la sua auto, un’Alfa Romeo GT2000 metallizzata, perché anch’io avevo una
macchina simile, con cerchi in lega e carburanti a trombetta.
La mia era tamarra, da borgataro, senza paraurti. La sua era elegante, con interni raffinati. Ero giovane, non ricordo l’anno, ma so che stavo già con Carla, mia moglie, quindi verso la metà degli anni Settanta, nel periodo delle rapine. In quella bisca ci andavo per giocare a biliardo. Avrei preso volentieri quell’auto per montarne i pezzi sulla mia, ma già un ragazzo aveva provato ad aprirla, e Franco Conte, il proprietario della bisca, era intervenuto dicendogli di non toccarla, che era un affare suo”.

“Lei non è mai stato interrogato sul caso Pasolini? Sono stati fatti dei riscontri sul suo DNA?
“Assolutamente no, perché avrebbero dovuto? Non so niente di quell’omicidio.
Se non quello che si vociferava in quella bisca”.

“Essere molte cose significa essere nessuno: lo ha detto Kant”: dice un attore del film “Relazione intima”: Pier Paolo Pasolini era un artista travestito da intellettuale ma smascherato da Italo Calvino, che non ha mai fatto nulla di veramente eccezionale ma era protetto dal trucco dell’icona che traveste la persona: come disse Piero Ottone, “Ma che cosa ha scritto Pasolini al netto della requisitoria “Io so perché sono un intellettuale. Anche se non ho le prove”?
Era un “action man” tra mediocritas accademica e brillantezza anche il furbissimo Pasolini, poi radiografato con “diagnosi dall’esterno” dello psichiatra Aldo Semerari come malato di mente dopo la rapina in banca (era malato di mente anche Aldo Semerari, ucciso dai camorristi di Raffaele Cutolo).
A Pasolini piacevano i ragazzini, i wild parties, il ricorso al “benaltrismo” – parlare d’altro quando non si conosce l’argomento trattato – e farsi fotografare con la faccia seria davanti ai libri. Mentre magari ad aspettarlo dietro gli scaffali pieni di libri, c’era qualche marchettaro pronto a soddisfarne gli appetiti.
American Tabloid: Howard Hughes, Sam Giancana, Edgar Hoover, ecc; Italian Tabloid: Pasolini e Marcinkus.
Bruciano le tappe come infanti mascherati da adulti, sostenuti dallo Zeitgeist (almeno fino ad un certo punto): lo Spirito dei Tempi nelle geometrie della casualità.

Torniamo ad Emanuela, e facciamo un passo indietro: è il 13 maggio 1981.
Siamo all’enigma di Mehmet Ali Agca, l’uomo dalle mille facce come Lee Harvey Oswald: schizofrenico paranoide, e quindi incapace di avere un rapporto autentico con il reale che non sia mediato dal “pensiero bugiardo”; attore per stato di necessità, più che per scelta e che ricorre con mitomania istrionesca all’iperbole.
Come scrive Raffaella Fanelli – da me ampiamente citata – nel capitolo “Ali Agca e lo strano compagno di cella”, “… Pista bulgara o, meglio, “pista sovietica”, dato che i suoi sostenitori affermavano che l’attentato a Giovanni Paolo II fosse stato commissionato dal KGB ai Servizi segreti bulgari, i quali a loro volta avrebbero armato la mano del turco Ali Agca. Ipotesi che pareva avere una sua verosomiglianza, considerando la posizione contraria al regime polacco, e in generale ai Paesi satelliti dell’URSS, assunta da Wojtyla già quando era arcivescovo di Cracovia: insomma, un attentato legato alla contrapposizione dei due blocchi, Est contro Ovest. Negli anni Ali Agca ha ritrattato e poi ancora confermato questa versione, alternando nuove responsabilità (“La pista bulgara è una menzogna creata dalla CIA per colpire l’Unione Sovietica”; “L’ordine di uccidere il papa me lo diede Khomeini in persona”; infine, nel 2010, “L’ordine di uccidere il papa arrivò dal Vaticano, dal cardinale Agostino Casaroli”) ad affermazioni di teatrale follia (“Sono la reincarnazione di Gesù Cristo”; “Conosco il terzo segreto di Fatima” e così via).
Da subito furono chiare e innegabili le responsabilità dei Lupi grigi, il movimento ultranazionalista turco di estrema Destra che durante la Guerra fredda fu parte dell’organizzazione Stay Behind, meglio conosciuta in Italia come Gladio. Ma da chi ricevettero il mandato per colpire in piazza San Pietro? Chi ordinò quell’assalto inaudito, enorme, contro un pontefice? La verità è che le
circostanze e i moventi che armarono la mano di questo turco graziato da una condanna all’ergastolo sono ancora un mistero…”.

