La voce di uno storico autorevole si alza per difendere i vitalizi e, con loro, l’intera classe politica
Il voto per il ridimensionamento dei vitalizi dei Parlamentari è un misto di demagogia e di antipolitica. È anche una palese violazione di uno dei capisaldi della civiltà giuridica: l’irretroattività delle leggi. Il suo vero bersaglio sono i “politici” quali protagonisti della storia d’Italia. Prendendo a pretesto condizioni oggettivamente assurde (ma create da norme approvate dal Parlamento e dai consigli regionali), quel voto ha lo scopo di “dare una lezione” a chiunque abbia rappresentato i cittadini alle Camere e nelle Regioni. In sintesi è una “legge” profondamente antidemocratica.
Essa ripropone al centro dell’attenzione l’interrogativo antico: chi sono i “politici”? Secondo il pregiudizio corrente, gonfiato ad arte dall’ormai trentennale polemica contro la “casta”, essi sarebbero una congrega di parassiti, che, occupato il potere, se ne sono assicurati e se ne scambiano profitti e benefici, come fossero feudatari.
Lo prova appunto la legge (palesemente incostituzionale) sulla riduzione delle pensioni ai parlamentari: demagogica e antipolitica, essa declassa la rappresentanza e l’esercizio della sovranità. La sottrae all’investitura da parte degli elettori e la sottopone a gruppi (o “ditte”) più o meno occulti, che si arrogano il diritto di decidere candidature, appartenenza, espulsioni, durata in carica, emolumenti, ecc., in manifesto contrasto con la Costituzione.
Il legislatore ha certo titolo per correggere errori, ma non può cancellare i cosiddetti “diritti acquisiti”. Nello specifico, così com’è configurata, questa “riforma” ha un amaro sapore di “punizione” della dirigenza del primo settantennio della Repubblica, quasi essa sia stata composta solo da inetti e profittatori.
Non v’è dubbio (e le cronache ne furono e ne sono zeppe) che taluni parlamentari abbiano esercitato poco e male la carica e che talora abbiano compiuto reati: ma questo non ha nulla a che vedere con la legittimità dei benefici fissati dalle leggi.
Dalle macerie causate da quella insoddisfatta “voglia di rivoluzione”, che eccitò operisti, cattolici e destre radicali, occorreva uscire col ripristino dei capisaldi dello Stato di diritto: gerarchia e meritocrazia. La storia, però, ebbe altro corso. Ora, in un Paese affannato e in presenza di eventi di gravità estrema (il razionamento dell’acqua nella Città Eterna, l’annunciato fallimento di aziende di trasporto pubblico…), il Paese non ha davvero bisogno di aprire un altro contenzioso tra suoi poteri apicali: a tutto danno dell’immagine della “politica”, patrimonio indivisibile dell’intera storia d’Italia, dalla sua unificazione a quel poco che di coscienza nazionale ancora sopravvive.
La risposta sta nel ritorno al primato della politica e del suo vero fondamento: la Storia.
di Aldo A. Mola