Ma servono ancora queste esposizioni?
Una Biennale da dimenticare quella curata quest’anno dalla francese Christine Madel, donna inserita nel gotha di quel mondo che più che artistico è finanziario il quale, come i futures di Wall Street, considera capolavori da vendere a milioni di dollari la manzoniana merda d’artista o il vaffa di Cattelan. Di arte, quella vera, neanche traccia. Almeno due anni fa il curatore nigeriano Enwezor aveva presentato alcune idee interessanti. Quest’anno terra desolata. Con l’aggravante di una stucchevole impostazione retorica immigrazionista, dimostrazione che sono soprattutto gli europei, più che gli africani, a decretare la scomparsa di quel poco che resta dell’agonizzante cultura occidentale. Prova ne è il penoso padiglione centrale gestito dal danese (ma dai! guarda che coincidenza!) Olafur Eliasson, intitolato “Green Light” (allestito in collaborazione con – udite udite- il comune di centrodestra veneziano, la prefettura che impone “l’accoglienza diffusa” e l’immancabile Emergency) in cui 80 “migranti” dall’aspetto tra l’imbarazzato e il divertito (li chiamano “richiedenti asilo”, “rifugiati”) si applicano a costruire lampade che vengono poi vendute a 250 euro, un modo per finanziare il solito business dell’accoglienza in modo “artistico” e per prendere in giro le anime belle della pelosa solidarietà cattocomunista. A questo andazzo si accoda volentieri il padiglione olandese, che smercia la solita sbobba della meraviglia della società multietnica e multiculturale, quella stessa società che sforna kamikaze a go go in Gran Bretagna, Francia, Belgio, Svezia… e verso la quale anche noi allegramente guardiamo come l’inevitabile futuro. I finlandesi in un blasfemo e irridente video di 1 ora buttano a mare e ridicolizzano tutta la loro storia, fatta anche di eroismi e di civiltà. Gli austriaci mettono in mostra un camion capovolto. E così via. Con l’eccezione del raffinato padiglione belga che propone le evanescenti e spettrali fotografie vintage del fiammingo Dirk Braeckman e dei sempre suggestivi russi (che con i soldatini di Brushkin riflette sull’annoso e quanto mai attuale problema del totalitarismo) e lettoni (le opere “magiche” di Mikelis Fisers), tutto il resto è noia, o puro mercato. Il più deprimente di tutti è il Padiglione Italia con le solite scene ripugnanti di decomposizione, corpi in naftalina, specchio del mondo marcio in cui siamo immersi, facile terra di conquista per genti più vitali di noi. Il tutto condito con i soliti interventi blasfemi, ridicolizzanti il retaggio religioso cristiano. Ma forse questi artisti non si sono accorti che questo retaggio è già tramontato da tempo e continuano a sparare sulla Croce Rossa. Un discorso a parte merita il Padiglione Venezia curato da Stefano Zecchi. L’idea del filosofo nato in Laguna è buona: recuperare la tradizione artigianale, mettere in mostra il meglio delle nostre produzioni all’insegna del “lusso”. Ma il risultato è deludente e sfiora il kitsch senza forse neanche rendersene conto. Comunque fa un effetto straniante ed è un’ottima provocazione controcorrente, circondato com’è dagli orrori dell’arte mercato guidata dall’ideologia orwelliana del politicamente corretto.
di Andrea Colombo