Per chi scrive non ci sono dubbi: fu il catto-comunista piccoloborghese Agostino Casaroli a chiedere a Mehmet Ali Agca di ferire Wojtyla, non ucciderlo: in nome della Ostpolitik; Giovanni Paolo II si sarebbe convertito alla linea morbida della distensione promossa dalla segreteria della Santa Sede con il blocco sovietico.
“Le idee hanno conseguenze”: diceva Friedrich Hayek, e Giovanni Paolo l’arcivescovo di Cracovia non c’entrava niente con il Vaticano (sic!) nella sua splendida precarietà.
Primo papa straniero eletto in conclave in 455 anni di storia, dopo la prematura dipartita per infarto miocardico di Papa Albino Luciani (il pontefice dei 33 giorni), arrivato al soglio pontificio solo grazie alla manovra “borderline” dello scacchista Zbgnew Brzezinsky: mezzo Vaticano non lo poteva nemmeno vedere il polacco, che aveva una sola vera priorità: salvare la sua Polonia dal comunismo. Far vincere Solidarnosc di Lech Walesa, whatever it takes. Anche accettare denaro della mafia. Come è ormai accertato con sentenze passate in giudicato nei processi per l’omicidio Calvi e il delitto di bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano: 1.200 milioni di dollari di Cosa Nostra transitarono tra le casse dello Ior, ripuliti dal “banchiere di Dio” Roberto Calvi.
Nel capitolo “La scomparsa di Emanuela Orlandi”, scrive Raffaella Fanelli:

“Il ricatto a Marcinkus
Nelle oltre cinquecento pagine della sentenza-ordinanza del giudice istruttore Otello Lupacchini sono riportati diversi interrogatori dell’ex faccendiere e agente segreto Francesco Pazienza. Uno in particolare, quello del 7 gennaio 1994, descrive la situazione del Vaticano negli anni in cui Emanuela Orlandi scomparve:
“Durante il mio impegno presso i servizi, ebbi la ventura di rintracciare, presso l’avvocato zurighese Peter Duft, – il quale era stato consulente del cardinal Vagnozzi e depositario di molti documenti dello stesso – delle carte particolarmente compromettenti per monsignor Paul Marcinkus. Occorre dire, al riguardo, che il generale Santovito aveva ricevuto la richiesta da monsignor Luigi Celata, segretario particolare del cardinale Casaroli, di rinvenire documenti compromettenti per Marcinkus, documenti i quali si trovavano tutti all’estero e, dunque, erano di difficile reperibilità.
Tale richiesta si inquadrava nel contesto di uno scontro feroce, all’interno del Vaticano, tra due opposte fazioni: l’una, denominata Mafia di Faenza, nella quale si iscrivevano oltre al cardinale Casaroli i cardinali Samorè, Silvestrini e Pio Laghi, l’altra facente capo, per appunto, al Marcinkus, alla quale appartenevano monsignor Virgilio Levi, vicedirettore dell’“Osservatore Romano”, e monsignor Luigi Cheli, nunzio pontificio presso l’ONU.
La fazione capeggiata da Paul Marcinkus aveva grossa influenza su papa Giovanni Paolo II: questi aveva dovuto, proprio all’inizio del suo pontificato, fronteggiare uno scandalo, esploso negli Stati Uniti, di cui era stato protagonista un ordine di preti polacchi di Filadelfia, implicati in grosse truffe ai danni di banche, con risvolti piuttosto piccanti. Monsignor Marcinkus si era opportunamente adoperato per mettere a tacere talo scandalo, officiando lo studio legale newyorkese Finley –Casey e Associati e coprendo in qualche modo gli ammanchi. L’ovvio beneficio che Marcinkus ne aveva tratto era di poter contare sull’appoggio incondizionato del papa.
Anziché consegnare i documenti reperiti presso l’avvocato Duft al generale Santovito che li avrebbe, a sua volta, consegnati al segretario del cardinale Casaroli senza che io ne traessi alcun vantaggio, mi rivolsi all’onorevole Flaminio Piccoli affinchè mi ripresentasse a Calvi che già conoscevo. Avrei potuto farlo da solo, tuttavia, con il viatico del segretario della Democrazia cristiana, la cosa prendeva un altro aspetto. Fu a Roberto Calvi che consegnai la documentazione in mio possesso, che tra l’altro era soltanto una parte del fascicolo contro Marcinkus… Consegnai la documentazione di Calvi nei primissimi giorni del marzo 1981”.

Attenzione, è il focus dell’intera vicenda Emanuela Orlandi: la cosiddetta “guerra per bande” tra la
fazione di Casaroli e quella di Marcinkus, che Emanuela l’aveva quasi salvata sullo sfondo delle 16 telefonate intercorse tra l’“Amerikano” (Marcinkus appunto) e Mario Meneguzzi, lo zio di Emanuela Orlandi; “Io sono la colomba e voglio salvare sua nipote, ma lei non ha idea dello scontro che c’è… (in Vaticano?, ndr). Quello che è successo mi ripugna”.

A consegnare Emanuela a Marcinkus davanti ai cancelli del Vaticano erano stati Sabrina Minardi e l’autista di Enrico De Pedis su mandato dello stesso Renatino, nell’ambito di quello che io chiamo “il contro-sequestro”: ci torneremo – un passo alla volta – nei passaggi successivi, attraverso la “liaison” ex post di tutti gli eventi attentamente inseriti all’interno dell’“eziologia post mortem”.
Non è un lavoro facile, ma può essere fatto soprattutto se si tiene conto che è passato tanto tempo dagli accadimenti, e più passano gli anni più il quadro dell’“indagine aperta” si arricchisce di nuovi elementi.
Dunque, ricapitoliamo tra le matrioske russe debellate una dietro l’altra: la scomparsa di Emanuela, figlia di un messo pontificio, il 22 giugno 1983 era casualmente e causalmente in linea con il crepuscolo della guerra fredda nella “liaison dangereuse” dell’ADHD – disturbo dell’attenzione – e stress maniacodepressivo: il ricatto a Marcinkus del diabolico Agostino Casaroli per il reinvestimento dei flussi di denaro sporco nelle casse dell’Istituto delle Opere di Religione destinati al movimento Solidarnosc – che, come abbiamo già detto, disturbava lo svolgimento della Ostpolitik – cagionò la mancata restituzione di Emanuela Orlandi ai suoi familiari (sic!), una volta consegnata alla Città dello Stato del Vaticano.

