Italo Calvino, figlio e nipote di massoni, non fu iniziato in alcuna loggia, ma, come dalla nascita fosse stato per osmosi domestica antico e accettato libero muratore, tra il 1957 (l’anno di Il barone rampante, edito da Einaudi) e il 1969 (quando pubblicò Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, pubblicato da Franco Maria Ricci) ha scritto le pagine letterarie più dense di evocazioni iniziatiche del Novecento. Nel secondo dopoguerra in Italia la massoneria rimaneva al bando, ignorata e condannata dai nostalgici del regime crollato e, in genere, da avanguardie e retroguardie “intellettuali”. Non v’era partito che non vantasse i suoi editti antimassonici o correnti aspramente avverse alle logge, benché queste contassero in tutto 3-4.000 affiliati in tutt’Italia.
Provato dalla lotta di Liberazione (su cui tornò nei racconti di Ultimo viene il corvo, più crudi e veridici di Il sentiero dei nidi di ragno), Italo Calvino ne uscì con la tetragona certezza che la massoneria fosse ormai relegata nel passato remoto. Lo scrisse in La Riviera di Ponente, suo esordio nel “Politecnico”, la rivista di Elio Vittorini all’epoca vanto di Palmiro Togliatti.
Sintetizzato un millennio e mezzo di epoche storiche e di drammi in una paginetta (invasioni barbariche, incursioni saracene…), Calvino tagliò corto:“ battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della regione. Come conseguenza si ebbe che, al Risorgimento, la borghesia ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini migliori alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle vecchie famiglie borghesi, chi non era bigotto e clericale era nei carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La Massoneria soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie progressive dell’epoca e per temperar ogni slancio rivoluzionario: il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la vita pubblica della Liguria di Ponente: la Chiesa e la Massoneria. E due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il conservatore (clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e temperato dalla Massoneria)…”.
Schematica sino al semplicismo e buona solo per palati storiograficamente spessi, quella frettolosa lettura paleo-classista lasciava aperti tutti gli interrogativi sulla complessità degli intrecci politici, della dialettica non solo culturale e ideale ma anche delle lotte materiali..
Nel 1957 Calvino scrisse Il Barone rampante, “favola” costellata di riferimenti alla massoneria: quella dei Lumi. Voltaire, Rousseau, i rivoluzionari, i giacobini, tutti si affollano nel sogno di aleggiare tra i rami più alti e il cielo, nella Natura naturans, liberi dai lacci di norme mortificanti. Lì, l’anno dopo le riflessioni sul XX Congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica e all’indomani della sua fuoriuscita dal Partito comunista italiano, di conserva con l’Antonio Giolitti di Un socialismo possibile, Calvino iniziò a “scoprire le carte”.
Nella Strada di San Giovanni (racconto del 1961 poi titolo della raccolta postuma edita nel 1990 da Mondadori) Italo Calvino ha vergato il suo “testamento”, come fosse nel gabinetto di riflessione di loggia. Sapeva quel che doveva dire e come dirlo.
Mentre esortiamo, ovviamente, alla sua lettura integrale per coglierne i molteplici livelli interpretativi ai quali si offre, ne richiamiamo i passi più allusivi ed emblematici, con una sintetica quanto indispensabile premessa fattuale. Il padre dello scrittore, Mario, morì settantaseienne il 25 ottobre 1951. Era stato iniziato massone nella “Giuseppe Garibaldi” di Porto Maurizio alla morte di suo padre, Gio. Bernardo. Il 2 novembre 1961 ad Adriano Motti lo scrittore confidò: “proprio dieci anni fa moriva mio padre, e non ebbi allora lo shock della morte, già prevedibile da tempo, ma poi lo sconforto dell’assenza divenne sempre più grande col passare degli anni”. Mentre il partito-chiesa (al quale aveva aderito col freddo entusiasmo di chi rimase sempre libertario venato di anarchia) si mostrava corrivo a divenire partito-spugna, ingravescente aetate Italo intraprese la ricerca del Tempio perduto. Di lì l’evocazione del Padre: gli sguardi elusi, le parole non dette, il dialogo sempre rinviato; la spiegazione della cesura aperta nella fratellanza intergenerazionale per fare spazio a quella orizzontale: il “partito”, una casa editrice, i “lettori”, i corrispondenti, le carte, un “mondo” di parole che si risolvevano nella rarefazione del confronto vero, tra pari, liberi da metalli e da pregiudizi, lasciati alle spalle per andare oltre le Colonne.
La ricerca gli costò più di quanto lasci trasparire il manoscritto di La strada, fitto di ripensamenti, correzioni e richiami, con la miriade di parentesi che abbondano anche nella versione definitiva. Con amarezza incolmabile Calvino vi contrappone l’universo del padre, Mario, agronomo e floricoltore di fama internazionale, al proprio: “Io non conoscevo né una pianta né un uccello. Per me le cose erano mute. Le parole fluivano fluivano nella mia testa non ancorate a oggetti, ma ad emozioni fantastiche”. Scritte nella percezione dell’irrecuperabilità del tempo perduto, le pagine di La Strada sono percorse da guizzi di realismo spietato e di fantasia lirica, sotto il peso della visione dell’“età di nostro padre (che) pareva sempre uguale tra i sessanta e i settanta, un’accanita infaticabile vecchiaia”.
“Ma ciò che muoveva mio padre ogni mattina su per la strada di San Giovanni – e me giù per la mia via – più che dovere di proprietario operoso, disinteresse d’innovatore di metodi agricoli, – e per me, più che le definizioni di doveri che via via mi sarei imposto, – era la passione feroce, dolore a esistere (…) confronto disperato con ciò che resta fuori di noi, spreco di sé opposto allo spreco generale del mondo” (CdA). Calvino rivive in sé l’ossessione paterna: “L’urgenza di cancellare tutto quello che nella sua vita non era San Giovanni, e insieme il senso che San Giovanni, non essendo tutto il mondo ma solo un angolo del mondo assediato dal resto, sarebbe stata sempre la sua disperazione”. Parlava del padre o di sé stesso? Del suo rifugiarsi tra le parole?
Giunto finalmente alla meta e prima di riprendere il cammino all’inverso, lo scrittore ammicca alla ri-velazione. In una sola riga dice e nasconde il senso compiuto del “passaggio obbligato” per far partecipi della sua quotidiana iniziazione: “La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell’antico casolare di Cadorso (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case…”.
D’altronde sull’inizio del racconto lo scrittore aveva lasciato cadere la chiave di lettura, quasi a caso: “Parlarci era difficile. Entrambi d’indole verbosa, posseduti da un mare di parole, insieme restavamo muti, camminavamo in silenzio a fianco a fianco per la strada di San Giovanni”.
Dei balenii della Vera Luce parlammo, Italo Calvino e chi scrive, un pomeriggio dell’ottobre 1973 nella vigna degli Einaudi a San Giacomo di Dogliani, ove Leo Valiani e Ruggiero Romano avevano presentato gli Scritti economici, storici e civili di Luigi Einaudi. Dai Tarocchi, dopo pochi filari, passammo alla Massoneria, ai Riti, ai Simboli. Sostò sulla cima del colle, volgendo lo sguardo all’intorno per gustare l’immensa pace di un paesaggio tormentato e umanizzato con secoli di fatica, quello della Malora di Beppe Fenoglio e del suo sempre rimpianto Cesare Pavese. Fissò in silenzio, assorto. Non guardava. Vedeva altro. Iniziato senza bisogno di speciali “cerimonie”, stava sotto la Volta del Cielo, semel abbas, semper abbas, come “li maggior sui”.
Aldo A. Mola