Cosa significa la vittoria del centro-destra a Genova?
Sarebbe sciocco e puerile nascondersi dietro un dito. Queste elezioni, per il momento in cui si sono svolte – la difficile congiuntura economica, la Brexit, le sfide della globalizzazione, la lotta al terrorismo islamico eccetera -hanno avuto un chiaro significato politico. A Genova è stato archiviato un modello amministrativo che ricalcava quello nazionale, dove una sinistra assopigliatutto si era accaparrata le quattro più alte cariche dello Stato – Presidenza della Repubblica, del Senato, della Camera dei Deputati, della Corte Costituzionale: non era mai accaduto neppure negli anni della ‘prepotenza’ democristiana, quando qualcuna di quelle cariche veniva riservata all’opposizione. Al Comune, negli enti da essi controllati e da qualche tempo persino all’Università la logica clientelare del PD ha fatto impallidire quelle dei centro-sinistra storici. Accanto, però, ai fattori locali, a portare Marco Bucci a Palazzo Tursi è stata l’insoddisfazione diffusa nei confronti di un leader, Matteo Renzi, nel quale si erano riposte tante speranze e che a molti appariva il nuovo Craxi, in grado di fare della sinistra tradizionale il sostegno di un new deal liberale in grado di coiugare la libertà di mercato con i diritti sociali delle vittime della trasformazioni economiche strutturali dei paesi europei. La Caporetto di Renzi, a mio avviso, non è quella del 25 giugno ma risale all’anno della rottura del Patto del Nazareno che doveva precludere a una Grosse Koalition tra una destra ragionevole ed europeista (pur con molte fondate riserve) e una sinistra disposta a rinunciare all’antica divisa masochistica. pas d’ ennemis à gauche. All’errore seguì l’arroganza dei toni nella campagna per la riforma della Costituzione. Una riforma pasticciata e votata (come nel caso dello scrivente, contrario al bicameralismo) più in odio ai conservatori della Carta che per intima convinzione – ma in Italia quand’è che non si è votato per il meno peggio? -venne proposta quasi da un solo partito (per di più diviso al suo interno), senza cercare alleanze più ampie, nel fondato timore di dover concedere ad esse qualche sostanziale ritocco. A tutto questo si aggiunge una political culture, buonista con punte da Lettere a una professoressa di don Milani, su cui l’autore dell’analisi politica più acuta da una decina di anni a questa parte, Luca Ricolfi, ha così ironizzato: «La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un valore. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa non è il problema, ma la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra nulla, e che anzi gli attentati potrebbero essere una preziosa occasione per riprendere la costruzione dell’edificio europeo».
Nato nella città di Machiavelli, in realtà Renzi si è dimostrato discendente di quel Pier Soderin il gonfaloniere inetto che morendo, nel 1522, si vide relegare non all’Inferno ma nel Limbo dei bambini.
Sarà in grado, il nuovo sindaco, un imprenditore di successo, di rimediare alla pesante eredità di malgoverno lasciata dalla sinistra genovese? Non ci giurerei. A me basterebbe che la sua Giunta dimostrasse quel senso delle istituzioni, quel rispetto delle competenze nell’attribuzione delle cariche, quell’attenzione alle esigenze e alle paure del popolo che in democrazia resta (non va dimenticato) sovrano, quell’inventiva nel prefigurare vie d’uscita dal declino di Genova che al malinconico Marco Doria – apprezzato come sindaco quanto stimato come docente di storia economica – e ai suoi collaboratori sono del tutto mancati.
di Dino Cofrancesco