Ma il ricatto non era destinato soltanto a Marcinkus, ma anche a Karol Wojtyla (sopra di lui) che alla famiglia degli Orlandi era legato in un modo che non è mai stato chiarito: se voi mi denunciate per sequestro di persona, io rivelo che avete fatto riciclaggio di denaro sporco ma anche l’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi che ricattava Karol Wojtyla (perché Casaroli aveva recapitato la lettera autografa a firma di Calvi del 5 giugno 1982).
Quindi la morte di Emanuela – dopo quella per probabile overdose dell’altra ragazza rapita, Mirella Gregori – è stata il prezzo alla conservazione del Vaticano.

Infatti la voce di Marcinkus a telefono con lo zio di Emanuela Mario Meneguzzi – un personaggio francamente inquietante, nella sua istrionicità menzognera a tratti sudamericana in una città surreale come Roma – è identica a quella dell’interlocutore misterioso di Agostino Casaroli nella linea telefonica riservata del numero 158, e appartiene alla persona di Marcinkus come aveva già scoperto nel 1995 il vicedirettore del SISDE Vincenzo Parisi stilando l’identikit personologico dell’Amerikano: la trattativa con la Santa Sede nell’ambito del cosiddetto “contro-sequestro” operato dalla Banda della Magliana, che uccise i Lupi Grigi “controsequestrando” Emanuela che era ancora viva e consegnandola poi ai servizi segreti vaticani che rendevano conto al segretario di Stato Casaroli, l’uomo più in alto in Vaticano dopo il Papa.
La trattativa avviata da Marcinkus con Casaroli al coperto della linea riservata 158 – la sintesi di questi numeri è 5, il numero del Diavolo – fallisce per le anzidette ragioni; a un certo punto Casaroli, che è collegato ai Lupi Grigi ma non direttamente a Emanuela e Mirella (rapite sic et simpliciter per ottenere la liberazione di Agca) non fa liberare Emanuela istituzionalizzandola tra le mura leonine, e poi la fa ammazzare: Wojtyla si è portato questa verità nella tomba; l’alternativa per Karol Wojtyla, era dare le dimissioni da Pontefice, con la conseguente distruzione del Vaticano “too big to fail”.

Enrico De Pedis attraverso l’amante Sabrina Minardi, che è una collaboratrice di giustizia a metà, ha giocato un ruolo essenziale nella vicenda guadagnando come contropartita la tumulazione nella Basilica di Sant’Apollinare dove Emanuela suonava il flauto.
Venne assassinato in un agguato a Roma nel 1990 in via dei Pellegriti, con la “culpa in vigilando”
dei servizi segreti: oggi sarebbe in Parlamento, come dice Antonio Mancini (anche perché morì incensurato).
Un’altra intelligenza sprecata, Enrico De Pedis: aveva bruciato le tappe, ed era ingenuo: credeva ormai di poter accedere alla stanza dei bottoni reinventandosi come persona al livello dei VIP, very important people; se Stefano Bontate reinventò se stesso come il “principe di Villagrazia” con le citazioni pret à porter, Renatino De Pedis si reinventò come il Dandy: la ex collaboratrice di giustizia Fabiola Moretti, nuovamente finita tra le maglie della giustizia per spaccio di droga, ha raccontato come De Pedis esibisse biblioteche finte nel suo attico.
Grazie a “Telefono giallo” abbiamo tutti gli elementi del cold case.
Il caso aperto – ma in Italia a differenza dei paesi anglosassoni non esiste la pratica dell’“autopsia psicologica”, che rimane un’eccezione rispetto alla routine – è informato in quanto tale dalla malattia mentale come “primum movens” della tragica dipartita del soggetto protagonista del giallo (da Ettore Majorana a Emanuela Orlandi, passando per lo stesso Karol Wojtyla): il disturbo si allea con i tossici ambientali, originando il cosiddetto “open virdict”: verdetto aperto.
E – come ha spiegato in numerosi interventi la psichiatra accademica Liliana Dell’Osso – nella maggior parte dei “casi aperti” si tratta di disturbo borderline come condizione di base, non di disturbo bipolare.
Si riporteranno passaggi decisivi della storica puntata del 26 ottobre 1987 di “Telefono giallo” interamente godibile su Youtube, una trasmissione più anglosassone che italiana condotta magistralmente da due protagonisti della televisione: Corrado Augias e Donatella Raffai, estromessa poi dalla partitizzata Rai che non perdona il successo: la Raffai era uscita di scena abbandonando i riflettori, e morendo a 78 anni pochi mesi fa quasi come una delle tante vittime dei suoi cold case: “In Italia si perdona tutto fuorchè il successo tranne quando è immeritato”: Indro Montanelli dixit.
Facciamo però un passo indietro, prima di addentrarci nella puntata decisiva di “Telefono giallo”: la cosiddetta Banda della Magliana non effettuò il sequestro tout court di Emanuela; è una distorsione del cold case attraverso i famigerati paralogismi (sembra così, ma non è andata così): ma liberò Emanuela dai Lupi Grigi su interessamento del Papa che – rientrato dalla Polonia – aveva attivato Marcinkus il quale era in rapporti con Pippo Calò e Flavio Carboni, i referenti della criminalità organizzata a Roma. Un anno dopo Pippo Calò – sotto la falsa identità di Mario Aglialoro – sarebbe stato arrestato nell’ambito delle retate del maxiprocesso.
Si legge su Wikipedia alla voce Paul Marcinkus: “… Nel giugno 2008, uno dei supertestimoni della vicenda Orlandi, cioè Sabrina Minardi, ex compagna del boss Enrico De Pedis detto Renatino, ha rilasciato agli inquirenti dichiarazioni secondo cui Emanuela Orlandi sarebbe stata rapita dall’organizzazione criminale di De Pedis, tenuta in un’abitazione in via Antonio Pignatelli 13 a Roma, che ha “un sotterraneo immenso che arrivava quasi fino all’ospedale San Camillo” (la cui esistenza è stata confermata dagli inquirenti), poi uccisa e gettata in una betoniera a Torvaianica. La palazzina in questione sulla gianicolense sarebbe stata restaurata da Danilo Abbruciati, membro della banda della Magliana e vicino a Calvi (con il quale Marcinkus aveva contatti). Il rapimento sarebbe stato chiesto, secondo una confidenza fatta da De Pedis alla stessa Minardi, proprio da Mons. Marcinkus”, come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro”. E’ la stessa Minardi ad ammettere di aver accompagnato in auto la ragazza dal bar del Gianicolo fino al benzinaio del Vaticano, dove le attendeva un sacerdote a bordo di una Mercedes targata città del Vaticano. Nella stessa sede, la Minardi ha altresì aggiunto di aver personalmente accompagnato ragazze compiacenti a incontri privati col monsignore in via Porta Angelica.

