La Cina vista da Brzezinsky somiglia molto alla più avanzata società capitalistica. Ma non dobbiamo dimenticare i diritti civili, la certezza del diritto, le stesse libertà fondamentali, veri capisaldi della civiltà occidentale
Che fine ha fatto il realismo politico di Henry Kissinger?
Alla Casa Bianca non c’è un Weltanschauunger come lo sfortunato uomo del Watergate Richard Nixon, ma un personaggio che somiglia molto a “Il padrino e l’avvocato” di Enrico Deaglio: lo showman clinicamente borderline Donald Trump ha dichiarato guerra commerciale alla Cina, rifugiandosi nell’illusione dell’autarchia. Ma la Mano Invisibile della Nuova Via della Seta, il più grande piano di infrastrutture nella storia nota dal lato dell’autoregolamentazione dell’offerta nella Grande Recessione 2007-2019 segnata dal default dello Stato Imprenditore, non potrà essere arrestata e farà il suo corso. Essa ha un antefatto di cui nessuno (veramente nessuno) vuole parlare.
Era il maggio del 1989 quando l’analista polacco del Dipartimento di Stato americano Zbgniew Brzezinsky, già fondatore della Trilateral Commission, dava alle stampe un “fecondo capolavoro di sintesi storica e di analisi politica” sul fallimento dell’ideologia comunista nel mondo (vedi Jean Francois Revel), alla voce “Il grande fallimento – Ascesa e caduta del comunismo nel XX secolo”. Dalla “grandiosa semplificazione” di Lenin passando per il Grande Balzo in Avanti di Mao alle riforme di Deng, il cosmopolitismo di Brzezinsky si contrapponeva idealmente al provincialismo marcusiano di Giorgio Galli. Secondo il migliore amico di Giovanni Paolo II, la Cina come establishment e società civile non era e non è la “bestia nera” del socialismo utopico di cui parlano con mendacità i Rampini e i Giordano, ma la più avanzata società capitalistica del mondo nella liaison tra business e giustizia sociale, o addirittura: la realizzazione pratica dell’ideale della “società aperta” agognata dal filosofo pratico George Soros. La parola a Brzezinsky. Ecco una suggestiva descrizione del cosiddetto “Piano Shatalin cinese”: a Mosca non ha avuto successo, a Pechino sì. Perché nelle società avanzate la teoria perde importanza:
“Alla fine del 1987 le prime riforme cinesi avevano già dato frutti tangibili. Le realizzazioni più imponenti e le innovazioni inizialmente più audaci dal punto di vista dottrinario avevano avuto luogo in agricoltura. I risultati erano stati per i leader cinesi fonte di soddisfazione e di fiducia nello svolgimento della loro azione. Iniziata con il plenum del Comitato centrale del 1978, la decollettivizzazione (o decomunistizzazione) progressiva dell’agricoltura cinese aveva dato luogo a un notevolissimo aumento di produttività. Per la precisione, nel giro di alcuni anni la Cina era passata da importatrice a esportatrice di derrate alimentari – in netto contrasto con il suo vicino comunista del nord, che anche sotto Gorbaciov restava bloccato dai vincoli rappresentati dal suo disastroso sistema collettivistico. Ma questa riforma comportava profonde conseguenze ideologiche. Significava che la stragrande maggioranza del popolo cinese non sarebbe più vissuta all’interno di un ambiente comunista, modellato in base agli imperativi ideologici. Anzi, una volta acquisito il diritto di riscattare la propria terra con la formula del prestito a lungo termine e di vendere liberamente i propri prodotti al mercato libero, secondo i prezzi definiti dalle leggi della domanda e dell’offerta, la società rurale viveva ora, in termini economici e culturali, in un ambiente fondamentalmente diverso da quello previsto dai canoni comunisti tradizionali. Questa rottura con il passato comportava de facto l’allentamento inevitabile del controllo diretto del partito su gran parte della popolazione cinese – con grande vantaggio dell’economia del paese.
In questo modo s’indeboliva il controllo politico centralizzato, e si espandeva il potere economico generale della Cina. Parlando di “prestito” della terra ai contadini, e non di cessione di proprietà, si ricorreva a uno stratagemma ideologico per nascondere quella che era una vera e propria decomunistizzazione dell’agricoltura cinese. In senso formale i contadini non erano ancora proprietari, ma affittuari delle terre collettive. In realtà, veniva loro conferito il controllo totale sulla produzione. Inoltre, nel 1987 i funzionari cinesi lasciavano chiaramente capire che sarebbero stati compiuti dei passi ulteriori per stabilire il diritto legale di acquisto e di vendita dei beni in “prestito”, ripristinando, così, a tutti gli effetti il diritto alla proprietà privata. La tendenza a rendere le riforme permanenti e ad ampliarne il campo di applicazione era stimolata, senza dubbio, dal loro evidente successo economico… Una volta aperta la breccia, la storica propensione della società cinese verso l’iniziativa imprenditoriale non tardò a manifestarsi. Secondo un rapporto della CIA presentato al Congresso americano nell’aprile 1988, dal 1987 erano sorte ben 300.000 imprese, per non dire di 20 milioni di altre iniziative del genere, gestite da individui singoli o da una famiglia…”. E ciò voleva dire anche Welfare State cinese, generato da un tourbillon di denaro.
Mentre gli investitori di Pechino bussano alle porte dell’Italia, su Affari e Finanza esce il migliore articolo scritto da Sergio Rizzo nella sua carriera da giornalista “L’economia sovranista e il sogno proibito di una nuova Italstat”. Si parla ancora di Ettore Bernabei, che a Pechino sarebbe stato fucilato per corruzione (così però si passa da un estremo all’altro!). Se i cinesi commerciano con il mondo e cementano la loro social assistance, noi sogniamo il CAF.
Quale futuro attende il nostro Paese che sembra non imparare niente dal suo passato?
di Alexander Bush