La campana armena e il silenzio dell’Occidente

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Il genocidio degli armeni è avvenuto un secolo fa, ma la cortina di silenzio su questi fatti è sempre più impenetrabile. Perché?

Fra poche settimane ricorrerà il centesimo anniversario del genocidio degli armeni perpetrato dalla Turchia ottomana nel 1915. La data simbolo del primo genocidio del novecento, pervicacemente negato da una Turchia sempre più desiderosa di entrare nell’Unione Europea, è il 24 aprile. Quel giorno, le autorità ottomane arrestarono in una notte centinaia tra intellettuali, giornalisti, artisti e scrittori della comunità armena di Costantinopoli. Fu un attacco mortale al libero esercizio di un pensiero e di una cultura diversa, gelosa della propria identità quanto perfettamente integrata nel contesto socio-economico del Paese. Una cultura millenaria che solo grazie alla tenacia e al coraggio dei pochi sopravvissuti, non è andata completamente perduta. Mentre in Medio Oriente, e sempre più spesso a pochi chilometri da noi, si assiste a massacri frutto dell’intolleranza e dell’odio del diverso, quella data, divenuta simbolo di una carneficina costata la vita a un milione e mezzo di persone inermi, torna prepotente in tutto il suo valore. Interroga di nuovo l’Occidente.
Il silenzio della Comunità europea sulla questione armena non riguarda solo i drammatici eventi accaduti un secolo fa. E’, in qualche modo, la premessa dell’indifferenza di oggi e di una certa armenofobia che non ha mai cessato di esistere . La comunità cristiana armena di Siria ne è un triste esempio: Chiese armene apostoliche e cattoliche distrutte o barbaramente piegate al culto islamico, migliaia di profughi armeni costretti ad abbandonare ancora le loro case: una nuova diaspora. Succede ad Aleppo, dove terroristi affiliati al gruppo di Jabhat al-Nusra, quello che è Al Qaeda in Siria, hanno raso al suolo la Chiesa di Deir al-Zor, cittadina nell’est del Paese dove trovarono la morte migliaia di disperati armeni in fuga dalla Turchia alla tragica conclusione del Genocidio. Ricordo perfettamente che bastava sollevare 20 centimetri di sabbia per veder riaffiorare le ossa di quella povera gente, sopravvissuta miracolosamente alle milizie dei Giovani Turchi e morta lì, di stenti.
La Chiesa di Deir al-Zor era un simbolo del genocidio, un piccolo monumento eretto a ricordo di quei fatti drammatici contenente le spoglie dei nostri cari. Non solo pietre, ma anche le ossa e i teschi di quelle vittime sono state fatte esplodere dagli uomini di Jabhat al-Nusra. Oggi non ne resta più nulla, mentre si è “miracolosamente” salvato tutto il resto, lì intorno. C’erano circa 100mila armeni in Siria prima dell’inizio del conflitto. Una comunità molto ben integrata, concentrata prevalentemente nella città di Aleppo ma anche nella vicina Kassab, un pezzo dell’antica Cilicia dove gli armeni vivevano dall’XI secolo, saccheggiata esattamente un anno fa. Oggi ne sono rimasti solo 30mila. A centinaia, raccontano da Aleppo o Damasco, sarebbero morti, rapiti o scomparsi. Jabhat al-Nusra, dopo anni di rivalità, oggi è molto vicino, se non alleato, dello Stato islamico, l’ISIS, nel nome di una risposta comune alla presunta guerra dell’occidente contro l’Islam. Anche gli armeni stanno pagando a caro prezzo le conseguenze di questa situazione. L’esodo dei profughi siriani ha portato in Armenia oltre 13mila disperati, una vera emergenza umanitaria per un Paese di soli 3 milioni di abitanti e, in fondo, povero.
Il governo armeno si è attrezzato come poteva, allestendo non lontano dalla capitale un nuovo quartiere, dal nome significativo di “Nuova Aleppo”, smistando i profughi nelle varie regioni del paese, ivi compresa quella al confine con il Nagorno Karabakh che ha suscitato puntualmente le rimostranze dell’Azerbaigian. La guerra dell’Islam alla comunità armena di Siria è costante e non trascura i simboli. Ha suscitato scalpore fra gli armeni, il fatto che solo qualche mese fa, una Chiesa armena apostolica di Istanbul, nel quartiere di Ortakoy, è stata costretta ad ospitare le danze dei Sufi, i danzatori mistici islamici. Ovviamente è un fatto di sostanza, messo lì per far capire chi comanda. La violazione gratuita, per dileggio, di uno spazio sacro, la dice lunga su come vivano oggi i cristiani in un Paese un tempo capace di ospitare e far fiorire culture diverse in dialogo tra loro.
La Turchia che oggi bussa alle porte dell’Europa non resta certo a guardare. Qualche settimana fa, il 21st Century Turchia Institute con sede ad Ankara, ha stimato che circa 12mila turchi si siano uniti ai combattenti dell’ISIS e del Fronte al-Nusra in Siria e che la Turchia sia oggi diventata la base principale per i gruppi estremisti, punto di passaggio per migliaia di forze armate da e per la Siria. Difficile immaginare che il governo turco sia all’oscuro di tutto. Lecito comunque avanzare qualche dubbio. Alla luce delle stragi e della minaccia del terrorismo, con le pulizie etniche che insanguinano il medio oriente e non solo, è ora che l’Europa rompa il silenzio e chieda il riconoscimento del Genocidio nel suo centenario. L’ammissione di quei crimini da parte della Turchia sarebbe una bella prova di civiltà, essendone la giustizia storica certo uno dei pilastri fondamentali.

Baykar Sivazliyan
Presidente Unione Armeni d’Italia

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