Nelle rivelazioni della donna affiora anche Giulio Andreotti, presso la dimora del quale la testimone afferma di aver cenato due volte, assieme al compagno De Pedis, a quel tempo già ricercato dalla polizia. La donna specifica però che Andreotti “non c’entra direttamente con Emanuela Orlandi, ma con monsignor Marcinkus sì”.
Sebbene le dichiarazioni della Minardi siano state messe in dubbio a causa di alcune incongruenze
temporali del verbale e, come da sua stessa ammissione, per aver fatto notevole abuso di sostanze stupefacenti, il ritrovamento, nell’agosto 2008, della BMW che la stessa Minardi ha raccontato di aver utilizzato per il trasporto di Emanuela Orlandi, rende le sue dichiarazioni sempre più credibili.
L’auto, infatti, risulta appartenuta prima a Flavio Carboni (imprenditore indagato e poi assolto nel processo sulla morte di Roberto Calvi) e successivamente a uno dei componenti della Banda della Magliana…”.

Abbiamo alcune certezze sullo sfondo, e “tre indizi sono una prova” per citare Agata Christie:
1. Quello di cui la Minardi – la cui attendibilità è stata confermata dal magistrato in pensione Giancarlo Capaldo in un’intervista ad Andrea Purgatori del dicembre 2021 – ha parlato, è il “controsequestro” effettuato da lei e dall’autista del boss Enrico De Pedis ancorchè nella sua fase terminale: non ci sono state altre persone, a parte Marcinkus quale “utilizzatore finale” a sua volta incaricato di ritrovare Emanuela dal Papa in persona.
2. Non è pertanto neanche corretto dire che la Banda della Magliana abbia consegnato
Emanuela a Marcinkus: sono stati l’autista di De Pedis e Sabrina, che proprio come Emanuela
ha rischiato di essere triturata nella “coincidentia oppositorum” di troppe situazioni differenti; Sabrina ha poi ritrattato la sua versione iniziale, affermando che Enrico De Pedis sciolse nell’acido il cadavere della ragazzina nella betoniera di Torvaianica accanto al piccolo Domenico Nicitra, il figlio del collaboratore di giustizia (sciolto nell’acido, però, dieci anni dopo nel 1993): questo clamoroso autogol della “superteste” è stato solo successivo alle minacce di morte subite, e infatti io ritengo che siano “adattamenti menzogneri”; il falso si mischia al vero.
Cioè in una dichiarazione falsa c’è sempre qualcosa di vero; secondo me De Pedis mostrò alla sua amante i due cadaveri degli assassini dei Lupi Grigi che avevano sequestrato Mirella Gregori ed Emanuela (poi fatti fuori sul campo dagli uomini di Renatino De Pedis, dopo che essi avevano ritrovato la prigione nella quale erano nascoste le due ragazze).
Sabrina Minardi, ex femme fatal con disturbo bipolare segnata dalla vita, non ha forse paura per se stessa ma per sua figlia: già vittima di un grave incidente stradale, con all’orizzonte la “doppia diagnosi” anche lei.
3. Un altro elemento che conferisce patente di attendibilità ai racconti della Minardi è l’incredibile verosomiglianza nei suoi rilievi sulla “nevroticità sofferente” dell’amante Roberto Calvi, descritto proprio come aveva fatto Piero Ottone nella sua opera magistrale “Il gioco dei potenti” (Calvi venne presentato a Ottone da Carlo Caracciolo): il patron del Banco Ambrosiano era il più pulito tra i delinquenti e una personalità maniacodepressiva come il navigatore solitario Donald Crowhurst.
Dunque, è auspicabile che la Minardi torni a parlare in sede di approfondimento dell’Autorità giudiziaria ma certo non sarà facile.
C’è infine il racconto di Pietro Orlandi, che assume il sapore del mistero:
“Il 3 luglio 1983, poco più che una settimana dopo la scomparsa, il Papa rivolse un appello ai rapitori di Emanuela durante l’udienza domenicale coi fedeli in San Pietro. C’era scritto persino nel consuetudinario bollettino emesso dalla Santa Sede per l’Angelus: “rapimento Orlandi”. Era la prima volta che se ne parlava in modo così esplicito. E poi, a quello, ne seguirono altri 5 di appelli da parte del Pontefice.
Perché? Ma c’è un’altra cosa che ritengo rilevante. In prossimità del Natale, Giovanni Paolo II venne a casa nostra per un augurio. Non dimenticherò mai una frase che pronunciò: “Esistono casi di terrorismo nazionale e altri di terrorismo internazionale, Emanuela è il secondo.” Un Papa non fa un’affermazione del genere se non sa bene di cosa sta parlando”.
E il Papa era ben informato da Marcinkus in persona.
C’è poi un altro fatto degno di nota: è l’inizio di questo enigma racchiuso in un altro enigma: “La mattina in cui Natalina è andata a fare la denuncia (23 giugno 1983, ndr), e quindi ancora non sapevano nulla, la prima preoccupazione è stata quella di avvisare il papa in Polonia. Il papa da
qualche giorno stava in Polonia a un viaggio trionfale, con centinaia di migliaia di persone che lo acclamavano. E io mi sono sempre domandato: ma è possibile che se una ragazza fa tardi a casa, tu avvisi il papa in Polonia per questo motivo?”.
Wojtyla identificava se stesso con la Polonia: è la sindrome di hybris.
Veniamo così a “Telefono giallo” con la presentazione di Corrado Augias e Donatella Raffai.
1. MIRELLA GREGORI, 7 MAGGIO 1983
“Events, my dear boy. Events”: Harold Macmillan
“La ricostruzione del regista Fiore De Rienzo sugli ultimi minuti della giornata nota di Mirella Gregori. Che cosa accadde subito dopo” (Corrado Augias) 26 ottobre 1987
Parla la mamma di Mirella:
“Il 7 maggio 1983 abitavamo ancora lì (dove?, ndr).
Da allora non ho più avuto notizie di mia figlia Mirella. Per tutto il pomeriggio abbiamo cercato di metterci in contatto con Alessandro, però non l’abbiamo mai trovato; allora mia figlia, l’altra, ha lasciato il numero di telefono del bar che chiamasse appena rientrato. Alle 8:30 ha chiamato e ci ha detto che lui Mirella erano anni che non la vedeva e non l’aveva cercata neanche quel giorno; allora ho detto a mio marito di chiudere il bar, perché qualcosa doveva essere successo a mia figlia e di andare alla polizia a denunciare la scomparsa.
E così abbiamo fatto.
Dopo, non contenta mia figlia e il fidanzato sono andati con un amico tutta la notte a girare tutti i pronti soccorsi degli ospedali di Roma. Hanno girato fino alle 7:00 del mattino, e non ho avuto notizie neanche di loro; speravo che almeno mi dicessero che l’avevano trovata in qualche ospedale; invece, quando è stata mattina, mi sono sentita proprio angosciata.
Ho capito che qualcosa di veramente serio era successo a mia figlia. E così è cominciato il nostro calvario. Poi subito, il giorno dopo ci hanno detto che può darsi benissimo che era incappata nella tratta delle bianche, cosa che io non avevo mai sentito parlare prima di allora, e pensavo – speravo – che non fosse vero che esistesse questa tratta delle bianche.
Mi è rimasta sempre un’angoscia nel cuore, perché non sapere dov’è andata a finire mia figlia di 15 anni nel mezzo è molto triste.
E’ molto avvilente non potere fare niente per andare in suo aiuto, e per cercare di proteggerla come le ho sempre protette io”.
Parla il marito della sorella di Mirella Gregori: “A quel tempo ero fidanzato con la mia attuale moglie, sorella di Mirella Gregori e io allora lavoravo già al bar di mio suocero; una mattina mi trovavo al bar e ha squillato il telefono.
La prima cosa che ha fatto mio suocero è andato e ha risposto; mentre parlava, io stavo un po’ lontano dal telefono, ho visto mio suocero che si trovava in difficoltà; allora sono andato lì vicino al telefono, e mi ha detto: “Filippo, rispondi te perché io non capisco niente. Sono andato li, ho preso la cornetta e ho detto: “Pronto”.
All’altra parte del telefono c’era una persona, uno straniero con l’accento straniero.
E la prima cosa che m’ha detto: “Prendi carta e penna”. Io la prima cosa che ho fatto sono andato alla casa e ho preso un pezzo di carta che adesso vi mostro; ancora mi trovo qua. Allora, Maglieria Antonia, re di jeans con cintura, maglietta intima di lana, scarpe con tacco colore nero lucido; marca Asaiuran di Roma. Dopo che avevo finito di scrivere, ha detto: “Non divulgare questo messaggio”. Ha detto dopo: “Dillo ad Antonietta, che lei capirà”.
2. UNA LINEA DEI RAPITORI CON SANDRO PERTINI: SONO I LUPI GRIGI
La mamma di Mirella Gregori: “C’era stato chiesto di fare un appello anche dal presidente della Repubblica, al che il presidente Pertini s’è reso subito disponibile, e si è prestato volentieri a questa richiesta. E intanto, nel frattempo, avevano chiesto telefonando ancora al bar: hanno detto a mio marito mi sembra se mi stavo muovendo, e quando sarebbe stato fatto l’appello; mio marito gli premeva più sapere notizie di nostra figlia, di Mirella e allora gli ha chiesto: “Ditemi qualcosa di Mirella; dov’è Mirella?”. E loro gli hanno risposto: “Non fatevi troppe illusioni”, e hanno attaccato.
3. ARRIVA FRANCO FERRACUTI: UNO, NESSUNO, CENTOMILA. LO PSICHIATRA DEL CASO MORO E CHE AVEVA IDEATO IL PIANO VIKTOR, diagnosticando la sindrome di Stoccolma ad Aldo Moro “Se diamo retta agli esperti non facciamo niente”: Gianni Agnelli

Lo psichiatra criminologo Franco Ferracuti, iscritto alla P2, viene invitato a partecipare agli studi televisivi di “Telefono giallo” e – in un intervento molto lucido – esclude la pista della tratta delle bianche: un’organizzazione criminale che era operante alla fine del secolo scorso rapendo ragazze con la tecnica dell’“entrapment” – raggiro – per poi inserire le malcapitate di turno nei circuiti della prostituzione internazionale; questa attività delinquente aveva dato origine ad accordi internazionali, che avevano poi impedito il ripetersi degli stessi fatti.
Fine dell’Ottocento: sparivano ragazze dalla città di Roma e dintorni, inghiottite dal buco nero della prostituzione mediorientale; 1983, spariscono Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi per mano dei Lupi Grigi legati a Mehmet Ali Agca per ottenerne la liberazione: tutto si concentra alla “fin de siècle”.
Ciò che colpisce è il contrasto totale tra come un professionista del livello di Ferracuti appare alla trasmissione “Telefono giallo” in pieno self-control, e la ricostruzione che ne ha fatto Maurizio Abbatino alla giornalista Raffaella Fanelli; lo psicopatico cambia personalità, a seconda delle situazioni in cui si trova come se stesse recitando una parte: teniamo a mente che il collega di Ferracuti, Aldo Semerari – anch’egli incautamente iscritto alla P2 di Licio Gelli – perse ad un certo momento il senso delle proporzioni e andò incontro ad una “follie de grandeur” che pagò con la vita: la “sindrome di Ganser” (peraltro da egli stesso diagnosticata a Don Raffaele Cutolo); è ormai opinione consolidata di chi scrive che l’intelligenza è pericolosissima poiché è uno stato limite: si bruciano le tappe arrivando a commettere l’azzardo “tossicomane” della visione – vedere l’orizzonte saltando il porto; ma se si salta il porto per raggiungere la Lux oltrepassando “l’alienazione significante nel registro dell’Altro” (vedi Jacques Lacan), si rischia di sciogliersi le ali come Icaro.
Veniamo a Raffaella Fanelli nel suo libro “Il Freddo”: “Il caso Moro – “Sapevamo dov’era”: “Franco Ferracuti era un criminologo di fama. Fu Alessandro D’Ortenzi, detto Zanzarone, a farmelo conoscere. Potrebbe aver avuto un ruolo nella p2. D’Ortenzi disse in aula che era legato ai Servizi, addirittura alla CIA. Lo incontrai per ottenere l’infermità di Marcello Colafigli, non ricordo se prima o dopo la morte di Semerari. D’Ortenzi mi disse che, oltre a essere un’autorità, era anche massone. Viveva, o comunque ci ricevette, in una villa ottocentesca a Roma. Rimasi colpito perché durante il nostro incontro arrivò una telefonata e l’apparecchio era nascosto dietro al pannello di un mobile alle sue spalle. Per tutto il tempo della conversazione parlò in inglese”.
Racconta questo, Abbatino, sul conto di Franco Ferracuti, tessera numero 849 della p2, psichiatra legato sia al SISDE che alla CIA.
Nel marzo del 1978, subito dopo il rapimento di Aldo Moro, fu chiamato a far parte del “comitato degli esperti” costituito dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga per interpretare le lettere di Moro e i messaggi delle Brigate rosse.
Fu lui a progettare il piano Victor: nel caso in cui il presidente della DC fosse stato liberato, sarebbe stato ricoverato al Policlinico Gemelli e sottoposto a cure specialistiche per le gravi conseguenze della prigionia. Ferracuti era il sostenitore della tesi “Moro non è più Moro”. Stando al professore, durante la prigionia Moro avrebbe sviluppato la cosiddetta Sindrome di Stoccolma, in base alla quale un soggetto rapito maturerebbe un sentimento positivo nei confronti dei suoi carcerieri e, viceversa, un sentimento negativo verso le forze di polizia e tutte le altre persone impegnate a ottenere la sua liberazione.
“Tanto impegnate non direi”, afferma Abbatino. “Franco disse dov’era il covo delle Brigate rosse. Comunicò dove avrebbero potuto trovare Moro. Ma l’informazione fu ignorata”.

Ma non sarebbe stato meglio se Aldo Moro, che poi con grave cedimento nella “prigione del popolo” ammise di essere il referente del sistema delle tangenti con Andreotti, non avesse incassato la tangente Lockheed di cui poi dovette rendere conto ai brigatisti?
Una fine più grave di quella di Bettino Craxi, se andiamo a vedere.
Per poco, Ferracuti non fece la fine di Semerari; questi erano convinti di poter vivere in una dimensione alla Ian Fleming.
Racconta la Fanelli: “… Semerari, oltre a essere, come è risultato, membro del Sovrano ordine di Malta, era vicino alla p2, anche se il suo nome non compare negli elenchi della loggia sequestrati a Castiglion Fibocchi.
Nella clinica Villa Mafalda (all’interno della quale Ferracuti fingeva di essere James Bond, ndr) dove Semerari lavorava, venivano spesso “ospitati” cittadini libici. Nell’estate del 1980 il criminologo si recò in Libia, dove incontrò Muammar Gheddafi.
Semerari potrebbe essere stato l’anello di congiunzione tra la p2 e Gheddafi, non a caso nel periodo tra la strage di Ustica e quella alla stazione di Bologna ebbe dei contatti mai chiariti fino in fondo con la Libia e gli Stati Uniti. Il 28 agosto 1980 finì in carcere per l’attentato alla stazione di Bologna, con l’accusa di associazione sovversiva e concorso morale in strage, accusa supportata da un rapporto del SISDE e dell’UCIGOS…”.
Il professor Semerari che aveva fatto troppe cose, proprio come Aldo Moro, era detenuto insieme a Maurizio Abbatino ed era un uomo distrutto.
Sarebbe stato sventrato dagli uomini della Nuova Camorra Organizzata, in quanto faceva il doppio gioco tra la fazione di Cutolo e i suoi avversari con le cosiddette perizie psichiatriche.
3. MARCINKUS TELEFONA A MARIO MENEGUZZI: ALEA IACTA EST
Fa a caldo a livelli simil-parossistici, ma – arrivato faticosamente alla fine di questo labirintico racconto – non ho dubbi: Marcinkus, presa in carico la ragazza, telefona al coperto della linea riservata del 158 ad Agostino Casaroli perché ha consegnato Emanuela ai servizi segreti vaticani sotto la tutela giuridica del segretario di Stato (gerarchicamente più in alto del segretario dell’Istituto delle Opere di Religione): infatti, dalle dichiarazioni rese dallo zio di Emanuela Meneguzzi ai microfoni di “Telefono giallo”, si comprende bene che esse coincidono interamente con l’identikit dell’“Amerikano” redatto da Vincenzo Parisi qualche anno dopo; Casaroli, a questo punto, il n.2, sa bene che se restituisse la ragazzina ai familiari che con strazio attendono il “miracolo”, emergerebbe il suo “affectio societatis” con i Lupi Grigi, ai quali in precedenza lo stesso Casaroli aveva chiesto di attentare alla vita del papa: il ministro degli Esteri del Vaticano ha in mano un’arma di ricatto per salvarsi.
Vediamo subito qual è: ormai i giuochi sono fatti, ed Emanuela può tornare ad abbracciare i suoi cari.
Ma… Casaroli giuoca la carta del ricatto a Wojtyla e Marcinkus per mezzo di una vera e propria estorsione consumata ai loro danni: ho in mano il libro a cura di Mario Almerighi – che fu giudice istruttore del caso Calvi – “I banchieri di Dio”, e leggo delle considerazioni molto belle sulla psiche sofferente di Roberto Calvi, un genio della finanza ma stritolato dai meccanismi del potere occulto a causa delle sue manie di grandezza:
“… Tra i documenti venduti da Carboni a monsignor Hnilica è stata sottoposta a sequestro una lettera che Calvi indirizza al papa in data 5 giugno 1982, cioè dodici giorni prima di venire impiccato sul Tamigi.
Eccone il testo.
“Santità,
ho pensato molto, molto in questi giorni e ho capito che c’è una sola speranza per cercare di salvare la spaventosa situazione che mi vede coinvolto con lo Ior in una serie di tragiche vicende che vanno sempre più deteriorandosi e che finirebbero per travolgerci irreversibilmente.
Ho pensato molto, Santità, e ho concluso che Lei è l’ultima speranza, l’ultima.
Da molti mesi ormai, mi vado dibattendo a destra e a manca, alla disperata ricerca di trovare chi responsabilmente possa rendersi conto della gravità di quanto è accaduto e di quanto più gravemente accadrà se non intervengono efficaci e tempestivi provvedimenti essenziali per respingere gli attacchi concentrici che hanno come principale bersaglio la Chiesa e, conseguentemente, la mia persona ed il gruppo a me facente capo.
La politica dello struzzo, l’assurda negligenza, l’ostinata intransigenza e non pochi altri atteggiamenti di alcuni responsabili del Vaticano mi danno la certezza che Sua Santità sia poco e
male informata di tutto quanto ha per lunghi anni caratterizzato i rapporti intercorsi tra me, il mio gruppo e il Vaticano.
Santità, sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commessi dagli attuali e precedenti rappresentanti dello Ior, comprese le malefatte di Sindona, di cui ancora ne subisco le conseguenze; sono stato io che, su preciso incarico di Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti paesi e associazioni politico-religiose dell’Est e dell’Ovest; sono stato io che, di concerto con autorità vaticane, ho coordinato in tutto il Centro-Sud America, la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io, infine, che oggi vengo tradito e abbandonato proprio da queste stesse autorità a cui ho rivolto sempre il massimo rispetto ed obbedienza.
Santità, la domanda che mi pongo è questa: ma a chi giova un tale atteggiamento? Certo non a me o al mio gruppo, ma, ancora più certamente, non giova agl’interessi morali ed economici della Chiesa.
E allora, Santità, mi convinco sempre di più che chi vuole male alla Chiesa (e non sono in pochi) trova, all’interno di essa, numerosi e autorevoli alleati.
Ora si tratta di stabilire quanto questi alleati sono in buona fede e quanti non lo sono. Dunque, le ipotesi sono due: per quelli che sono coscienti del male che hanno fatto e che potrebbero ancora fare, non c’è alcun dubbio: Lei, Santità, è l’obiettivo! Per quelli che invece sono in buona fede (ed è l’ipotesi meno credibile), Santità, non indugi un secondo, li allontani urgentemente dal loro incarico prima che sia troppo tardi! Certo, occorre molta buona volontà per non dire che bisogna essere ciechi, per non vedere che si sta preparando una grande congiura contro la Chiesa e la persona di Sua Santità.
E ciò è facile dedurlo dalle assurde risposte che si continua a dare alle mie disperate grida di pericolo e ai miei reiterati inviti di chiarimento. Forse, e senza forse, la grande popolarità e simpatia di cui Lei, Santità, gode in molte parti del mondo e l’espandersi di esse preoccupano, e non poco, i Suoi avversari interni ed esterni, sino al punto da far pensare a quelli interni, si capisce, il tanto peggio, tanto meglio!
Gli avversari esterni lo sappiamo chi sono e Lei, Santità, lo sa meglio di tutti e li combatte meglio di tutti; ma quelli interni, interni alla Chiesa voglio dire, e quelli affini, come alcuni democristiani, Lei Santità, li conosce? Io credo proprio di no!
Non sono un pettegolo e neanche uno che accusa per dispetto o per vendetta. E non m’interessa, perciò, soffermarmi sulle tante chiacchiere che essi fanno su alcuni prelati e, in particolare, sulla vita privata del segretario di Stato card. Casaroli (si sa, questo genere di chiacchiere non giova mai alla dignità della Chiesa), ma m’interessa moltissimo segnalarLe il buon rapporto che lega quest’ultimo ad ambienti e a personaggi notoriamente anticlericali comunisti e filocomunisti, come quello col ministro democristiano Nino Andreatta col quale, sembra, abbia trovato l’accordo per la distruzione e spartizione del gruppo Ambrosiano.
Ma a quale disegno vuole o deve obbedire il segretario di Stato del Vaticano? A quale ricatto? Santità, un eventuale crollo del Banco ambrosiano provocherebbe una catastrofe di inimmaginabili proporzioni in cui la Chiesa ne subirebbe i danni più gravi! Bisogna evitarla a ogni costo! Molti sono coloro che mi fanno allettanti promesse di aiuto a condizione che io parli delle attività da me svolte nell’interesse della Chiesa; sono proprio molti coloro che vorrebbero sapere da me se ho fornito armi o altri mezzi ad alcuni regimi di paesi del Sud America per aiutarli a combattere i nostri comuni nemici e se ho fornito mezzi economici a Solidarnosc anche armi e finanziamenti ad altre organizzazioni di paesi dell’Est; ma io non mi faccio e non voglio ricattare; io ho sempre scelto la strada della coerenza e della lealtà anche a costo di gravi rischi! Santità, a Lei mi rivolgo perché solo attraverso il Suo alto intervento è ancora possibile raggiungere un accordo tra le parti interessate e respingere il terribile spettro di una immane sciagura.
Ora, altro non mi rimane che sperare in una Sua sollecita chiamata che mi consenta di mettere a Sua disposizione importanti documenti in mio possesso e di spiegarLe a viva voce tutto quanto è
accaduto e sta accadendo, certamente a Sua insaputa.
Grato e nel bacio del Sacro anello, mi confermo della Santità Vostra
Roberto Calvi
“In realtà, fu proprio Roberto Calvi a non capire che la rottura dei rapporti con i suoi alleati era dovuta, tra l’altro, assai verosimilmente al loro timore di essere coinvolti nelle inchieste giudiziarie nei suoi confronti.
La lettera, a firma autografa di Roberto Calvi, venne prodotta in fotocopia al g.i. di Roma, nel processo relativo alla ricettazione della borsa, dai difensori di padre Hnilica insieme ad altri documenti che Carboni vendette al prelato. Calvi non riuscì a incontrarsi col papa né esiste prova che il papa abbia ricevuto la lettera. La corrispondenza diretta al papa veniva ricevuta dal segretario di Stato, cardinale Casaroli…”.

Che così aveva in mano un documento devastante per ricattare i suoi odiati nemici Karol Wojtyla e Paul Casimir Marcinkus: non può tornare a casa Emanuela, sennò rivelo all’opinione pubblica che siete i mandanti dell’omicidio di Roberto Calvi e io ho i documenti per sostenerlo; anche perché se Emanuela fosse tornata ad abbracciare i familiari, sarebbe stata contestualmente smascherata la complicità dell’Homo Sovieticus della Santa Sede con i Lupi Grigi.
Emanuela muore verosimilmente tra le mura leonine nel 1997, quando Marcinkus si ritira a Cicero inseguito dai suoi fantasmi.
Chissà se in alcuni momenti Wojtyla pensò a dare le dimissioni da Pontefice.
Tra artisti e delinquenti non c’è differenza.
Anzi, gli artisti sono un po’ delinquenti.
Ma bisogna ammettere che il velleitarismo è parte della grandezza, e c’è chi osa superare ogni limite.
Alcuni giocatori vincono e altri perdono.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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